Immagini Mancanti. L'estetica del documentario nell'epoca dell'intermedialità
eBook - ePub

Immagini Mancanti. L'estetica del documentario nell'epoca dell'intermedialità

  1. Italian
  2. ePUB (disponibile sull'app)
  3. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Immagini Mancanti. L'estetica del documentario nell'epoca dell'intermedialità

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Il documentario torna oggi a interessare gli autori, la produzione e il pubblico perché in esso è possibile trovare un laboratorio di sperimentazione del linguaggio dei nuovi media. Registi, tra gli altri, come Delbono, Di Costanzo, Marazzi, Marcello, Minervini, Quatriglio, Rosi tra gli italiani, o Oppenheimer e Panh tra gli stranieri, non si limitano a raccontare la realtà, ma ci mostrano gli usi possibili delle nuove tecnologie intermediali e interattive, nella misura in cui queste non ci allontanano, bensì ci rimettono in contatto in modo rinnovato con il mondo che ci circonda. Il documentario contemporaneo – per il quale l'autore propone la definizione di "cinema di testimonianza", più adatta a descrivere il documentario contemporaneo di quella classica di "cinema del reale" – ci insegna a incontrare il mondo attraverso la mediazione digitale, che definisce ormai l'orizzonte di ogni nostra esperienza. A tale scopo, il saggio mette a lavoro alcune ipotesi filosofiche novecentesche sull'immagine (tra le altre, quelle di Ricoeur, Gadamer, Merleau-Ponty, Lyotard) riferendone in modo originale i risultati ai nuovi usi dell'audiovisivo che qui sono trattati. Ai capitoli teorici si affiancano analisi di sequenze o di immagini, definite "iconologie", tratte da film di alcuni degli autori sopra menzionati.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Immagini Mancanti. L'estetica del documentario nell'epoca dell'intermedialità di Dario Cecchi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Arte e Fotografia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788868225049
Argomento
Arte
Categoria
Fotografia

III. IL CORPO ESTRANEO: IL LAVORO
DELL’IMMAGINAZIONE NEI MEDIA

Nell’ultimo capitolo intendo affrontare più direttamente la questione di come oggi il cinema e i media trovino nuove aree di intersezione e punti di convergenza. Il cinema del reale nelle sue declinazioni contemporanee ci sembra un terreno fertile per questa interrogazione. Si tratta, infatti, della forma di cinema che con grande spregiudicatezza integra al proprio interno i media comunemente in uso oggi, mettendone magari a punto i possibili linguaggi. È il caso dei film girati con un telefonino, esperimenti su cui ha lavorato in particolare Pippo Delbono, ed è il caso anche dei sempre più numerosi e complessi web documentario, che organizzano la narrazione non in base a un montaggio audiovisivo, ma intrecciando montaggio audiovisivo e progettazione di una piattaforma web. In Que reste-t-il du cinéma? Jacques Aumont[1] commenta piuttosto negativamente questi esperimenti. Ma la tesi sostenuta dallo stesso Aumont nel libro è che, se qualcosa resta del cinema, questo qualcosa è indubbiamente il montaggio. E se resta, ciò significa che il montaggio – che non è un procedimento esclusivamente cinematografico: si pensi al montaggio di una messa in scena teatrale – passando attraverso il cinema ha acquisito un tratto visivo specifico, un certo modo di organizzare lo sguardo, e che ora può restituirlo ad altre forme espressive, o a forme di sperimentazione che si collocano ai confini dell’arcipelago cinema.
È il caso evidentemente di alcune delle sperimentazioni appena ricordate. Il fatto di collocarle nell’alveo del “cinema di testimonianza” fa acquistare a questa etichetta un significato preciso. Non intendo usarla come definizione di un genere. L’idea che stia emergendo all’incirca negli ultimi quindici anni un nuovo cinema del reale rinvia, da una parte, alla definizione di alcuni criteri, se vogliamo classificatori, comuni. È un cinema che reinventa i suoi linguaggi, facendo lavorare insieme documento e finzione, ponendo la questione del rapporto tra l’immagine montata e gli archivi da cui l’immagine è presa, concependo il cinema come una forma di riscrittura di una traccia già scritta, ma appunto riscrivibile, ovvero disponibile a nuove operazioni di senso. È un cinema, infine, che nega una distinzione di fondo tra il montaggio come momento di “messa in opera” dell’immagine e gli svariati processi di postproduzione, ormai diffusi a tutti i livelli, ma che non creano propriamente un’opera.
La differenza tra queste due diverse modalità di intendere il montaggio non va ricercata pertanto in una distinzione ontologica tra cose che sono opere d’arte, o film, e che cose che, pur presentando tratti familiari ai film e alle opere d’arte, non lo sono[2]. I film, nella prospettiva di cinema che ho voluto qui evidenziare, non fanno altro che esibire esemplarmente le opportunità contenute anche in altri media. Se nel film c’è chiusura dell’oggetto visivo in un’opera, ciò va ascritto più a ragioni di ordine pragmatico che a ragioni di ordine ontologico. Il cinema mostra le possibilità creative dei processi post-produttivi. Lo abbiamo visto in Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi: è grazie a una sapiente regolamentazione dei materiali, che non sono montati secondo l’estro o il desiderio della regista ma secondo regole formali precise, che è possibile attraverso il film mostrare cosa è possibile fare di un archivio di immagini raccolte per scopi non cinematografici e pubblici, bensì privati, di “consumo” informale delle immagini. Abbiamo mostrato come in quel caso sia addirittura il film a fondare l’archivio in quanto tale: in altre parole, il cinema può invadere il campo della comunicazione mediale e appropriarsi di alcune sue funzioni, esercitandole più e meglio dei media “comuni”. Un’ora sola ti vorrei allora, pur essendo un film e un’opera conclusa, non potrà non prevedere futuri riusi delle stesse immagini di cui si è servito: riusi che potranno andare in direzioni diverse dalla sua, o porsi con esso in una relazione dialogica (oppure decisamente polemica).
Se c’è un piano ontologico che deve interessarci, è quello che riguarda il fatto che questi processi post-produttivi comuni tanto ai media quanto al cinema sembrano esibire la capacità di rielaborare l’esperienza attraverso le immagini. È lo statuto ontologico dell’immagine in genere a interessarci, dal momento che l’esplosione dei procedimenti di montaggio degli ultimi decenni sembra rimettere in discussione qualsiasi pretesa di costruire ontologie del cinema distinte dalle ontologie dei media. Questa introduzione si farà carico di presentare la questione nei suoi profili teorici e filosofici più generali, per poi lasciare spazio nei paragrafi successivi a una discussione specificamente orientata al nuovo intreccio che si sta formando nel cinema del reale e nei nuovi media tra estetica – nel senso etimologico del termine: il complesso delle qualità e delle prestazioni della nostra sensibilità (aisthesis in greco) – e tecnica. In questa prospettiva, come mostrano i lavori di Pietro Montani, l’intermedialità, ovvero il lavoro di montaggio tra formati mediali diversi e, aggiungo, il cinema di testimonianza non possono che collocarsi sotto le insegne di una tecnoestetica. I due paragrafi successivi si preoccuperanno (il primo) di mettere in luce quale tipo di dispositivo sensibile, nozione che ricaverò da Jean-François Lyotard, si renda necessario per il lavoro dell’immaginazione in carico a un cinema di testimonianza; (sempre il primo) di chiarire questa nozione, originariamente formulata da Gilbert Simondon, sotto i profili più aderenti a una teoria del cinema. E infine (il secondo) mi chiederò se il tipo sensibilità prevista dalla tecnoestetica non presupponga una relazione tra il soggetto e il mondo dell’esperienza che si configuri nei termini di una comunicazione carnale, del tipo di quella teorizzata dall’ultimo Maurice Merleau-Ponty. Questo sarà anche un modo di riabilitare una valenza ontologica del discorso sul cinema, ma in una chiave diversa da quella sopra ricordata. Non sarà un’ontologia delle opere d’arte. Sarà un’ontologia del modo in cui, attraverso protesi e tecnologie, esemplarmente nel cinema ma diffusamente in tutti i media, si istituisce una relazione di scambio tra il soggetto e il mondo.
Un’ontologia dell’immagine come quella che ho in mente deve presentarsi necessariamente come un superamento radicale della prospettiva platonica, o platonizzante, secondo cui l’immagine è semplicemente una copia (spesso fallace) della cosa reale (o più precisamente della cosa empirica, a sua volta copia imperfetta dell’idea)[3]. È inevitabile che l’immagine sia considerata un “essere di grado minore”, secondo una prospettiva che abbiamo già visto essere criticata da Louis Marin. Nella prospettiva che assumo qui, invece, l’immagine fa sempre riferimento a un lavoro dell’immaginazione, che sintetizza, elabora e anticipa l’esperienza. Per questa ragione l’immagine, se è il correlato esternalizzato di questo lavoro, non può essere un “essere di grado minore”. Essa potrà afferire a una trama trascendentale dell’essere delle cose, non per questo però meno importante. I filosofi di cui ci siamo occupati nei capitoli precedenti hanno ampiamente accreditato il valore pragmatico e semantico che l’immagine riveste per la comunicazione umana in quanto comunicazione che si dota necessariamente di media per articolarsi. Ora si tratta di compiere un passaggio ulteriore: concepire l’insieme di queste pratiche mediali come un più generale modo di rapportarsi attraverso una sensibilità necessariamente supportata da media. Se questa modalità estetico-mediale esiste, e credo che i molti esempi ricordati ne attestino l’esistenza, essa ci dice allora qualcosa del nostro essere nel mondo, sotto il profilo del commercio che intratteniamo con le cose sensibili, e ha dunque un valore ontologico. Un’eccezione va fatta naturalmente per Aristotele, quando parliamo di un’ipoteca platonica, o platonizzante, che grava sulla riflessione occidentale sull’immagine[4]. Non me ne occupo qui per due ragioni. La prima è che tale argomento supera di gran lunga gli obiettivi e i limiti del libro. La seconda è che ho già detto nel primo capitolo a proposito di Ricoeur che occorre comunque superare la prospettiva aristotelica, ripresa da Ricoeur, almeno sotto un profilo: non considero più la mimesis come un momento di “rifigurazione” del mondo, bensì come un modo di istituire un riferimento a una traccia già presente nel mondo sotto forma di iscrizione esternalizzata.
Il filosofo che nel Novecento ha più difeso la riabilitazione ontologica dell’immagine contro il platonismo di ogni sorta è sicuramente Hans Georg Gadamer. Ciò che voglio fare, ripercorrendo le tesi di Gadamer sull’immagine, è mostrare come sia più opportuno intendere il rapporto tra le immagini e cose, una volta che la tradizione platonica (o platonizzante) sull’immagine è stata ripensata in chiave moderna (come già fa Marin), non come un rapporto tra un’ontologia “minore” e un’ontologia “maggiore”, bensì come un’ontologia diminuita e un’ontologia aumentata. Alla questione il filosofo tedesco dedica pagine importanti della sua opera principale, Verità e metodo, come pure importanti sono alcuni saggi dedicati al tema, che acquistano particolare significatività una volta messi a confronto con la tesi generale contenuta in Verità e metodo. Una premessa va fatta. Gadamer è un filosofo per cui l’esperienza dell’arte e dell’immagine rivestono un’importanza capitale. E tuttavia egli resta il filosofo del Novecento che con la maggiore chiarezza ha attributo al linguaggio il primato ontologico. Ciò non può dirsi per Wittgenstein, il quale identifica forme di vita e giochi linguistici, ma lascia impregiudicato se si debba intendere questa identità in senso ontologico, o in senso strettamente linguistico, o magari in senso antropologico. Ciò non può dirsi nemmeno del tutto per Heidegger, sebbene la tesi della centralità ontologica del logos linguistico, anzi dell’identità del logos inteso come trama trascendentale dell’essere con il linguaggio, Gadamer la riprenda da Heidegger. Heidegger ha pensato il “mettersi in opera della verità” anche in forme diverse dal linguaggio, ad esempio l’arte. Per non parlare del fatto che la questione della tecnica apre in Heidegger la possibilità di un completo “oblio dell’essere”, riconfigurando in modo totalmente inedito il problema di un logos che ci consenta di fare autenticamente esperienza delle cose[5].
La ricezione più recente del pensiero di Gadamer ha messo bene in luce che è forse più appropriato parlare di medium che di linguaggio, quando partendo da premesse gadameriane ci interroghiamo sulla possibilità di raccogliere la nostra esperienza del mondo e di renderla comunicabile agli altri[6]. Sulla stessa linea di Donatella Di Cesare, un altro allievo di Gadamer, Dennis J. Schmidt, recupera alcuni ...

Indice dei contenuti

  1. INTRODUZIONE
  2. ICONOLOGIA. UN’ORA SOLA TI VORREI DI ALINA MARAZZI
  3. I. DANZARE L’IMMAGINE: I MEDIA VISIVI TRA ESTETICA E FILOSOFIA DELL’ARTE
  4. II. IMMAGINI MANCANTI:IL POTERE DELLA RAPPRESENTAZIONE
  5. III. IL CORPO ESTRANEO: IL LAVORO DELL’IMMAGINAZIONE NEI MEDIA
  6. Elenco dei nomi
  7. Elenco dei FILM