IV
Alcuni aspetti del pensiero del tempo
Erano tempi di fuoco e di fuochi, di lotta e di lotte, di ideologia e di idee. In Europa non si era ancora spenta l’eco della rivoluzione francese, anche se le guerre napoleoniche, nei Paesi europei, non erano le guerre di un liberatore di popoli, bensì quelle di un conquistatore di terre per la Francia e per l’impero. L’Illuminismo, che aveva dominato il pensiero fra il XVII ed il XVIII secolo, aveva gettato, nell’Europa del tempo, delle solide radici, ed idee di libertà e di democrazia animavano gli spiriti più radicali, mentre il principio del dispotismo illuminato sollecitava gli spiriti moderati. Si dibattevano, ancora, le tesi rousseiane e si era ormai affacciata l’epoca pre- romantica. E in merito torna grato sottolineare quanto affermava G. De Ruggiero il quale amava ricordare che “Rousseau è il primo romantico in seno all’illuminismo”. La sua concezione di “natura”, infatti, si caricava di una profonda e suggestiva vis escatologica. Nel suo primo “Discorso”, il “Discorso sulle scienze e le arti”, egli, nel sostenere che le virtù dell’uomo si sono smarrite mano mano che si sono realizzati, fra gli uomini, il progresso scientifico e l’affermazione delle arti, concludeva dicendo: “O Dio onnipotente, tu che tieni nelle tue mani gli spiriti, liberaci dai lumi e dalle funeste arti dei nostri padri, e rendici l’ignoranza, l’innocenza e la povertà, i soli beni che possan fare la nostra felicità e che sian preziosi al tuo cospetto”. Ed era ed è qui il significato escatologico di questo richiamo alla natura perduta, nella “profezia – scriveva Antonio Corsano – di un passato illimitatamente retrocesso all’origine dell’umanità, della quale condanna ogni perfezionamento culturale: cioè condanna la storia, ponendosi in atteggiamento che quanto a rigore antilluministico non è inferiore a quella del Vico”. Poi, successivamente, nel secondo Discorso, il Rousseau fissava l’origine dell’ineguaglianza fra gli uomini nella nascita della proprietà privata: “dal momento che un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, e s’avvide ch’era utile ad uno solo avere provviste per due, l’eguaglianza scomparve, la proprietà s’introdusse, il lavoro diventò necessario, e le vaste foreste si mutarono in campagne ridenti, che bisognò bagnar del sudore degli uomini, e in cui si vide ben presto la miseria germogliare e crescere con le messi”. Si è a lungo discusso e dibattuto sull’essenza di questo “stato di natura”, di cui scriveva il Rousseau, e lo si è visto spesso come una proiezione mitica. A buon diritto, però, il Corsano ha chiarito questa visione, affermando quanto segue: “non si può attribuire a questa visione della natura carattere di mito, perché il Rousseau ne ha consapevolmente avvertito e tratteggiato la funzione di limite negativo della storia, che della storia costituisce pure il significato”.
In seguito i suoi principi di eguaglianza e di libertà trovavano una più adeguata espressione nella sua idea della nascita dello stato per opera d’un contratto fra gli uomini, non fra gli uomini e i ministri o fra gli uomini e il governo, ma fra gli uomini, che hanno deciso di associarsi, rinunciando al proprio stato di natura. “Trovare – scriveva Guido De Ruggiero – una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per cui ognuno, nel riunirsi agli altri, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima: tale è il fine del contratto sociale. E le sue clausole si riducono a questa unica: ciascun associato aliena ogni suo diritto a tutta la comunità, in modo che, dandosi per intero, le condizioni dell’assoggettamento sono eguali per tutti, e dandosi alla comunità, egli obbedisce a se stesso, cioè è libero”. Ed è al Rousseau del “Contratto” che, come ha scritto il Corsano, si ispiravano il “radicalismo democratico”, i giacobini ed i post-giacobini.
Ancora molto viva e sentita era, in quegli anni, la tesi del Montesquieu sulla divisione dei poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario.
Nell’Europa del tempo, c’era un grande fermento. Ed un fermento ancora più sentito e più vivace animava il pensiero politico e filosofico.
Un movimento quale quello illuministico ed un evento quale la rivoluzione francese non potevano, d’altronde, non sollecitare, dal punto di vista della filosofia della storia, la riflessione e l’analisi di un filosofo quale Emanuele Kant. Egli aveva a cuore la divisione dei poteri e sulla scia di questa delineava la propria visione dello stato. Questo stato di Kant “è dunque – ha sottolineato Francesco Valentini – uno stato liberale per il suo carattere che diremo negativo: si limita cioè a garantire la libertà dei cittadini mercè la tutela del diritto (…). Non ha, a rigore, una sua politica. Ed è uno stato democratico perché fondato sulla sovranità popolare e sul controllo politico del governo da parte del popolo (si ricordi la facoltà che ha il sovrano di revocare il governo e il necessario assenso popolare alla guerra).
È indubbia sotto questo aspetto la presenza del Rousseau. Questa democrazia ha però il suo limite di ordine economico: solo i cittadini indipendenti, cioè economicamente autonomi, sono cittadini attivi, ossia hanno il diritto di voto. Si tratta però di un limite contingente, non di principio, di un limite che Kant considera provvisorio e destinato a essere superato”. Particolare il concetto che dell’indipendenza aveva il filosofo tedesco. Kant condivideva pienamente la divisione dei poteri, di cui parlava il Montesquieu, e rinveniva, come il Roussseau, le coordinate del potere legislativo nel popolo come volontà collettiva, “volontà collettiva del popolo” diceva il filosofo. Il suo limite stava nel fatto che cittadini attivi erano, per lui, i cosiddetti cittadini indipendenti.
Ma chi sono effettivamente i “cittadini indipendenti”? Sono e sono sempre stati quelli che hanno un proprio livello di autonomia nei confronti del lavoro e non sono costretti a vendersi, sul mercato, ai compratori, cioè sono coloro che vendono il prodotto del proprio lavoro, ma non non vendono se stessi ad un “padrone”.
“Indipendente – ha scritto in merito F. Valentini – è il falegname, il fittavolo, il maestro di scuola; non è indipendente il garzone, lo spaccalegna che colloco nel mio cortile, il precettore privato”. Kant condannava, comunque, ogni forma di ribellione del popolo al sovrano, anche se era un convinto assertore del diritto innato della libertà, che, per lui, era da considerare l’unico diritto innato e che intendeva come “libertà da”, cioè come l’essere liberi da ogni forma di costrizione, ma, ovviamente, senza limitare la libertà degli altri, in cui si pone il limite della libertà di ciascuno. Questa libertà, secondo lui, ha la propria naturale realizzazione in una comunità politica universale, che non è la negazione dei singoli stati, bensì è la dimensione in cui i singoli stati si ritrovano sotto le ali di una stessa legislazione.
Emanuele Kant si muoveva sulle linee di un dispotismo illuminato ed era per una politica di riforme, attraverso la quale, gradualmente, si potesse passare ad una forma di stato fondato sulla divisione dei poteri e sulla sovranità popolare. Queste riforme e questo passaggio, secondo Kant, non dovevano, però, venire dal basso, ma dall’alto; cioè artefice del passaggio a questa forma di Stato non doveva essere il popolo, bensì il sovrano.
Con Herder, poi, si affacciava nel discorso un nuovo importante aspetto, cioè il “Geist”, vale a dire lo “spirito del popolo”, che, secondo lui, è presente ed agisce nella storia. “Chi ha osservato – scriveva – come sia cosa difficile esprimere ciò ch’è peculiare di ogni singolo uomo, ciò ch’è il principio distinguente nella sua stessa distinzione? Spiegare com’egli sente e vive! Come divengono diverse e peculiari per lui tutte le cose nel momento in cui l’occhio le vede, l’anima le coglie, il cuore le avverte, - quegli intenderà quale profondità risieda nel carattere d’una singola nazione:”. È, senz’altro difficile stabilire e dire quanta forza abbia potuto esercitare il principio del “Geist” nel mondo intellettuale del tempo! In seguito questo, da qualche studioso, è stato visto come una “pseudocategoria”. “Più difficile – scriveva in merito A. Corsano – è scagionarlo dall’accusa di avere creato pseudocategorie storiche quale fu il Geist o spirito dei popoli cui egli ricorre per semplificare il grande gioco scenico della storia universale. Ma anzitutto non c’è da addebitargli la responsabilità dell’abuso fattone in piena età romantica persino dagli storici del diritto, col grande Savigny alla testa. E preso anche in sé il concetto o pseudoconcetto, non si tratta probabilmente d’altro che di traduzione del francese esprit, al quale era ricorso il più cauto e spregiudicato pensatore dell’illuminismo francese, il Montesquieu, per unificare e fecondamente impiegare il complesso dei fenomeni storico-naturali da cui egli, dicemmo, vede scaturire le leggi, cioè le istituzioni e le costituzioni”. “Pseudocategoria” a parte, una sua influenza questa concezione del “Geist”, cioè lo “spirito dei popoli”, nell’Europa del tempo di certo ...