Le quattro volte di Michelangelo Frammartino: un caso di etnografia profilmica
Maria Faccio
The present work arises from an ethnographic investigation reached on the film set of Michelangelo Frammartino’s movie, Le quattro volte (The four times). At that time my intention was to rebuild the profilmic environment though the voices of local people engaged in the film making. The meeting of local people and film crew produced dynamics of peculiar reciprocity, showing complex relationship between productive, stylistic and collective processes. The definitive movie is the result of a complex stratification of multiple imaginations including the author’s and the indigenous ones. This consideration suggest to deep different theoretical elements: a different relationship between cinema and land, the aptitude to emphasize the minorities, the respect of traditional knowings, the care of not influencing the reality, the reserved research of the secret of the things, the idea of a cinema where man is cognitive reallocated, etc. In particular, the director’s obstinacy for an ethnographic method used before shooting justifies my research project, which has the aim to study this unusual movie born directly from places offering itself as “subject’s hermeneutics”. This one suggests unusual connection between art and scientific research.
Se vai nell’ovile qui dietro, vai e fai una foto: è bellissima, ma se torni dopo un poco e ritorni, ti rendi conto che le capre si spostano secondo l’ombra, per stare all’ombra, e che il disegno della loro disposizione è legato alla luce; però, non lo vedi al primo colpo d’occhio, devi tornarci più volte, e a un certo punto ti rendi conto che quelle capre seguono il disegno dell’universo.
Allora, devi stare lì, perché lo stare lì piano piano ti rivela dei disegni, degli ordini che sono molto belli e che sono cinema, questi continui movimenti.
Questo breve racconto sull’ethos di un ovile potrebbe valere quale manifesto della singolare arte di Michelangelo Frammartino, peraltro, sempre dichiarata con trasparenza e assoluta onestà intellettuale: un lavoro appassionato e senza fine, che reclama un tipo di approccio al territorio squisitamente personale, in quanto alimentato da una perseveranza conoscitiva insaziabile, che può praticare soltanto chi accetta d’impegnarsi su tempi di lavorazione decisamente lunghi. Se non altro, lo attestano i due anni di studio e di ricerche sul campo, tra Alessandria del Carretto (CS), Caulonia (RC) e Serra San Bruno (VV), necessari alla rivelazione del progetto filmico su Le quattro volte. Perché a un certo punto insomma, come lo stesso autore ammette, si deve diventare un poco carbonai, e magari anche un poco pastori, per arrivare a far parte di quelle bestie, di quegli alberi e di quella gente impressionata nelle sue pellicole.
Nell’esplorazione di quelle realtà calabresi maturata durante l’interminabile fase preparativa del film, il percorso di avvicinamento alle comunità locali compiuto dal regista autorizza a insistere sul parallelo cineasta/antropologo che siffatto procedimento conoscitivo lascia intravedere ovunque nella sua opera, suggerendo una prossimità epistemologica con il lavoro dei pionieri dell’antropologia visiva, Robert Flaherty in particolare (Nanook of the North, 1922), con cui dimostra di poter condividere l’idea di una camera partecipante (che segue il soggetto quasi come un testimone invisibile). Una prossimità che si offre quale banco di prova all’intuizione di Margaret Mead in merito a una necessità puntuale:
But I believe the best work is done when filmmaker and ethnographer are combined in the same person, although in many cases one interest and skill may outweigh the other (Mead 1995: 7).
Certo, Frammartino non nega mai le affinità che il suo lavoro condivide con una simile disciplina, eppure, non sottovaluta affatto le responsabilità che ne derivano quando ammette per esempio, di non aver voluto approfondire il territorio scientifico dell’antropologia allo scopo di mantenere in simili questioni quell’ingenuità e incoscienza ormai perdute in campo cinematografico.
Un’ingenuità e un’incoscienza a quanto pare, che non gli hanno impedito di compiere la sua personale esperienza di condivisione degli sguardi all’interno di una precisa “comunità di pratica” (Grasseni 2003) – ora relativa ai carbonari di Serra, più tardi invece, relativa ai pastori di Caulonia e agli abitanti di Alessandria del Carretto durante i festeggiamenti della Pita – ma che tendono a spronarlo di continuo, affinché provi a rapportare la propria attitudine percettiva agli eventi fisiologici partecipati, potendo saggiare il paradigma di una costruzione culturale delle abilità visive.
Non si può negare infatti, seppure nel doveroso riconoscimento delle evidenti divergenze che emergono rispetto agli obiettivi perseguiti ma soprattutto ai procedimenti intrapresi, come lo sforzo di Frammartino ricordi in parte quello del documentarista Joris Ivens con i suoi Wij Bouwen (Noi costruiamo, 1930), Zuiderzee (Lavori nello Zuiderzee, 1930) e Nieuwe Gronden (Nuova Terra, 1933); operazioni queste ultime, realizzate nel proposito di documentare i lavori di prosciugamento del golfo dello Zuiderzee (Paesi Bassi) e di relativa costruzione della grandiosa diga sul mare del Nord, vera e propria testimonianza dello sforzo umano nel tentativo di soggiogare la natura. Le sue riprese appaiono la rappresentazione del punto di vista dei lavoratori, e non piuttosto quello di un cineasta olandese che proviene dalla media borghesia: “Il film è assolutamente uguale a come io vedo il lavoro” (Ivens 1979: 42) osserva un operaio, in riferimento alle scene che descrivono le manovre con le grosse pietre di basalto della diga. In quella circostanza infatti, il regista non riuscendo a individuare il giusto angolo di visuale della macchina da presa, decide di lasciarsi coinvolgere in prima persona nella fatica degli operai, consapevole della necessità di percepire la sensazione puntuale di quel lavoro, prima di cominciare a filmarlo:
Da quel momento trovai la posizione della macchina da presa, la sua angolazione e la composizione dell’immagine: tutto era centrato su quei muscoli e sul mento. Entrambi erano il punto focale dell’azione. Era la realtà a determinare la fotografia, e non il mio sforzo estetico di raggiungere l’equilibrio fra luci e linee. Ma questa angolatura realistica era anche la migliore. Non avrei potuto filmare in modo soddisfacente e reale se non avessi provato io stesso la sollecitazione fisica sul lavoro (Ivens 1979: 43).
Una dichiarazione straordinaria la precedente, proprio per il suo confondersi con gli intenti del nostro regista; si tratta di un procedimento a carattere analogico che in entrambi i casi s’impone come necessario: infatti, è una fondata condivisione di sguardi specifici a tratteggiare il contesto più appropriato delle relazioni sociali, con il prezioso effetto di una strategica riformulazione del concetto di appartenenza. Su questo e prima d’ogni altra cosa, si fonda lo sforzo profuso da Michelangelo Frammartino nell’impresa d’incursione e di comprensione delle comunità calabresi indagate: presupposto tanto indispensabile quanto preliminare alla successiva fase del compimento rappresentativo. La premura conoscitiva cui pare instancabilmente votato il suo impegno d’altronde, si manifesta con assoluta trasparenza a cominciare dalle soluzioni produttive scelte in fase di preparazione del film che, come è ovvio supporre, finiscono per riflettersi con estrema ridondanza nelle scelte stilistiche di seguito adottate.
Quando a proposito di Zeno e del suo entourage il regista ammette: “a un certo punto dentro di me io ho cominciato a capire con loro”, nelle sue parole c’è il senso più profondo del metodo specifico adottato per comprendere una realtà, dopo aver imparato a relazionarsi con essa; un metodo in grado di motivare la lunga immersione e il relativo training svolto presso i carbonai di Serra San Bruno per esempio, sfociato in un addestramento e introduzione al gruppo che gli ha concesso infine, di potersi confondere con loro. È stata una certa immagine mentale a formarsi per prima, giustificando e guidando di seguito, la costruzione della relativa immagine filmica, che ha potuto affondare le sue radici in una preliminare quanto esclusiva incorporazione/comprensione della realtà osservata. Proprio in tal senso, si fanno più chiare le profonde analogie con l’operazione di Ivens ma anche e soprattutto, con l’esperienza di campo maturata da Cristina Grasseni in Val Taleggio (Chi non lavora non fa l’amore, 1998) per esempio, relativa all’apprendimento condiviso e distribuito di una pratica esperta socialmente situata: criticità positiva del “saper fare” laddove l’abilità diviene strumento di costruzione identitaria, comune substrato di condivisione etica ed estetica insieme. L’addestramento della Grasseni come allevatrice di bovini ricorda l’apprendistato tra i pastori e i carbonai di Frammartino, che impara a “saper guardare” un universo direttamente dai suoi protagonisti, attraverso i loro occhi e la loro competenza, nell’ambito di un esercizio percettivo in cui l’esperienza visiva si lega e si confonde con quella contemporanea di tutti gli altr...