Il Principe di Machiavelli
La politica nella storia di una Nazione
Pierfranco Bruni
Politica e letteratura. Non un legame. Anzi. Mai un legame. Ma un incontro che ha offerto, nei processi culturali, chiavi di lettura di particolare interesse, soprattutto, quando a porre l’attenzione su un simile “intreccio” sono stati i maestri della politica moderna. Maestri che provengono, comunque, della letteratura.
Cosa c’è di più attuale, rischio nell’usare il termine contemporaneo (?), di personaggi come Niccolò Machiavelli (Firenze, 1469-1527) e Francesco Guicciardini (Firenze 1483-Arcetri, 1540) non solo con i loro scritti ma anche con il loro esempio e la loro azione?
Del Il Principe, risalente al 1513, ho avuto modo di occuparmi, soffermandomi sull’opera complessiva di Machiavelli, in diversi incontri, alcuni anni fa a Santo Domingo, per conto del MiBAC, relazionandolo alla funzione culturale di Giuseppe Prezzolini e ai suoi scritti su Machiavelli e in modo particolare allo studio che Prezzolini dedicò al Machiavelli politico ma anche al rapporto tra Cristo e Machiavelli.
Il Principe nella politica del 500 è dentro una riflessione, a tutto tondo, nel rapporto tra etica e politica nei processi storici e attuali contemporanei. Già una frase lanciata come epigrafe è la condanna o il rimorso del fare politica sotto il mantello di un pessimismo che si radica nell’uomo: “Gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio”.
Un lancio di spada nei confronti di una politica rivolta a consapevolezza e metodologia per raggiungere il potere. Direi proprio di sì. Il suo lavoro potrebbe essere utile a questa contemporaneità che ha smarrito il suo senso della memoria.
Chi riattualizzò Machiavelli fu Giuseppe Prezzolini, il quale nel suo saggio scritto nel 1926 con un titolo che definisce un raccordo tra storia e modernità: Vita di Niccolò Machiavelli Fiorentino.
Con Machiavelli, secondo Prezzolini, si entra nell’epoca moderna. Proprio in questo scritto si legge: “Savonarola era il Medio Evo, Machiavelli era il tempo moderno che nemmeno i suoi tempi potevano intendere. Savonarola aspettava tutto da Dio, Machiavelli tutto dall’uomo”. Savonarola fu un profeta disarmato. Così veniva considerato da Machiavelli. Così nel VI Capitolo de Il Principe:
Moisè, Ciro, Teseo, e Romulo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussero stati disarmati, come ne’ nostri tempi intervenne a Frate Girolamo Savonarola, il quale rovinò ne’ suoi ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non credergli, e lui non aveva il modo da tenere fermi quelli, che avevano creduto, nè a far credere i discredenti.
Prezzolini legge Machiavelli con lo sguardo sempre rivolto a un colloquio tra morale e politica all’interno di un allontanamento di una questione religiosa. Cultura e politica costituiscono, in Prezzolini, un unicum. La lezione di Machiavelli diventa fondamentale tanto che pubblica nel 1971 un ulteriore testo: Cristo e/o Machiavelli. Un lavoro che fece molto discutere e che oggi, se avessimo la forza e il coraggio di riproporlo, acuirebbe il dibattito tra la posizione del mondo cattolico e la politica.
Prezzolini chiedeva e si chiedeva rivolgendosi, appunto, al “Principe” di Machiavelli: “Forse il cristianesimo risponde a domande intellettuali?”.
Credo, comunque, che uno dei concetti più forti di Prezzolini, ricavato dalla attenta lettura del Machiavelli politico dell’attualismo dell’antipolitica, lo porti ad una considerazione pungente tanto da considerare il Principe “metà volpe e metà leone” con la capacità però di poter “imporre la pace fra le sètte e liberare l’Italia da’ Barbari”.
Su Machiavelli si pone una questione che interessa percorsi culturali e processi esistenziali. Ma di chi siamo figli? Ancora di Marx o di Machiavelli? O forse di Dante che resta un tracciato indivisibile ma costruito dentro la nostra formazione scolastica che ha deviato il corso delle esistenze di molti di noi. Della mia, nostra, generazione. E ora siamo a discutere se esiste ancora un secolo breve o un tempo lungo? O se le città sono il superficiale, l’effimero, la leggerezza e il peso nella coscienza dei poeti? Non credo più al fatto che l’ironia ci possa salvare.
Da che cosa? È un’epoca nella quale ci siamo abbronzati nelle dissolvenze portandoci dietro retaggi ed eredità che vanno da Grecia a Roma e a un Mediterraneo disperso tra le isole di una malinconia che piange il sangue di Troia ma non ha fronteggiato l’impeto del precipizio del Tempio di Gerusalemme. Non siamo profeti. Neppure alchimisti o sciamani.
Restiamo in attesa di capire il Machiavelli che si è innervato nelle nostre civiltà. Se Marx è ormai diventato definitivamente incomprensibile e se Kant propone una questione che ci sembra distante se non vissuta soltanto sul piano teorico, se l’attualismo gentiliano è storia e Gramsci e Gobetti sono pacifici teorici e a volte duellanti ma, cosa ci resta nell’attualismo della contemporaneità?
Ci resta la filosofia della negazione per farci approdare alla convinzione che la politica che abbiamo abbandonato, lustri fa, è davanti a noi. Ma con noi protagonisti. Per avere maggiore consapevolezza di ciò bisognerebbe ripartire dalla visione della politica di un Machiavelli che ha segnato la disgregazione del potere.
Francesco De Sanctis propone una lezione di serietà sull’opera di Machiavelli usando questi termini: “La serietà della vita terrestre, col suo strumento, il lavoro, col suo obiettivo, la patria, col suo principio, l’uguaglianza e la libertà, col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo di Machiavelli”. Se si ritorna a discutere del “machiavellismo” nei processi politici contemporanei, infatti, è anche perché quell’identità nazionale delle corti rinascimentali è rimasta nei cuori fragili della politica post fascista.
E la contemporaneità di Machiavelli si ripropone nella voce di Prezzolini che non può restare a margine di un dibattito più articolato tra politica e cittadinanza. Perché è proprio nel suo esilio che Prezzolini rilegge il fiorentino delle lettere e dei linguaggi politici. Lontano dal Regime propone Machiavelli come il vero “apostolo rinnegato dagli uomini del suo tempo” considerandolo come “il più grande pensatore politico dopo Aristotele”.
Prezzolini ebbe a scrivere nella sua Storia tascabile della letteratura italiana: “La figura di Niccolò Machiavelli primeggia oggi nella storia della letteratura e del pensiero del mondo; ma non si può dire che questo fosse vero nel secolo che lo ignorò dapprima e poi condannò le sue opere”.
In questo mio indagare Machiavelli attraverso la visione di Prezzolini c’è un modus politico di accostarsi all’interrogativo: se la politica è nell’etica o se la morale è l’etica della politica? Un tratto che interessa il Machiavelli teorico della politica e protagonista nella politica dei suoi anni ma anche un Machiavelli pensiero nella letteratura e, soprattutto, nell’idea di Stato con una valenza fortemente giuridica.
Giuseppe Galasso lo considera come lo specchio delle diverse modernità che hanno occupato lo scenario delle civiltà come “uno snodo decisivo del pensiero e della coscienza moderna, come una spinta forte e fondamentale alla laicizzazione e alla modernizzazione dell’idea di politica”.
Un percorso dentro il quale il Novecento è anche il secolo di Machiavelli: da Croce a Gramsci, da Gentile a Gobetti, da Bottai a Prezzolini.
C’è la separazione dell’etica dalla morale, la separazione dal pensiero universale al pensare, dalla filosofia alla storiografia.
In una visione prettamente politica Machiavelli sconfigge gli eretici per diventare egli stesso eretico ma deve fare i conti con la natura con quella natura che rende gli uomini:
ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offerenti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli […] quando il bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano.
Ma il grande dibattito che ha agitato Machiavelli e le epoche successive è stato sempre intrecciato tra virtù – saggezza e fortuna. Due esempi. Francesco Sforza e Cesare Borgia. Di loro si dirà nel Capitolo VII:
Io voglio all’uno e all’altro di questi modi, circa il diventare Principe per virtù o per fortuna, addurre duoi esempi stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza, e Cesare Borgia. Francesco per li debiti mezzi, e con una sua gran virtù, di privato diventò Duca di Milano, e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, acquistò lo Stato con la fortuna del Padre, e con quella lo perdette, non ostante che per lui si usasse ogni opera, e facessinsi tutte quelle cose che per un prudente e virtuoso uomo si dovevano fare, per mettere le radici sue in quelli Stati, che l’armi e fortuna di altri gli aveva concessi.
Una testimonianza che ha un senso, certamente, politico ma che pone delle premesse necessarie tra l’etica del principio di politica e la politica come visione di una espressione di potere. Machiavelli apre una “vertenza” in quel secolo di mezzo che segnerà i principii del fare politica, del comprendere la non politica e dell’essere politico dell’uomo nella visione aristotelica. Ma il Principe è il sovrano della politica? La politica è sovrana per il Principe. Prezzolini insiste...