Conversazioni sul cinema
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Undici conversazioni tratte da altrettanti numeri di "Fata Morgana". Undici conversazioni che sintetizzano il progetto intorno al quale è nata nella primavera del 2006 la rivista. Allora non abbiamo voluto accompagnare la nascita del quadrimestrale con un editoriale, convinti che se avesse funzionato si sarebbe presentato da solo. Ma qualcosa ora è giusto dire. Una rivista è in primo luogo un gesto (collettivo), tracciando il quale si viene a determinare un campo. Il gesto tracciato da "Fata Morgana", che, all'inizio solo intuito, si è andato via via definendo, è quello che fa del cinema un luogo e un'occasione per pensare la contemporaneità, che non è semplicemente l'insieme di ciò che accade intorno a noi, ma è quello che in ciò che accade prende le forme di una emersione, concrezione da raccogliere intorno a un concetto: da quello di Bíos (del n. 0) a quello di Sacro (del n. 10). In questa prospettiva il cinema va pensato e colto in una sua specificità a-specifica, nella forma precipua in cui è capace di declinare la sua a-specificità, o, detto altrimenti, nella forma autonoma in cui sa declinare la sua eteronomia. E questo significa dunque pensare quei concetti a partire dal cinema e pensare quest'ultimo a partire da quelli. E allora il cinema diventa il luogo e l'occasione particolari a partire dai quali pensare l'universalità del concetto (come contrassegno del contemporaneo), e quest'ultimo la prospettiva attraverso cui pensare le forme proprie del primo. Evitare la doppia morsa di una specificità sterile o di una a-specificità pretestuosa: il cinema diviene allora la quintessenza di un modo di pensare il moderno, dove l'autonomia della forma estetica si afferma nella sua eteronomia, la sua individuazione si impone come dis-individuazione.

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Informazioni

Anno
2013
ISBN
9788868220907
Argomento
Arte
Categoria
Fotografia

“Forse perché il cinema è esso stesso contemporaneità?”.
Conversazione con Jean-Luc Nancy

a cura di
Bruno Roberti

“Fata Morgana”, Mondo, n. 1, 2007
Tu dici che la “jouissance”, il godimento, fa acquisire al mondo una qualità che lo sbarazza dal tendere a un “altro mondo”. Il godimento produce una eccedenza che fa sì che qualcosa resti, che ci sia un residuo. Tu dici che ogni opera d’arte è una creazione del mondo. Il cinema secondo te opera questa eccedenza di mondo e il suo dissolvere il mondo per rifarlo in immagine lascia un residuo che è appunto quel godimento, che eccede l’economia di potere insita nelle visioni del mondo.
La specificità del cinema è quella di far apparire, di simulare, di riprodurre il mondo, con le sue forme, i suoi colori, i suoi movimenti. Se guardiamo alla storia del cinema ci sono due tendenze forti: la tendenza alla riproduzione del reale integrale (L’arrivée d’un train à La Ciotat dei Lumière) e quella alla creazione di un altro mondo completamente irreale (Méliès e il suo Voyage dans la lune). Sono due tensioni che attraversano la storia del cinema. Ci sono interi periodi della storia del cinema segnati dall’una o dall’altra tensione. Oggi più che mai Hollywood è il cinema degli “altri mondi”, dei mondi fantastici; ma c’è anche un cinema del mondo reale, il quale mondo non è però rappresentato con gli “occhiali” del realismo, ma piuttosto con altre maniere di scrivere, di ri-scrivere il mondo. In un certo modo, per venire alla tua domanda, senza dubbio il cinema ha rilanciato la nozione di piacere, di godimento, di jouissance. Le due tensioni di cui parlavo sono anche due diverse forme di “piacere”: il piacere del riconoscimento (il brivido del treno che sembra entrare nella sala) e il piacere dell’illusione, del fantasmatico (che pure è all’origine del cinema come divertimento da fiera, da baraccone). Ma entrambe le tensioni postulano “fantasmi” del reale.
Mi vengono in mente la “fantasmagoria”, il “panorama”, le forme di precinema che stavano tra la pretesa di riproduzione del reale dell’invenzione fotografica e l’illusionismo del fantasmatico. Ricordi ciò che ne scriveva Benjamin? Erano epifanie del moderno e insieme riassumevano le forme illusorie di rappresentazione del mondo del barocco. Il feticcio, il falso e la merce, il fantasma della merce, lo “spettro” che si aggirava per l’Europa: nel tuo La creazione del mondo a proposito di feticismo e di Marx citi il Derrida di Spettri di Marx: «Bisognerebbe allora dire che la fantasmagoria è cominciata prima del cosiddetto valore di scambio al limitare del valore di valore in generale». Allora se la fantasmagoria delle merci è un “valore di valore”, qualcosa che c’è prima del valore di scambio, così come la fantasmagoria-forma di spettacolo è qualcosa che c’è prima del cinema, è possibile pensare il cinema come un luogo in cui le merci preesistono a sé, dove lo scambio non fa una economia di equivalenza e appunto qualcosa resta e resiste, e ciò è il godimento residuo.
Sì, ma che cos’è questo piacere, questo godimento (jouissance)? È giusto chiedersi a tal proposito cosa c’è prima del cinema. Ma non c’è solo la fantasmagoria, bisogna risalire indietro, tra XVII e XVIII secolo, dove c’è il “meraviglioso” a teatro, le scene illusionistiche “a trasformazione” del balletto barocco. Ma troviamo sempre un elemento di meraviglioso, di fantasmagorico, anche se risaliamo ancora più indietro. Per esempio l’ambito della tragedia greca. La tragedia greca, che noi ci rappresentiamo in modo unilaterale intellettualmente ed esteticamente come qualcosa di scarno, sobrio, essenziale: costumi neoclassici, sfondo di rovine dei teatri greci ecc., sono persuaso che fosse un luogo di illusioni, di apparizioni, di macchine. Sono sicuro che in ciò ci fosse un piacere, il piacere della sorpresa di Atena che appare e dice “Sono qui io per amministrare la giustizia!”. Questo piacere non poteva essere altro che l’eco del godimento sacrale, che era quello del rito e della cerimonia religiosa che sta prima del teatro. In ciò che noi chiamiamo godimento (jouissance), c’è fondamentalmente una idea di eccesso, di oltrepassamento (dépassement), di aggiunta di qualcosa “per niente”, qualcosa che nell’aggiungersi non viene a completare, a compiere qualcosa; è un’aggiunta che non fa più ricchi, che aggiunge “per niente”, il godimento è ciò che è “in più” ma che non si aggiunge, che non fa addizione.
Senza ragione…
Sì. E la caratteristica di questa aggiunta senza ragione è che la si desidera, la si desidera infinitamente.
È il “buon infinito”…
È il “buon infinito”, ma evidentemente il buono e il cattivo infinito sono incollati fra di loro. Ciò vuol dire che è sempre possibile desistere, l’arresto o il superamento: il film è finito, bisogna uscire dalla sala. Ma il buon infinito è il senso che lì c’è qualcosa, un elemento, una dimensione che si richiama da se stessa. In francese dico “redemander”, anche se non esiste nella lingua questa parola. L’ho presa però da Valéry, quando dice della poesia «le sens redemande le son» (il senso richiama il suono). Cioè il testo, il senso del testo ha bisogno di richiamare, di far risuonare ancora il suono. Questa idea di richiamare è esattamente il piacere. Di nuovo il suono, di nuovo far intendere il suono della lingua, della parola: è il piacere poetico, è ciò che rilancia il senso. Quando si è nell’ordine del desiderio, c’è come dimensione fondamentale questo “redemander”, ma per niente, una richiesta, un richiamo di niente, per niente. Qualcosa di ciò è presente ogni volta in ogni forma d’arte. Anche quando la forma d’arte propone un pensiero molto duro, severo, doloroso, tragico, non chiede mai il dispiacere dello spettatore, l’infelicità o il dolore del pubblico, degli astanti. E quando viene suscitato questo dispiacere, questa sgradevolezza, c’è sempre una svolta, un trucco per sviarli. Nell’ambito dell’arte contemporanea ci sono artisti che si infliggono gesti sacrificali, che si mutilano ecc., ma nessun artista ha mai chiesto ancora al pubblico, allo spettatore di sacrificarsi. In francese il termine jouissance ha anche una valenza giuridica, il godimento del bene (la «jouissance de la propriété»). Il godimento come possesso, o possessione: non è il possesso sessuale, ma indirettamente possiamo parlare di “possesso estetico”. Se vado al cinema e mi ritrovo incantato dal film è anche una forma di possessione, sono posseduto dal film mentre lo godo. Anche nel possesso del proprietario, nella possessione della proprietà, ci sono due aspetti: c’è l’aspetto cui siamo abituati e cioè che il proprietario ha il bene a sua disposizione per l’uso integrale, di uso e di abuso, lo ius uti et abuti, il diritto dunque anche di distruggere la cosa. Ma c’è lo stesso diritto di possessione, e lo stesso godimento, nell’idea che nel mio rapporto con questa cosa ci sia qualcosa che eccede l’uso, un eccesso, un “in più” dell’uso. Per cui, di questa cosa io posso farne della pittura, della musica e posso filmarla: posso farne cinema. Ma anche se non ne faccio niente, se semplicemente ne godo, vuol dire che metto in lei, o attraverso di lei, o approfittando di lei, qualcosa che oltrepassa ogni uso, ogni finalità, e che non può essere scartata dal senso di godimento di quel possesso. Questa ambiguità della proprietà, così difficile da cogliere, è molto importante, ed è il problema di Marx, che è sempre fra le due dimensioni. Da un lato dice che la proprietà privata è il male radicale, dall’altro lato ciò che cerca è la proprietà propria, ...

Indice dei contenuti

  1. “Aprire un orizzonte su ciò che è negato”. Conversazione con Roberto Esposito
  2. “Forse perché il cinema è esso stesso contemporaneità?”. Conversazione con Jean-Luc Nancy
  3. Archivi che salvano. Conversazione (a partire da un frammento) con Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi
  4. La trasparenza che nasconde. Conversazione con Jean-Louis Comolli
  5. Il ritmo dell’esperienza. Conversazione con Paolo Jedlowski
  6. Il limite come intervallo. Conversazione con Julio Bressane
  7. Essere esposti alla natura. Conversazione con Werner Herzog
  8. Lo spazio curvo del desiderio. Conversazione con Slavoj Žižek
  9. Temporalità e memoria del visuale. Conversazione con Georges Didi-Huberman
  10. Le ragioni del disaccordo. Conversazione con Jacques Rancière
  11. “Per esprimere il sacro ci vuole un anti-cinema”. Conversazione con Paul Schrader