Nella mente di Putin
di Evan Osnos, David Remnick, Joshua Yaffa
Bersagli facili
Il 12 aprile del 1982, Yuri Andropov, presidente del kgb, ordinò ai servizi segreti stranieri di adottare «misure attive» (aktivniye meropriyatiya) contro la campagna di rielezione del presidente Ronald Reagan. A differenza dello spionaggio classico, che consiste nel raccogliere informazioni confidenziali di altri paesi, le misure attive hanno lo scopo di influenzare gli eventi, di indebolire una potenza avversaria attraverso falsificazioni, gruppi di facciata e tutta una serie di tecniche affinate durante la Guerra fredda. Il governo sovietico considerava Reagan un implacabile militarista. Secondo le estese annotazioni di Vasili Mitrokhin, un alto ufficiale e archivista del kgb che ha poi disertato in Gran Bretagna, i servizi segreti sovietici provarono a infiltrarsi nel Comitato nazionale repubblicano e in quello democratico, diffondendo lo slogan “Reagan significa guerra!” e screditando il presidente in quanto schiavo corrotto dei poteri industriali e militari. Il tentativo non produsse effetti tangibili e Reagan vinse in quarantanove stati su cinquanta.
La misure attive furono impiegate da entrambe le parti, durante la Guerra fredda. Negli anni Sessanta, gli ufficiali dei servizi segreti sovietici misero in giro la diceria che il governo statunitense fosse coinvolto nell’omicidio di Martin Luther King; negli anni Ottanta, sparsero la voce che i servizi segreti americani avessero “creato” il virus dell’aids a Fort Detrick, nel Maryland; inoltre prestarono sostegno costante ai partiti e alle rivolte di sinistra. La cia, dal canto suo, si adoperò per rovesciare i regimi instaurati in Iran, a Cuba, ad Haiti, in Brasile, in Cile e a Panama. Usò i contanti, la propaganda e talvolta la violenza per impedire che la sinistra vincesse le elezioni in Italia, Guatemala, Indonesia, Vietnam del Sud e Nicaragua. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nei primi anni Novanta, la cia chiese alla Russia di abbandonare le misure attive di disinformazione che avrebbero potuto nuocere agli Stati Uniti. La Russia promise che lo avrebbe fatto, ma quando Sergeij Tretyakov, capo della base dei servizi segreti russi a New York, disertò, nel 2000, rivelò che le misure attive di Mosca non erano mai state ridimensionate. «Non è cambiato niente», scrisse nel 2008, «la Russia sta facendo tutto ciò che può per mettere in difficoltà gli Stati Uniti».
Vladimir Putin, che non perde tempo nell’accusare l’Occidente di ipocrisia, tira fuori spesso questa storia. Vede un filo diretto fra il sostegno offerto dall’Occidente alle “rivoluzioni colorate” antirusse scoppiate in Georgia, in Kirghizistan e in Ucraina, che hanno deposto leader sovietici corrotti, e l’appoggio dato alle rivolte della Primavera araba. Cinque anni fa ha accusato il segretario di Stato Hillary Clinton di aver fomentato le proteste di piazza Bolotnaya contro il Cremlino. «Ha manovrato gli attivisti e ha dato il segnale», afferma Putin, «loro lo hanno sentito e, con l’aiuto del Dipartimento di Stato americano, sono passati all’azione» (non è stata fornita alcuna prova a sostegno di tale accusa). Per lui le ong e i gruppi come la National Endowment for Democracy, Human Rights Watch, Amnesty International, Memorial e l’organizzazione indipendente di monitoraggio elettorale Golos non sono altro che malcelati strumenti di sovversione.
I funzionari statunitensi, a capo di quel sistema che Putin vede come una terribile minaccia al suo stesso sistema, rigettano la sua retorica in quanto whataboutism (il concetto del “senti chi parla”), una strategia che consiste nel giustificarsi rinfacciando le colpe dall’avversario e creando false equivalenze morali. Benjamin Rhodes, viceconsigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama, è fra quelli che rifiutano la logica di Putin, eppure ha ammesso che «non ha tutti torti», aggiungendo che in passato «gli Stati Uniti hanno cercato di abbattere regimi totalitari in tutto il mondo. Abbiamo poco da parlare, in effetti».
La campagna presidenziale statunitense del 2016 è stata seguita da Putin con profondo interesse. Detestava Obama, che aveva sanzionato i suoi collaboratori dopo l’annessione della Crimea e l’invasione dell’Ucraina orientale (la televisione di Stato russa lo ridicolizzava, dicendo che era “debole”, “primitivo” e “senza palle”). Con la Clinton sarebbe stato ancora peggio, era l’incarnazione dell’interventismo liberale insito nella politica estera americana, più aggressiva di Obama, un ostacolo alla fine delle sanzioni e al ripristino dell’influenza geopolitica russa. Allo stesso tempo Putin ha corteggiato abilmente Trump, i cui commenti sulla forza e il valore del leader russo sono stati insolitamente positivi. Già nel 2007, Trump disse che Putin stava «facendo un ottimo lavoro nel ricostruire l’immagine della Russia e nel ricostruire la Russia in generale». Nel 2013, prima di recarsi a Mosca in occasione di Miss Universo, Trump si domandò, in un tweet, se avrebbe incontrato Putin e se, in tal caso, non sarebbe potuto diventare il suo nuovo migliore amico. In campagna elettorale, si è divertito a dire che Putin è un leader superiore, che ha «coperto di ridicolo» il governo di Obama.
Bersagli ancor più facili con la rete
Per chi vuole impiegare misure attive, l’era digitale offre opportunità molto più allettanti di qualunque mezzo esistesse ai tempi di Andropov. Il Comitato nazionale democratico e quello repubblicano garantivano quella che gli esperti di sicurezza informatica definiscono un’ampia “superficie d’attacco”. Pur concentrandosi al massimo sulla politica, non godevano della protezione riservata alle istituzioni governative più esposte. John Podesta, presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton e capo gabinetto della Casa Bianca sotto Bill Clinton, avrebbe dovuto sapere quanto fossero fragili le moderne comunicazioni. Quando era alto consigliere di Obama, si occupava anche delle politiche digitali, eppure non ebbe l’accortezza di adottare la più elementare misura di protezione per la sua posta elettronica, cioè la verifica in due passaggi.
«La verità è che io e i miei collaboratori faceva...