Capitolo 1
Storia della Scuola Austriaca
La storia della Scuola Austriaca di economia è indissolubilmente legata a quella della rivoluzione marginalista, un radicale avanzamento del pensiero economico avvenuto all’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento: tre economisti, l’austriaco Carl Menger, l’inglese William Stanley Jevons, e il francese Léon Walras, formularono un concetto fondamentale, il principio marginale, procedendo alla completa ricostruzione dell’intero edificio dell’economia teorica.
Questa rivoluzione fu portata avanti secondo linee differenti dai tre autori: la Scuola Austriaca nasce dall’opera di Menger, mentre l’approccio che ha avuto più successo è stato quello di Walras, da cui discende la teoria economica “accademica”, che chiameremo, un po’ impropriamente, “neoclassica”. Praticamente tutta l’economia moderna è marginalista, ma le differenze tra i due approcci, quello di Menger e quello di Walras, sono tuttora rilevanti.
Il termine “austriaco”, originariamente, fu coniato dagli “economisti” della giovane scuola storica tedesca di economia, con il fine di denigrare Menger e, successivamente, i suoi primi discepoli (come Eugen von Böhm-Bawerk). Ma quando, negli anni Trenta e Quaranta del Ventesimo secolo, gli esponenti più importanti della Scuola Austriaca di allora, Ludwig von Mises e Friedrich August von Hayek, emigrarono, rispettivamente, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, il legame “geografico” con l’Austria venne a mancare, tant’è che, ormai da diversi decenni, gran parte degli economisti della Scuola Austriaca, da Murray Newton Rothbard (il più importante allievo americano di Mises) e Israel Kirzner in poi, non sono più di nazionalità austriaca.
Carl Menger (1840-1921)
Carl Menger è stato il fondatore della Scuola Austriaca. I suoi contributi spaziano dalla teoria del valore a quella dei prezzi e della produzione, estendendosi anche alla teoria delle istituzioni e alla metodologia delle scienze sociali.
La sua prima importante opera, Principi fondamentali di economia (Rubbettino, 2001), del 1871, contiene di fatto gran parte dei concetti di base della Scuola Austriaca, successivamente approfonditi e integrati dagli autori successivi.
Menger chiarì che lo scopo della teoria economica era lo studio dei beni “scarsi”, i beni cioè che servono al perseguimento degli obiettivi degli uomini, ma che non sono disponibili in quantità sufficiente per realizzarli tutti. Di conseguenza, l’essenza dell’economia è l’azione in condizioni di scarsità, e quindi ogni individuo agisce economicamente quando economizza i mezzi in vista dei suoi fini.
Da questo principio Menger derivò l’intera teoria dei prezzi, operando un ribaltamento concettuale radicale rispetto alle precedenti teorie, secondo cui il costo di ogni merce dipendeva dalle spese monetarie necessarie a completarne la produzione. Il tutto era una pseudo-spiegazione, in quanto non era chiaro da cosa derivassero i costi di produzione stessi. Menger ribaltò la faccenda, dividendo i beni in “ordini”: i beni del prim’ordine sono quelli che soddisfano un bisogno immediato, quelli del secondo ordine sono quelli necessari a produrre i beni del prim’ordine, eccetera. I beni del prim’ordine sono il “fine” dell’economia, in quanto i beni di ordine superiore rappresentano solo mezzi per raggiungere lo scopo, il conseguimento del fine. Ne deriva che il valore di un mezzo di produzione dipende dal contributo che può effettivamente dare alla produzione dei beni del prim’ordine, e non viceversa.
Viene quindi a ribaltarsi anche il rapporto tra fattori soggettivi e fattori oggettivi: sono la valutazione del fine, e la valutazione dell’adeguatezza del mezzo, due elementi “soggettivi”, perché individuali, che determinano i costi, e non sono gli immaginari costi “oggettivi” a determinare i prezzi. Il prezzo che i consumatori sono disposti a pagare per oggetti nella cui produzione è impiegato l’acciaio determinano il valore delle miniere di ferro.
Sempre dal principio del valore soggettivo si riesce a spiegare il perché dello scambio. Se si ritenesse, infatti, che il valore sia una caratteristica della merce, e non una valutazione dell’individuo che quella merce domanda o offre, lo scambio non avrebbe nulla da contribuire al valore: solo la produzione sarebbe un atto significativo per l’economia. Ma non è vero: se un individuo ha due fette di pane, e un altro ha due fette di prosciutto, scambiando una fetta di pane con quella di prosciutto possono ottenere entrambi un panino intero: il risultato è vantaggioso per entrambi. Ma questo perché il valore è soggettivo: se fosse oggettivo, insito nella merce, lo scambio non potrebbe influenzare il valore. Se lo scambio dovesse avvenire solo tra merci di ugual valore (altrimenti, chi darebbe via un qualcosa per ottenerne un’altra di valore inferiore?), a cosa servirebbe? Dato però che il valore è soggettivo, è possibile che si diano valori diversi allo stesso oggetto, e lo scambio può creare valore per tutti se permette di ottenere beni di valore maggiore di quelli che si danno via.
Tra gli altri contributi fondamentali, di Menger va ricordata la teoria dell’origine della moneta, e, più in generale, delle istituzioni sorte per via evolutiva. La teoria di Menger parte da una situazione di baratto, inefficiente e poco produttiva, e mostra come alcune merci comincino ad essere usate come pseudo-monete, fino alla creazione di un sistema monetario completo... opera dell’azione umana, ma non del progetto umano. Tale struttura di spiegazione può essere estesa per spiegare anche l’origine del linguaggio, del diritto e di molte altre istituzioni umane: in un linguaggio più moderno, si parla di “ordine emergente” quando un sistema complesso ha proprietà che non erano “previste” dall’origine, proprietà che si sviluppano “evolutivamente” man mano che il sistema si sviluppa.
L’altra opera fondamentale di Menger è Sul metodo delle scienze sociali (Liberilibri, 1996), del 1883. In quest’opera, Menger difende la teorizzazione economica contro gli attacchi della giovane Scuola Storica Tedesca di economia, che voleva studiare l’economia basandosi soltanto su fatti storici, senza alcuna attenzione per la teoria e l’astrazione. L’essenza del problema deriva dal fatto che l’osservazione di un fenomeno economico come la moneta richiede già di per sé una teoria: nella storia si è usata come moneta il sale, l’oro, addirittura le sigarette... i concetti sottostanti al fenomeno della moneta non derivano dall’osservazione (oro e sale hanno poco in comune), ma dalla riflessione teorica. La necessità della teoria e la complessa relazione tra teoria e storia rappresentano un tema fondamentale per tutti gli austriaci, ed è uno dei fattori caratterizzanti di questa Scuola.
Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914)
Böhm-Bawerk fu il più noto allievo diretto di Menger, ed è celebre per la sua opera Capitale e interesse (Archivio Guido Izzi, 2002), del 1884, soprattutto per il secondo libro, La teoria positiva del capitale, in cui espone la sua teoria del valore, dei prezzi, del capitale e del mercato. È anche noto per opere minori, come la critica puntuale del sistema economico marxista, esposta in La conclusione del sistema marxiano (etas, 2002).
Il problema maggiore affrontato da Böhm-Bawerk è la spiegazione del fenomeno dell’interesse; egli introdusse il concetto di preferenza temporale, cioè la preferenza per le merci presenti rispetto a quelle future. Da questa preferenza, chi fornisce oggi strumenti di produzione (e quindi si astiene dal consumare subito) è disposto a farlo perché in futuro ritiene che avrà a disposizione una quantità di merci superiore a quella che si è astenuto oggi dal consumare. È infatti difficile immaginare che le persone preferiscano dodici uova domani piuttosto che oggi, mentre è possibile che siano disposte a sacrificarne dodici oggi per averne tredici domani.
L’opera di Böhm-Bawerk fornì le basi per la teoria di Knut Wicksell dell’interesse “naturale”. Le idee di Wicksell, un economista svedese, furono poi riportate nella tradizione Austriaca da Ludwig von Mises, consentendo finalmente di integrare teoria monetaria e teoria del capitale.
Una delle critiche più frequenti a Böhm-Bawerk riguarda la nozione di “tempo di produzione”. Böhm-Bawerk, ritenendo l’interesse il “prezzo del tempo”, e la dotazione di capitale di una società come una sorta di “tempo totale immagazzinato” dalle generazioni tramite gli investimenti, ritenne di poter descrivere la struttura della produzione tramite un “valor medio” del tempo impiegato nella produzione. La critica successiva ha poi smontat...