Luoghi Migranti. Tra clandestinità e spazi pubblici
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Luoghi Migranti. Tra clandestinità e spazi pubblici

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Luoghi Migranti. Tra clandestinità e spazi pubblici

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In che modo i migranti sono presenti negli spazi pubblici? Se l'atmosfera di socievolezza che caratterizza i caffè, le osterie, le piazze rende possibile la discussione di questioni di interesse collettivo, quali sono gli effetti della "clandestinità" sulla frequentazione di questi luoghi? Qual è, inoltre, il rapporto tra condizione migrante, cittadinanza e narrazione? A partire da questi interrogativi il volume traccia un percorso teorico tra i concetti di clandestinità, sfera pubblica, luoghi terzi e socievolezza, per esplorare il significato politico della presenza dei migranti nello spazio pubblico attraverso diversi casi etnografici: da Lampedusa alla Stazione Termini, da una scuola di italiano per rifugiati a un caffè marocchino nella periferia romana, fino ai luoghi del viaggio narrati dai migranti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788868221348
Categoria
Sociologia

1. Lo spettro della clandestinità
e i suoi luoghi

La condizione di clandestinità

Quando in questo libro parlo di clandestinità non mi riferisco soltanto a una irregolarità effettiva, ma anche e soprattutto a una possibilità incombente che, in linea di massima e chiaramente a gradi diversi, struttura l’intera esperienza migrante contemporanea. In queste pagine rifletteremo su alcune caratteristiche poco evidenziate della condizione di clandestinità dei migranti e cercheremo di individuare i condizionamenti che essa pone alle modalità di frequentazione dei luoghi. In questi anni, in cui ormai non si può più considerare recente la storia della presenza migrante in Italia, l’enfasi posta nei dibattiti pubblici sulle questioni di diversità culturale e l’inaccessibilità dei migranti stessi alla sfera pubblica hanno contribuito a occultare quello che è forse l’aspetto principale della condizione migrante: i criteri di legittimazione della presenza. A fronte dell’allarmismo prodotto più o meno ad arte intorno alla minaccia dei “clandestini”, si registra uno scarso interesse a guardare fino in fondo e a problematizzare l’altra faccia della medaglia: il “permesso di soggiorno” è per gran parte dei migranti un vero e proprio incubo che li perseguita come una “bestia ferita che ritorna con la brama di uccidere per vendetta” (N. Farah 2000, tr. it. 2003, pp. 96-97). Uno spettro che perseguita a gradi diversi tutti i migranti: perché buona parte di essi è passata per un periodo di clandestinità, che a volte si perpetua senza possibilità di riscatto, e in generale avere il permesso non scongiura affatto la possibilità di perderlo[1]. Mettere a fuoco questo concetto ci può servire a cogliere meglio alcune dimensioni specifiche del rapporto tra luoghi e migranti. Anche se da un punto di vista soggettivo avere o meno l’ambìto documento fa chiaramente la differenza, il limite tra legittimità e illegittimità delle migrazioni è sottoposto a un margine di arbitrarietà, non è un confine lineare ma una frontiera, una soglia flessibile regolata da una certa discrezionalità nell’applicazione delle misure di controllo e nella concessione di visti e titoli di soggiorno[2].
Molti studi hanno ormai mostrato in maniera autorevole come la clandestinità, piuttosto che essere un attributo fisso e immutabile di specifiche persone, come il senso comune ritiene, sia invece il risultato di un processo fluido, ambiguo e cangiante di costruzione flessibile di soggetti subalterni. La clandestinità, quindi, è prodotta dalle pratiche di governo del fenomeno migratorio, essa non va intesa semplicemente come la conseguenza automatica della violazione delle leggi di uno stato sovrano, ma come il risultato di quelle pratiche rese possibili dalla vaghezza di tali leggi (Düvell 2008)[3]. Inoltre, la clandestinità non è una mera condizione giuridico-amminstrativa, ma si costruisce anche attraverso uno specifico immaginario che permea il senso comune ed è alimentato dai media. Un tema che può aiutare a mettere a fuoco una serie di questioni affrontate in questo libro è come l’articolazione tra queste due dimensioni della condizione di clandestinità si interfacci a sua volta con i luoghi.

Luoghi di confine: la spettacolarizzazione dell’arrivo

Esistono luoghi dove il trattamento dei corpi dei migranti contribuisce alla produzione di uno specifico immaginario che essenzializza la figura sociale del clandestino. Penso ad esempio a istituzioni totali come i centri di detenzione amministrativa[4], dove le pratiche di sottrazione allo sguardo esterno e di identificazione dei migranti sembrano suggerire l’idea di un pericolo arginato, di una presa sicura che lo Stato esercita su quelle entità indistinte che minacciano da fuori l’ordine sociale. Ma penso soprattutto ai luoghi dov’è messo in scena quello che l’antropologo statunitense De Genova chiama lo “spettacolo del confine” (De Genova 2005)[5]. La naturalizzazione della clandestinità, che la rappresentazione di un confine violato produce, finisce per incunearsi in una zona del senso comune ben più profonda rispetto agli spazi di contrapposizione discorsiva dove si confrontano posizioni pro o contro l’immigrazione. Come ha notato Leo R. Chavez, in un libro sulla costruzione sociale della “minaccia latina” negli Usa:
(…) I dibattiti sull’immigrazione, la cittadinanza e l’appartenenza nazionale sono impregnati degli eventi a cui noi assistiamo attraverso la rappresentazione mediatica dello spettacolo degli immigrati, sia che essi promuovano preoccupazione per la situazione degli immigrati sia eventi anti-immigrazione (Chavez 2008, p. 5, T.d.A.).
Quindi, anche se la mancanza di documenti non coincide con la modalità d’ingresso, tantomeno via mare[6], la narrazione mediatica della clandestinità, almeno in Europa, ha a che fare con il Mediterraneo. In generale si tratta di rappresentazioni appiattite sull’immagine di corpi che valicano i confini statuali (spesso in condizioni di estremo pericolo) e sono intercettati dai dispositivi elaborati ad hoc con la missione di “combattere le migrazioni illegali”.
Com’è noto, nel caso italiano lo “spettacolo del confine” per eccellenza ha avuto il suo palcoscenico ventennale a Lampedusa. Lo sbarco è un momento chiave e denso di significati nella costruzione sociale della clandestinità o, per essere più precisi, di un discorso che non solo veicola una generica idea di invasione ma, attraverso la realizzazione di una immagine peculiare dei corpi migranti, cela i processi di “produzione giuridica della illegalità” (De Genova 2005). Per comprendere meglio quale sia questa forma specifica che l’immagine dello sbarco conferisce alla clandestinità possiamo ricorrere alle tesi di Abdelmalek Sayad, che ha sottolineato come la verità della migrazione, necessariamente dissimulata, consista nella produzione di “puri” corpi: non essendo un cittadino, cioè un membro del corpo sociale e politico della nazione in cui si è trasferito, il migrante è l’unico lavoratore a cui è assegnata la sola funzione del lavoro (Sayad 1999, tr. it. 2002, p. 272). Lo sbarco mette in scena l’immagine di corpi pericolosi in pericolo che, attraverso un’azione di profilassi compiuta dai dispositivi che ne prendono in carico la vita, dischiude la possibilità di un loro proficuo utilizzo. Un’immagine che permette a chi la osserva di articolare paura e desiderio, contribuendo così alla “inclusione selettiva e differenziale” dei migranti come forza lavoro flessibile ed estremamente ricattabile (Mezzadra 2006, p. 39, T.d.A.)[7]. In questo modo la pericolosità e l’utilità formano un circolo rappresentativo in cui i migranti, privati di voce, restano inevitabilmente incastrati. A rafforzare questi processi intervengono anche le forme di enumerazione dispiegate durante lo spettacolo dell’arrivo in luoghi simbolo come Lampedusa: il conteggio effettuato alla discesa dalle barche, la “messa in ordine” delle persone sulla banchina del porto, l’organizzazione dei ranghi in file di cinque persone, e così via. Si tratta di pratiche di conteggio che, da un lato, contribuiscono ad aumentare la visibilità categoriale dei “clandestini” e, dall’altro, producono un effetto di controllo del fenomeno, un suo rassicurante inquadramento[8].
Se si analizza a fondo la fenomenologia degli sbarchi si può notare come il processo di produzione della clandestinità sia favorito dall’indistinzione, che la macchina di gestione dei migranti crea, tra sfera umanitaria e sfera sicuritaria[9]. Un processo, questo, che agisce sulla loro “nuda vita”, negandone la soggettività e depoliticizzando il loro agire (Agamben 1995)[10]. La retorica della salvaguardia della vita elaborata dalle forze dell’ordine si accompagna così alla colpevolizzazione dei migranti per il loro arrivo abusivo, un “errore” di cui la condizione di clandestinità sarebbe la conseguenza necessaria. Nel luogo dello sbarco la parola dei migranti è considerata fondamentalmente falsa a causa del carattere abusivo del loro arrivo[11]. Il corpo si riscopre ridotto a pura esistenza biologica privata del suo bíos, di quel carattere di vita politicamente qualificata con una sua biografia narrabile, che ha bisogno della parola e di un contesto di ascolto per essere riconosciuta in quanto tale. L’esperienza della migrazione si ritrova così bloccata in un gioco di negazioni che ne condizionano la visibilità e l’audibilità.

Guardare e ascoltare la clandestinità

Se ufficialmente le migrazioni non autorizzate sono invisibili, lo spettacolo del confine rende visibili le pratiche clandestine (Coutin 2005). I “clandestini” è possibile scorgerli al momento dello sbarco, piegati in due nelle campagne, radunati agli angoli delle piazze, finanche nelle nostre case, ma scompaiono dagli spazi pubblici riconosciuti, dai luoghi di elaborazione delle opinioni, del consenso e delle decisioni. Essi sono tanto presenti anche nei discorsi quanto intangibili. La condizione di clandestinità sottopone a un gioco sottile di visibilità/invisibilità i migranti, che a loro volta esercitano creativamente e spesso drammaticamente la loro capacità di agire. Visibili come figure sociali stereotipate, e spesso biasimate perché eccessivamente presenti, le persone associate alla clandestinità diventano quindi invisibili negli spazi dove si forma la sfera pubblica. Una invisibilità, questa, che è effetto di una pressoché totale assenza di voce. O almeno questa è la prima impressione. In realtà molti episodi che riguardano in prima persona i migranti – appelli, proteste, rivolte – mostrano come la loro voce sia spesso articolata e complessa. Il problema semmai riguarda il quasi totale disinteresse ad ascoltarli, a far sì che i loro racconti siano accolti da destinatari che sappiano prendersi la responsabilità di partecipare attivamente alla narrazione.
Se, come è stato sottolineato da Paolo Jedlowski (2009), l’esperienza si compie veramente quando viene narrata, quando cioè una riflessione sul vissuto e la sua elaborazione sono rese possibili dal racconto che ne facciamo agli altri, la condizione di clandestinità è sia esperienza incompiuta sia fattore stesso di ulteriore impoverimento delle possibilità narrative. Le “pareti della solitudine” in cui molti migranti sono costretti sono l’antitesi di una dimora possibile per i loro racconti. Le loro voci e narrazioni risultano quindi inaudibili, perché non incontrano un contesto di ascolto adeguatamente pronto a fare i conti con certi contenuti. La condizione di clandestinità che i migranti devono fronteggiare è un potente fattore di mortificazione delle possibilità che si formino delle comunità narrative dove i racconti suonino “a chi li proferisce come il nome proprio del proprio vissuto” (ivi, p. 30). Al massimo si può immaginare l’esistenza di microcomunità narrative che non incontrano mai la sfera pubblica perché composte soltanto da persone che condividono l’isolamento, doppiamente assenti e inascoltate sia qui che nei loro paesi di provenienza. La sospensione giuridica e l’arbitrarietà delle pratiche amministrative si accompagnano quindi a una sospensione dell’esperienza, a un’incapacità di dare senso agli eventi della migrazione attraverso lo scambio di racconti (almeno al di fuori della cerchia di chi ha affrontato le stesse circostanze). Al pari della condizione dei reduci di guerra, per buona parte dei migranti, “l’esperienza, tacitata, rimane dunque incompleta” (Jedlowski 2009, p. 39).

Clandestinità e viaggio

Tra gli aspetti della “condizione di clandestinità” che negli ultimi anni sono diventati sempre più oggetto di documentazione[12] c’è il viaggio senza documenti. La clandestinità plasma il viaggio, perché si inizia a essere “clandestini” ancor prima di lasciare il proprio paese, dal momento in cui bisogna selezionare le persone a cui confidare il segreto del proprio progetto e ci si deve affidare a degli intermediari che agiscono nell’ombra. Le politiche di esternalizzazione degli strumenti di contrasto delle migrazioni indesiderate finiscono per intervenire sempre più sull’intenzione di partire e quindi individuano i “clandestini” prima ancora che le persone possano agire da “clandestini”. Si tratta di situazioni che impongono ai soggetti l’incorporazione di un vero e proprio “habitus di guerra” (Beneduce 2005, p. 17) contribuendo così a una specifica configurazione di luoghi, percorsi e azioni. Alla clandestinità come deportabilità potenziale, quindi, si aggiungono i significati di un viaggio “nel buio”, in balìa di polizie, popolazioni locali spesso ostili, qualche volta solidali, e di quei soggetti ambivalenti che sono gli intermediari, figure a cavallo tra aguzzini e benefattori.
Nell’immaginario collettivo dei paesi d’immigrazione, presenza senza documenti e viaggi cosidde...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Lo spettro della clandestinità e i suoi luoghi
  3. 2. Socievolezza, luoghi terzi, sfera pubblica
  4. 3. Lampedusa: la banchina e il caffè
  5. 4. L’Oasi di Marrakech a Centocelle
  6. 5. Il caffè a scuola: la pratica d’insegnamento dell’italiano di Asinitas
  7. 6. Stazione e dintorni
  8. 7. “La fuga non termina a Termini”[1]: note su viaggio e narrazione
  9. 8. In chiusura: appunti sulla voce
  10. Ringraziamenti
  11. Bibliografia