Corrispondenze e Disarmonie
L’uomo che pensa, che riflette,
che abbandona la chiacchiera futile
per ascoltare la voce della propria anima
alla ricerca di risposte alla propria sofferenza
appare un uomo malato.
Aldo Carotenuto
«La letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta», dice Pessoa. Noi possiamo ipotizzare che anche Gaber abbia “confessato”, attraverso la sua arte, il bisogno di andare al di là della sua “vita”.
Il teatro per lui è una forma espressiva, una compensazione di un vuoto, avvertito con la necessità di colmarlo. Prim’ancora, però, è un’esigenza interiore, che gli consente una sublimazione di quelle tendenze istintive che, altrimenti, si sarebbero dovute reprimere, oppure manifestarsi, come talvolta accade, sotto forma di malattia mentale, coartando la forza propulsiva della creatività.
A tal proposito, scrive Aldo Carotenuto: «Coloro i quali riescono a mutare la qualità della loro esistenza possono farlo soltanto in funzione di atti creativi» e Gaber ha mostrato senz’altro di possedere questa capacità.
Interessanti e rivelatrici risultano le parole con le quali Gaber inizia il monologo su “Luciano”, tratto da “Io se fossi Gaber”. Egli dice: «Io credo che nella nostra epoca sentirsi immuni dalla pazzia sarebbe una forma di pazzia. Si, certo, i matti non mancano, anzi, direi che la pazzia è un po’ la normalità. Quello che manca, casomai, è una forma di pazzia un po’ più geniale. Perché quella che c’è in giro è una pazzia, appunto, normale, piatta, banale, di una banalità oltretutto contagiosa. Io, infatti, mi intossico talmente a contatto col mio prossimo che ogni tanto sono costretto a ritirarmi in campagna per disintossicarmi. Se non che, a quel punto, non avendo più gente intorno, mi prende la paura che il mio odio per l’umanità sia diminuito. Allora ritorno in città e mi incazzo. Mi ritiro, mi incazzo, mi ritiro mi incazzo….. Insomma, non riesco a risolvere quell’assurda contraddizione che si potrebbe chiamare “mania di solitudine e di mondo”».
Da queste parole si possono ricavare molti elementi di riflessione. Innanzitutto c’è una presa di coscienza sullo stato psichico proprio, che egli stesso non considera “normale”, e, poi, una marcata presa di distanza dagli altri, dai quali ci tiene a distinguersi.
L’intellettuale, “non organico” alla cultura dominante, individua nella cosiddetta pazzia diverse categorie, evidenziando la netta differenza tra una follia regressiva, improduttiva e diffusa, e una creativa. Il suo continuo peregrinare tra la campagna e la città denota un’inquietudine perpetua e un conflitto interiore tra l’esigenza di socialità e il ritiro individuale. Fondamentalmente qual è la sua vera esigenza? Beh, è proprio lui a rispondere: «Per disintossicarsi», dice. E da cosa ha bisogno di disintossicarsi? Dai rapporti con gli altri, inquinati dai tanti sentimenti ambivalenti e negativi, propri di ogni essere umano. Avverte l’esigenza di allontanarsi dai comportamenti ambigui e distruttivi, che sono alla base delle dinamiche relazionali tra individui.
La sua rigidità caratteriale o, se si vuole, il suo rigore e la sua precisione nell’affrontare la vita lo inducono ad un allontanamento, che, però, sa tanto di fuga. Egli, con ogni probabilità, non regge il confronto quotidiano con le proprie istanze interiori, perché evidentemente cariche di aggressività e risentimento verso gli altri.
Egli parla addirittura di «odio». Si rende conto di non sopportare il peso “dell’indispensabile” ipocrisia, della costante richiesta di compromessi, della necessità di usare un linguaggio corretto e “educato”. Lui no, lui si «incazza» e si allontana.
Quanti di noi hanno provato, almeno una volta nella vita, la voglia di lasciare tutto e sparire? Gaber, quindi, mette in atto ciò che alla stragrande maggioranza della gente è impedito: si ritira e si «disintossica».
La gente comune è costretta a lavorare e produrre per la propria sussistenza, ma non è detto che non sogni ciò che Gaber ha attuato. D’altra parte si sa, l’ozio non è una condizione che genera solo vizi, come la vulgata vorrebbe far credere, piuttosto può essere l’occasione che predispone alla riflessione, favorendo la creazione di grandi opere e di idee innovatrici. Anzi, questa condizione spesso diventa indispensabile, per poter “raccogliere” le proprie idee. Questo, senza dubbio, è quello che è capitato a Gaber.
Questo è un lato della “facciata” gaberiana: ora diamo uno sguardo all’altro e ci accorgeremo come cambia il suo pensiero.
Se si considerano le dure parole usate in “Luciano”, egli passa da una presa di distanza dagli altri, che appare siderale, a una “rivisitazione” del suo radicale individualismo e sembra snodare i suoi concetti da quelle convinzioni di distacco e di presa di distanza in un bisogno di condivisione, dove il gruppo e la collettività prendono il sopravvento.
I brani de “La libertà” e de “L’appartenenza” ne sono un evidente esempio. Nel primo dice che «la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione». Nel secondo, dopo aver affermato che «l’appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il consenso ad un’apparente aggregazione, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé», conclude con un «sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi».
A questo punto ci sarà qualcuno che si chiederà: ma come mai questa vistosa discrepanza nel pensiero?
Per rispondere a questa domanda, occorre storicizzare i diversi momenti nei quali sono stati pubblicati i brani cui si è fatto riferimento. “La libertà” è stato pubblicato nel 1972, durante gli anni delle illusioni, delle utopie, delle lotte per la conquista di diritti civili importanti come il divorzio e l’aborto, di una rivoluzione culturale che ha contaminato e stravolto le vecchie concezioni. Insomma è il periodo dell’impegno e dell’ottimismo.
Viceversa, il brano tratto da “Io se fossi Gaber”, “Luciano”, appartiene a metà degli anni Ottanta, quando ormai si era esaurita quell’onda rigeneratrice e “rivoluzionaria”, foriera di tanti cambiamenti, che per Gaber, in fondo, non sono altro che «timide variazioni».
Certo, il momento storico successivo è stato caratterizzato da altre illusioni, molto meno nobili del decennio precedente. Questo coincide con il tempo del disincanto, del disimpegno politico e del divertimento sfrenato della “Milano da bere”, dalla quale Gaber prende le distanze e sente il bisogno, di tanto in tanto, di «disintossicarsi». È chiaro che in lui si genera un rifiuto di tutto ciò, soprattutto perché intuisce che tutto il patrimonio culturale delle conquiste ottenute si stava sgretolando.
La strada tracciata, che doveva condurre ad un nuovo umanesimo, attraverso il quale l’uomo avrebbe dovuto migliorare le sue qualità morali, si interrompe. Cosicché per Gaber inizia lentamente una nuova fase, sempre più costellata da pessimismo, che culminerà con “La mia generazione ha perso”, testo pubblicato un anno dopo essere entrati nel nuovo millennio, con scenari mondiali completamente mutati. Dunque, nel corso dei trent’anni, Gaber inevitabilmente cambia a livello interiore, così come muta il mondo che lo circonda. In lui, però, resta sempre vivo l’interesse per ciò che accade dentro e fuori di sé.
André Gide, che mal digeriva le etichettature a lui rivolte, perché possedeva una personalità complessa e mutevole, scrisse due romanzi, “L’immoralista e “La porta stretta”, i cui temi affrontati sono inconciliabili e diametralmente opposti, ma pur sempre riconducibili allo stesso autore.
Nel primo il protagonista, Michel, sposa una donna che non ama e, durante il viaggio di nozze in Africa, inizia un viaggio dentro sé stesso, per liberarsi delle sue concezioni morali e conformistiche, iniziando un percorso di trasformazione. Questa, però, pur arrecandogli godimento, rischia di sfociare in nichilismo, sebbene egli tenti un’intellettualizzazione, per giustificare le sue scelte, che hanno tutto il sapore dell’egoismo rafforzato da una concezione edonistica della vita. Ne “La porta stretta”, invece, Alissa, la protagonista, si muove in una dimensione opposta: la rinuncia e l’ascesi. Alissa è di un virtuosismo e...