Capitolo 1
Siamo attorniati dall’homo protheticus
Oggi quello che resta da dire sul corpo imperfetto
è che la colpa è di chi lo possiede
Elfride Jelinek, Sport. Una pièce
Nella sua autobiografia, il corridore privo di gambe Oscar Pistorius descrive una scena che, ben prima dell’inizio della sua carriera agonistica, evoca la questione di cui mi occupo qui, quella cioè dell’atteggiamento da tenere di fronte a una logica tesa a incrementare le potenzialità della modificazione tecnica del corpo umano. La scena si svolge durante l’infanzia di Oscar. All’età di undici mesi gli vennero amputate entrambe le gambe poiché era affetto da emimelia fibulare, un difetto congenito che consiste nel mancato sviluppo dei peroni e della parte esterna del piede. I genitori dettero il loro assenso all’amputazione su consiglio dei medici, secondo i quali era “più semplice” sostituire gli arti mancanti con delle protesi piuttosto che cercare di correggere in modo permanente il difetto congenito. Questa decisione dei genitori – appartenente a quella serie di decisioni prese con sempre minor cognizione di causa che la medicina contemporanea richiede in misura sempre maggiore – ci porta alla difficile distinzione che esiste tra terapia e normalizzazione: il trattamento di Pistorius tendeva, fin dal principio, a migliorare le sue possibilità di condurre una vita “normale”. Fin dalla sua primissima infanzia, Oscar portò quindi protesi come altri bambini indossavano scarpe o pantaloni. Nella sua autobiografia racconta che, insieme al fratello, egli si cimentava in spericolate corse su carretti a cuscinetti per strade in forte pendenza e che suo fratello, in situazioni particolarmente pericolose, non esitava a utilizzare le protesi di Oscar come freno rapido. I genitori di Oscar non erano affatto entusiasti di queste imprese che finivano col logorare le protesi in pochissimo tempo. Ciò che qui appare un innocente gioco da ragazzi, ci porta al nocciolo della questione sul modo di apportare modificazioni al corpo umano e quante esso ne tolleri. Nel gioco dei ragazzi, infatti, il presidio medico si è trasformato in enhancement: la protesi permette, da un lato, una velocità più elevata e, dall’altro, di frenare il veicolo più rapidamente di quanto lo permetterebbe una gamba normale. E una volta consumatasi, la si sostituisce.
Noi siamo pronti, cum grano salis, a considerare legittime e ragionevoli modificazioni tecniche al corpo umano se hanno un carattere terapeutico o facilitano l’integrazione sociale. Se perciò una modificazione tecnica, come una protesi ortopedica, un paio di occhiali o un farmaco, permette al suo utente di compensare una patologia e/o di partecipare alla vita sociale, è improbabile che insorgano serie obiezioni all’uso di una (bio)tecnologia. Ma ad una analisi più attenta, già qui emergono delle ambiguità. Infatti, i criteri con cui decidiamo quali aspetti siano da considerare sani e normali, quali sofferenze siano accettabili o inaccettabili, oppure quali processi di guarigione siano atti a ristabilire una conformità a determinate norme sociali, dipendono dalle situazioni in cui si verificano e sono estremamente contingenti a un certo momento storico. Ciò che alcuni potrebbero anche accettare - ad esempio, una vita priva di una parte del corpo – per altri potrebbe essere insopportabile. Già sul terreno delle misure terapeutiche esistono quindi profonde divisioni. Il tutto si complica ulteriormente se le modificazioni apportate al corpo umano vengono considerate “antropotecniche” che poi Peter Sloterdijk differenzia in tecniche immunizzanti da un lato e di potenziamento dall’altro. Le prime sarebbero anzitutto funzionali alla sopravvivenza dell’uomo in quanto “essere carente” (Mängelwesen), alla sua protezione, alla sua “immunizzazione” in un ambiente pericoloso per il quale è, notoriamente, scarsamente attrezzato. Sloterdijk colloca poi le tecniche di potenziamento nel quadro delle tecniche psicologiche del sé quali l’ascesi, la meditazione, l’autodisciplina e individua la presenza, all’interno della cultura occidentale, di una sorta di “tensione verticale”, quasi di una “nostalgia” verso l’autotrasformazione e la perfezione. Le concrete trasformazioni del corpo attualmente possibili sul piano biotecnologico, appaiono, rispetto a queste ormai venerande forme di autotrasformazione, uno svilimento dei metodi tradizionali, spiritualistici, ritualistici o artistici, di autodominazione e di autocompletamento. Se, prima, gli essere umani tenevano comportamenti di auto-intervento oggi preferiscono che terzi intervengano su di loro. Ma una siffatta narrativa coglie la problematica dell’ampliamento tecnico solo a metà e, a mio avviso, finisce col dipendere troppo da narrazioni della perdita di tipo modernistico. La storia delle separazioni, dell’estraniazione dalla propria esperienza, da quell’eroismo che, in passato, era insito nell’autonomia del soggetto riflessivo, è, secondo me, troppo legata alla narrativa del riuscito auto-empowerment dell’uomo europeo. Con il discorso delle antropotecniche, invece, la storia di questo successo viene narrata con un discorso di segno contrario. Mi pare molto più promettente collocare le attuali reciproche implicazioni tra logiche di incremento di sé, tecnologie e corpi all’interno di un contesto storico. Vorrei considerarle non come conseguenza ineludibile di una tendenza generale all’incremento, all’eteronomia e all’oggettivazione che sarebbe connaturata “nell’essere umano” ma come costellazione a sé stante, gravida di presupposti storici, epistemologici e politici. Inoltre, il pensiero di Sloterdijk si rivolge costantemente all’individuo (si concentra sul “tu” dell’esortazione di Rilke “Devi cambiare la tua vita!”). Con ciò, le attuali modificazioni biotecnologiche acquistano una tendenza a delegare l’auto-incremento ad agenzie esterne: invece di lavorare su sé stessi ci si affida al bisturi. Anche qui vorrei proporre una prospettiva diversa. È evidente che né modificazioni biotecnologiche del corpo né altre antropotecniche possono riferirsi a un individuo in quanto unità stabile. L’individuo autoriflessivo, il sé, si genera solo in quanto matrice storica specifica all’incrocio tra le tecniche del corpo e le pratiche di osservazione di sé e dell’altrui. E ancora: perfino l’eremita che medita nel deserto rivolge la sua azione non solo a sé stesso ma a forze e ad attori a lui estranei. Forse non necessariamente ad altre persone; ma certo a Dio, cui egli dedica la propria concentrazione, e allo sgomento che suscita il deserto, cui egli si espone. Vorrei pertanto concentrare l’attenzione sull’interazione tra aspirazione all’autoelaborazione tecnica e ambiente in cui di volta in volta tale aspirazione matura. Quali forze tecniche, scientifiche, estetiche ed economiche contribuiscono a fomentare l’aspirazione, il desiderio di autotrasformazione? L’impulso a farsi modificare non è più passivo e più eteronomo di quanto lo sia l’impulso a raggiungere un corpo nuovo praticando lo yoga; gli effetti dell’uno o dell’altro sono, invece, decisamente diversi.
Ora, quando parliamo del quadro della trasformazione tecnica del corpo abbiamo però a che fare con uno spostamento, una tettonica, estremamente instabile che oggi è possibile descrivere come tecno-biopolitica neoliberale con un territorio d’influenza assai vasto comprendente la produzione di cosmetici e la frequentazione di palestre di fitness ma anche il dibattito sul testamento biologico e gli interventi di medicina riproduttiva e prenatale. Ovunque ci imbattiamo in paradossi dagli analoghi fondamenti: se esiste una libertà di auto-miglioramento dove, e come, si può tracciare il confine dell’auto-iper-modellamento? Dove deve e dove può (ancora) decidere il singolo? A che punto questioni legate a un’equa distribuzione delle risorse vanno considerate più importanti del diritto all’autocorrezione? Come si dispiega nei singoli casi la dinamica tra ampliarsi dello spazio di libertà e regolamentazione normativa, insita nell’esecuzione tecnica? Non dimentichiamo, infatti, che una modificazione tecnica implica sempre anche la cessione della capacità di agire (agency, agentività) a un attore non umano. Può anche procurare piacere (come nel caso delle folli corse in discesa dei fratelli Pistorius), ma apre porte e finestre a strategie di sorveglianza, di controllo e di normalizzazione. Per queste situazioni occorre sviluppare nuovi concetti, narrazioni e metafore. Una possibile metafora di questa indecifrabile confusione potrebbe essere, ancor’oggi e forse ora più che mai, l’organismo bionico (cyborg).
La lettura, a metà degli anni novanta del secolo scorso, del Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo di Donna Haraway, ebbe per me quasi il carattere di una iniziazione. Nel testo spiccano frasi come: “La realtà sociale è costruita dalle relazioni sociali vissute, è la nostra principale costruzione politica, una finzione che trasforma il mondo.” Io, germanista (anzi semplice lettrice), che appena cominciava a occuparsi di computer, mi lasciai elettrizzare dall’idea che le finzioni potessero essere forze creatrici del mondo al pari delle tecnologie. E la rivelazione successiva fu l’idea che le tecnologie - che, ai miei occhi di persona cresciuta in una famiglia ecologista, erano state fino ad allora fredda espressione di un rapporto col mondo di tipo strumentale – potessero interagire in modo multiforme, ambivalente e imprevisto con i rapporti sociali. Il fa...