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Filandieri, mercanti di seta e negozianti
1 – Seta, case e terre
Risale alla metà del secolo xviii il primo documento noto riguardante i Donati di Fossombrone. Si tratta dell’àpoca matrimoniale, redatta il 16 febbraio 1757 dal pievano del Castello di Sant’Ippolito don Andrea Fabbri, in cui Domenico Rossi, padre dell’“onesta zittella Sig.ra Antonia sua figlia legittima, naturale, e il Signor Filippo Donati di Fossombrone”, pattuivano le condizioni contrattuali del matrimonio tra Antonia e lo stesso Filippo: in sostanza la dote con cui la famiglia della sposa, per parte sua, provvedeva al “gran peso del matrimonio”. E di “mille e duecento scudi romani”, 670 in moneta e gli altri distribuiti in tre censi – cifre (la ‘sorte’) prestate a terzi su cui erano infissi precisi interessi –, era la dote della famiglia Rossi (asp1). La sua consistenza – 1.200 scudi potevano valere un terreno agricolo di 3 ha ca. con casa colonica, oppure un edificio cittadino su più piani di 250-300 mq – segnala la condizione d’agiatezza tanto dei Rossi, famiglia di rinomati scalpellini (Savelli1), quanto dei Donati, possidenti, mercanti e filandieri di seta. Per questi ultimi, i dati riguardanti i fornelli – o caldaie – presenti nelle varie filande e filandine di Fossombrone attorno al 1760 indicano in n. di 10 quelli della filanda di Filippo Donati: la terza per capacità produttive (Vernarecci). Nella generale crescita del settore della filatura – o trattura, cavatura – avutasi a Fossombrone nel corso del ’700, i Donati erano certo tra i “moltissimi altri Mercanti, e civili Persone (che) nelle loro Abitazioni adottato anno il Commodo per la cavatura della Seta”, di cui scriveva il conte Giuliano Tenaglia nel 1767 (bcf1). E una circolare a stampa del 1826 di uno dei figli di Filippo, Alessandro, confermava questa condizione: “La mia Casa è fra le più antiche che abbia onoratamente esercitato in Fossombrone la Mercatura in varj rami e particolarmente in Seta, sì per conto proprio, che per commissione d’Amici, tanto esteri che nazionali” (asp2). L’ambiente in cui operava la filanda dei Donati era uno stanzone a piano terra, affacciato a meridione, di un palazzo sito in contrada Porta dei Molini, ‘Via Cattolica’ (oggi ‘Luigi Donati’), avente un fronte di metri 37 che terminava all’incrocio di detta strada con l’allora ‘Via dei Molini’ (oggi ‘Francesco M. Torricelli’). Nelle stampe con vedute della città, realizzate tra fine xvi e prima metà del xviii sec. da cartografi e geografi quali i Bertelli, Johannes Blaeu, Pierre Mortier e Thomas Salmon, il palazzo dei Donati è assente, pertanto la sua edificazione va fatta risalire alla seconda metà del xviii sec. Dell’ampia dimora è stata conservata, tra le carte del notaio Antonio Panzini, una pianta eseguita nel 1783 quando una contrastata vicenda familiare avrebbe dovuto portare a una divisione in cinque, indipendenti, parti abitative della stessa (asp1) [vedi Figura 1]. Il palazzo, in realtà, rimase nel tempo sede dell’intera famiglia Donati e fu registrato dal brogliardo catastale della ‘Città di Fossombrone’, datato 26 luglio 1813, poi accolto dal ‘Catasto Gregoriano’, in questi termini: “N. di mappa: 256. Possessore: Donati Alessandro quondam Filippo. Qualità: Casa con corte di propria abitazione” (asr1). Sempre sul lato meridionale dell’edificio, agli inizi del xix sec., fu aggiunta – come ricordava nel 1811 uno dei fratelli d’Alessandro, Francesco Maria – alla vecchia una “filandra di nuova Fabbrica” (asu1); ragione per la quale, nel 1826, Alessandro – impiegando il più eufonico ‘filanda’ – poteva far riferimento alla propria “casa d’abitazione con filanda di 20 Caldaie da Seta” (asp2). Filandieri e mercanti, i Donati raggiunsero una considerevole agiatezza che, oltre ad essere testimoniata dalla loro residenza cittadina, cui nel tempo altri edifici s’aggiungeranno, trovava conferma nel reimpiego dei profitti dell’attività manifatturiera in fondi rurali. Alla morte di Filippo, nel 1780, cinque erano le proprietà della famiglia, distribuite tra il circondario di Fossombrone, i castelli di Montalto, Sant’Ippolito e la località urbinate di Calmazzo; terreni che i periti, nel 1783, stimavano del valore di 8.237 scudi (asp1). In seguito, con i figli Francesco M. e Vincenzo, i fondi rustici, tanto comuni che personali, saliranno di numero entrando però, sempre più spesso, nel circuito delle transazioni finanziarie imposte alla famiglia dalle necessità produttive o commerciali delle loro attività di filandieri.
2 – L’esercizio delle armi
Il nome del capostipite della famiglia, Filippo, compare nei documenti dell’epoca introdotto o dal titolo di ‘Signore’ o da quello di ‘Capitano’. Qui ci si soffermerà su questo secondo appellativo cercando di esaminarne i risvolti sia familiari che, più ampiamente, sociali. Diciamo subito che non sappiamo se il grado di capitano egli l’avesse acquisito da ufficiale dell’esercito dello Stato della Chiesa o del corpo delle guardie nobili del Papa. Non possiamo, in assoluto, escludere questa eventualità. È, però, più probabile che tale grado rimandi al suo ruolo di comandante della locale milizia cittadina, non professionale ma volontaria. Non è, però, da scartare una terza ipotesi: che cioè Filippo avesse militato nell’esercito regolare o prestato servizio tra le guardie nobili del Papa, vi fosse stato congedato col grado di ‘capitano’ e, in seguito, rientrato in patria, si fosse prestato a organizzare il locale corpo della milizia cittadina. Tutta una serie di ‘attrezzi del mestiere’ registrati in un inventario notarile del 1783 – selle da cavallo, briglie, staffe, “valdrappe” (gualdrappe – ndr), sciabola, spade, daghe e fucili (asp1) – indirettamente ce lo mostrano impegnato sia in esercitazioni di campo che nella pompa delle solennità cittadine. Alla sua morte, strumenti ed armi dovettero passare ai figli che ne seguiranno le orme: il “capitano” Francesco Maria e il “tenente” Vincenzo (bmm1). I corpi di milizia cittadina – o guardia civica – nascevano su base volontaria durante evenienze belliche, ma operavano anche in tempo di pace con lo scopo di provvedere all’ordine pubblico. Essi erano formati da personalità appartenenti sia alla nobiltà che al composito ceto borghese: possidenti, negozianti, capi di associazioni artigiane, bottegai. La loro costituzione – è stato opportunamente fatto notare (Giampietri) – rappresentò una prima occasione di esperienza ‘democratica’ sviluppatasi entro una compagine sociale, quella dell’ancien régime, fortemente gerarchizzata, infatti le nomine a ufficiali avvenivano tramite votazioni, seppur poi confermate dall’alto. Tra i componenti di tali milizie riviveva, inoltre, lo spirito di un mai sopito repubblicanesimo cittadino, una ‘virtus’civica che, nel concreto e generoso impegno militare, legittimava le aspirazioni di ceti e gruppi sociali esclusi dai livelli politici del governo locale. La vocazione dei Donati all’esercizio delle armi sarà anche, certo in una prospettiva diversa, ‘popolare’ e rivoluzionaria, di un altro figlio di Filippo, Alessandro. Costui, animato di fervidi spiriti democratici e intensamente partecipe delle vicende che condurranno alle Repubbliche filo-francesi di fine secolo, sin dal febbraio del 1797, si pose a “capo” della “guardia repubblicana” di Fossombrone. Da essa, l’anno successivo, per l’aspra contesa in corso con esponenti dell’ala più tradizionalista dell’aristocrazia cittadina, pronti a far valere senza troppi scrupoli la loro primazia anche nella nuova stagione ‘giacobina’, fu allontanato benché “accesamente aspirasse al comando della guardia nazionale” (Vernarecci). A questa pratica delle armi rimanda anche il grado di “sergente” assegnato all’omonimo figlio di Alessandro, che fu membro della numerosa “Compagnia Civica” formatasi nell’aprile del 1848 quando anche lo Stato pontificio si trovava in piena campagna militare contro l’Austria (bcf3). Infine, lo stesso grado passerà al primogenito di costui, un nuovo Alessandro, che nel 1863 sarà nominato “Sergente foriere, relatore” della Guardia Nazionale cittadina (Bucchi). Entro dunque una consolidata tradizione di famiglia che non conobbe, per un secolo all’incirca, soluzioni di continuità, non si può tuttavia fare a meno di rilevare la progressiva perdita di prestigio delle cariche militari, dovuta a intuibili ragioni che, in ogni caso, saranno più chiare in seguito. Tornando al capostipite della famiglia, Filippo, una testimonianza ce lo restituisce nella sua veste pubblica, sottolineandone la prolungata ospitalità offerta nella propria dimora alla massima autorità politica della Legazione, impegnata nei vari conciliaboli che proprio a palazzo Donati si tenevano attorno alla ricostruzione del ponte demolito dalla piena del Metauro nel 1765. “In casa del capitano Filippo Donati – scriveva il Vernarecci – presso cui il presidente della provincia metaurense mons. Marco Antonio Marcolini soggiornava, tenevansi le congregazioni, cui i migliori cittadini e l’istesso vescovo intervenivano”. Era il 1775, a dieci anni dal crollo del ponte nulla era stato ancora fatto; i lavori saranno però avviati l’anno seguente, finché il 4 maggio del 1783 il vescovo Felice Paoli poté benedire l’imponente opera. La struttura del nuovo ponte arriverà indenne sino all’agosto del 1944, quando saranno le mine tedesche a decretarne la fine: identica per cause, tempi e modi, a quella del palazzo del capitano Filippo Donati, dove il suo progetto era stato discusso e infine approvato.
3 – Piccola nobiltà pontificia
Una questione cui non possiamo sottrarci è quella dell’appartenenza o meno della famiglia Donati alla nobiltà. Questione controversa e irta di difficoltà per la natura del soggetto, che obbliga a districarsi nell’ingorgo di gradi, attestati, categorie, e per la lacunosità e frammentarietà della documentazione specifica. Un primo nodo sorge attorno a quel titolo di ‘Signore’ – con la maiuscola – impiegato da notai, cancellieri, memorialisti, sia per Filippo che per i suoi figli. Esso – è stato scritto – “serviva ad indicare genericamente i proprietari di terre non sottoposte a vincolo feudale e, soprattutto in Sicilia, era appoggiato su cariche ed altri benefici” (web1). Anche nel nostro caso si può pensare che la carica militare di ‘Capitano’ rivestita da Filippo, unitamente alle non numerose, ma libere e integre, proprietà terriere, gli avesse valso quella particolare dignità. Sennonché, la “vaghezza del titolo signorile”, dovuta in gran parte alla sua “proliferazione a famiglie di rango inferiore” (web2), non può –nel nostro caso – farci perdere di vista un elemento che depone per una formale e sostanziale appartenenza della famiglia Donati alla nobiltà cittadina. Non ci è dato, allo stato delle ricerche, di poter contare su documenti d’epoca, in particolare su attestati d’aggregazione, e pertanto dobbiamo ricorrere alla preziosa testimonianza di chi poté vedere il simbolo che connotava il proprio più lontano antenato come “Nobile cittadino” (web3): “Sul portale d’ingresso –ricorda la discendente Ada Donati – fungeva, ancora nel 1944, da chiave di volta uno stemma che conteneva una torre, identica per forma a quella dello stemma comunale, con merli squadrati e una stella in alto a destra, mentre sulla sommità era posta una corona con cinque perle” (ada). Proprio quest’ultimo era il segno distintivo del “Nobile cittadino”, che poteva fregiarsi di una corona “cimata da otto perle di cui cinque visibili” (web3). A onor del vero, una conferma documentale a quanto detto esiste, sebbene sia di molto posteriore all’età di Filippo e riferita a uno dei suoi figli, Alessandro. La riproduciamo con l’avvertenza che il suo specifico contenuto va letto, e anche corretto, alla luce di quanto si dirà nel primo capitolo della seconda parte, relativo alla figura di Alessandro Donati I. In un testo che rievoca il contrasto politico sorto negli anni ‘giacobini’ 1798-’99 tra “il conte Antonio Mauruzi della Stacciola e il ‘cittadino’ Alessandro Donati”, in cui quest’ultimo, “più ben viso alla borghesia prevalse”, il pronipote, Alessandro Donati IV, aggiunge su di lui: “che pure era, e si faceva chiamare, ‘nobil uomo’” (Donati1).
A deporre per l’appartenenza dei Donati a questo grado della nobiltà – quello del ‘nobile cittadino’ era il grado più basso della gerarchia patriziale – concorrono anche altri significativi indizi. Nel 1775 – lo si è visto – il “presidente della provincia”, il delegato mons. Marco Antonio Marcolini, soggiornava a palazzo Donati. Non è superfluo ricordare che tra le condizioni che la Chiesa richiedeva per il riconoscimento di nobiltà v’era una “decorosa abitazione” e quello dei Donati era un palazzo di recente costruzione. Quanto al fatto che quel palazzo ospitasse anche ambienti di lavoro, una filanda all’epoca tra le maggiori di Fossombrone, va ricordato che da oltre un secolo, dopo il ‘motu proprio’ di Clemente X del 15 marzo 1671, la Chiesa consentiva ai nobili l’esercizio del commercio “senza pregiudizi per la Nobiltà” (web4). Ancor più significativa è la circostanza dei matrimoni contratti da due figli di Filippo: quello del primogenito Donato che nel 1781 sposò la contessina Luigia Amatori e quello di Felice che nel 1799 risultava già sposata col conte Serafino Cappellani. Evidentemente i Donati assolvevano alla duplice condizione di una comune appartenenza, o contiguità, di ceto, e di una buona disponibilità di risorse economiche. Un ultimo elemento documentale da prendere in considerazione – che lascia però aperto il problema attributivo in quanto gli stemmi potevano “spettare anche a famiglie non nobili ma di ‘distinta civiltà’” (web1) – è l’inclusione che dei Donati fece il memorialista Morosini nel volume Memorie delle famiglie nobili e distinte (datato 1855), dove, oltre all’albero genealogico – non puntuale, al vero – disegnò anche l’arma o stemma della Casa, senza la corona che egli non riproduceva per nessuna famiglia, evidentemente per non incorrere in errori o contestazioni (bcf2) [vedi Figura 2]. Nello stemma egli introdusse, però, una significativa variante rispetto all’originale: la trasformazione dei merli della torre da piatti a ‘a coda di rondine’, rispettivamente simboli iconografici delle fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Come per il casato dei conti Torricelli, il Morosini collocava, a ragione, sul versante ‘ghibellino’, anti-ecclesiastico, due famiglie i cui più giovani rappresentanti avevano dato ripetute prove (come si vedrà nella seconda parte) della loro avversione al potere ‘guelfo’, papalino. In aperta e scandalosa ribellione all’autorità e fedeltà alla Chiesa dei loro antenati.
Tiriamo le somme di questo discorso. Lo storico della nobiltà Bandino Giacomo Zenobi ha, a più riprese, sot...