Capitolo 1
L’affondamento del Novorossiysk
Sebastopoli, Crimea del sud. Alle ore 18.00 del 28 ottobre 1955, la più grande corazzata della flotta sovietica entra lenta e maestosa nel porto. Dirige, come di consueto, alla boa n. 12 ma quella sera, inspiegabilmente, il comandante della flotta viceammiraglio Viktor Parchomenko riceve l’ordine di ormeggiare alla boa n. 3. Era il Novorossiysk, così lo ribattezzarono i russi dopo averlo preso in consegna dagli italiani che dovettero cederlo nel 1949 come risarcimento di guerra a seguito delle clausole imposte dal Trattato di Pace.
Il mare è calmo e gelido. Uno specchio d’acqua scura che riflette le luci della bella città ucraina. “La piccola Italia”, così gli ucraini chiamano la penisola di Crimea, è una terra fertile che domina il mar Nero; in estate il clima è mite ma già dall’autunno le temperature diventano rigide. Nella costa sud-occidentale della penisola si trova Sebastopoli, base principale della Flotta del Mar Nero, situata tra il porto di Odessa a nord e lo stretto dei Dardanelli a sud-ovest, a una distanza di circa 750 miglia marine dalle nostre coste meridionali.
Nel 1955 l’equipaggio sovietico aveva finalmente concluso l’addestramento, reso più complesso per la dotazione dei manuali di bordo tutti solo in lingua italiana, e iniziava a prendere confidenza con le attrezzature e gli armamenti. Dal 1949 il Novorossiysk era stato condotto nei cantieri sovietici almeno otto volte per lavori di ammodernamento. Allestito con radar Volley-M e sostituiti i vecchi motori con due potenti turbine costruite nelle fabbriche di Kharkov che sviluppavano una velocità di 28 nodi, la corazzata diventa in pochi anni un temibile mezzo bellico nel cuore del vecchio continente. I sistemi di puntamento dei giganteschi cannoni da 320/44 mm delle due torri trinate e due binate situate in posizione prodiera e poppiera, sono elettrici e non più idraulici. Le cabine, ormai ben isolate, proteggono dalle basse temperature e dai venti gelidi che soffiano dalla Siberia. Il capitano di 1° grado Marchenko dichiarava con orgoglio che “la corazzata era superbamente armata. Tutta la nostra flotta non aveva una nave con simile calibro nei cannoni principali, perfino il Sevastopol, che per noi era un vanto, aveva i 305 mm. La torre trinata ruotava facilmente e rapidamente, il caricamento era semiautomatico, la trazione era elettrica, anche il sistema di controllo del fuoco aveva una buona progressione: due colpi al minuto, mentre sul Sevastopol uno e mezzo. Il Novorossiysk riusciva a sviluppare fino a 29 nodi di velocità senza alcuna vibrazione nello scafo”.
La corazzata, che gli italiani avevano chiamato Giulio Cesare in memoria del console romano, è immobile all’ormeggio a una distanza di circa 360 m in linea d’aria di fronte all’ospedale di Sebastopoli. L’equipaggio si prepara per la notte, i marinai sono giovani e piomberanno presto nel sonno profondo dei vent’anni. Dopo giorni trascorsi in mare sono finalmente a casa loro. Nessuna guerra, solo celebrazioni di magnificenza navale e addestramenti. Avventure serene e senza il rischio di rimetterci la pelle. Il porto di Sebastopoli, teatro di guerra fino a dieci anni prima ma accuratamente bonificato dalle mine, appare sicuro. La città, con le sue numerose insenature naturali alcune delle quali profonde fino ad 8 km entroterra, è da sempre rifugio privilegiato per marinerie di ogni tempo e provenienza e grazie alla posizione strategica garantisce a Mosca l’accesso e il controllo verso Occidente nel cuore della vecchia Europa.
Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Archivio Centrale dello Stato, 2014, aut. 1204.
In un articolo pubblicato dalla Military intelligence review nel dicembre del 1949 che riporta informazioni rese dalla Marina britannica, e tradotto dal nostro Sios il 10 dicembre dello stesso anno, si stima che le unità della flotta sovietica presenti in quelle acque fossero numerose. Tra queste, sottomarini del tipo “L”, “D” e “S” oltre a battelli di media e piccola crociera, naviglio leggero, navi da battaglia tra cui il Novorossiysk, l’incrociatore Molotov e la classe Kirov. Anche l’intelligence americana monitora con estrema attenzione il potenziale bellico e i mezzi navali nel grande porto di Sebastopoli. Due documenti della Cia, rispettivamente del 1° e del 4 febbraio 1952, riferiscono di manovre nel porto di Sebastopoli dell’incrociatore Terek e dell’incrociatore Molotov, oltre a sette sottomarini che ormeggiano alla fonda. Gli aerei spia americani fotografano tre cacciatorpediniere, una decina di torpediniere, due grandi sottomarini, due sottomarini di media grandezza, dai quattro ai sei piccoli sottomarini probabilmente della classe M89, la nave scuola italiana Cristoforo Colombo e una nave da battaglia con due torri trinate in posizione prodiera e poppiera. Con ogni probabilità è il Novorossiysk ma il nome – come anche la foto – sono stranamente omessi. Dopo aver ricevuto questi documenti, a ottobre 2013 decido di chiedere maggiori informazioni sul Novorossiysk e su quella terribile notte agli archivi della Cia. Nonostante la loro solerzia e impeccabile puntualità nell’inviarmi tutto quello che chiedo, e che è di pubblico dominio, il 6 novembre mi rispondono con la consueta formula: “In accordance with section 3.6(a) of Executive Order 13526, the Cia can neither confirm nor deny the existence or nonexitstence of records responsive to your request”. Chi frequenta simili documentazioni sa cosa significhi quel linguaggio talvolta enigmatico in uso nei servizi. Naturalmente prendo atto che non confermano né negano l’esistenza o la non esistenza di notizie in chiaro sul Novorossiysk. Solo qualche anno più tardi, durante la stesura della seconda edizione del libro, mi sarei reso conto che alcuni dei documenti che riguardavano questa storia erano ancora top secret, dunque indisponibili nel 2013.
Quella sera del 28 ottobre verso le 21.30 tutto diventa silenzioso. I marinai salgono sulle brande e quelli in servizio passano il tempo nelle rispettive postazioni. Alcuni dormono, altri provano a rimanere con gli occhi aperti. Le luci si spengono, cala l’oscurità e il mare diventa nero. La banchina del porto è deserta. Si sente in lontananza solo il ronzio delle pompe elettriche delle navi e dei gruppi di continuità dell’ospedale. Null’altro.
Nell’immagine satellitare, il punto – indicato da una croce – dove era ormeggiato il Novorossiysk al momento dell’esplosione
Improvvisamente, in piena notte, alle ore 01.30 e 48,5 secondi una spaventosa esplosione squarcia lo scafo della nave a prua all’altezza della 42ª paratia, provocando una colonna di fuoco, fango e sangue alta trenta metri. I principali sismografi delle stazioni della Crimea, a Simferopoli, Sebastopoli e Odessa, registrano un scossa. “Quella notte – mi disse Viktor Saltykov, un artigliere antiaereo sopravvissuto all’affondamento – dormivo nella mia cuccetta a circa 100 m di distanza dal punto dell’esplosione. Sono stato sbalzato, insieme ai miei compagni, giù dalla branda sospesa che oscillava da un lato all’altro della cabina”. “Immediatamente fu dato l’ordine di allerta di combattimento. Ci siamo diretti verso il ponte principale, poi alla piattaforma superiore vicino al ponte di comando principale, per essere pronti. In quel punto si trovava la nostra batteria antiaerea da 100 mm. Ho indossato l’elmetto e ho ricevuto l’ordine dal comandante della batteria Vladimera: – Caricate il cannone e controllate il cielo! –. Il nostro comandante si aspettava un attacco aereo. Non capivamo, avevamo ricevuto questo comando e dovevamo aspettare. Il cannone si trovava a circa 50 m dal punto dell’esplosione”.
Viktor Saltykov parla e la sua voce è rotta dall’emozione. Ancora oggi non capisce, il suo sguardo è fermo a quegli attimi drammatici. Cinquant’anni trascorsi in compagnia della sua tragedia. Non capisce perché dal sonno profondo dei vent’anni del tempo di pace, passarono in un attimo alla veglia di fuoco, fango e sangue. La città di Sebastopoli è in preda al terrore. Giganteschi depositi di carburante sono sparsi un po’ ovunque e il rischio è che esplodano. Sulla corazzata ferita a morte c’è confusione. I marinai continuano a guardare il cielo, ma il cielo è silenzioso. “Il cannone era carico e non potevamo lasciarlo fino a quando non ci veniva ordinato di scaricarlo – dice Viktor Saltykov – poi ci è stato ordinato di tornare alle brande per prendere i documenti e metterli nella tasca sinistra: il libretto militare, la tessera del Komsomol (organizzazione giovanile del Partito Comunista dell’Unione Sovietica – N.d.A.) e la carta d’identità del partito”.
Il Novorossiysk inizia ad imbarcare acqua a prua. I ponti vengono allagati per evitare che esplodano i depositi di munizioni. “Quando siamo scesi nelle cuccette, la nave era talmente inclinata che quasi non riuscivamo a stare in piedi. Abbiamo preso subito i documenti e attraverso una botola siamo saltati al piano di sopra verso dritta. Le scale erano piene di marinai e non si poteva scendere. Accanto a noi c’era il capitano di 3° grado Servolov Maksim Grigorievic. Ci ha ordinato di scavalcare le prese d’aria a dritta e andare verso il ponte di comando”.
L’ammiraglio Parchomenko non ordina l’abbandono nave ritenendo che il fondale e la profondità consentano alla corazzata di non capovolgersi, ma commette un errore fatale. Il Novorossiysk inizia rapidamente ad affondare. “Abbiamo scavalcato velocemente i parabordi, – prosegue Saltykov – ci siamo tolti le scarpe e le giacche e siamo corsi velocemente verso la parte della nave che emergeva ancora dall’acqua. Correvamo, cadevamo, ci rialzavamo e poi di nuovo si cadeva. Ci siamo ritrovati così sulla chiglia della nave. Eravamo in 48. Tra noi c’era il capitano di 1° grado Soloviev che ci rassicurava: – Ragazzi è finita, la nave è già capovolta! Non saltate in acqua perché tutt’intorno pullula di marinai che cercano di nuotare da questa parte! –. Nessuno di questi marinai nuotava verso nord, tutti tentavano di raggiungere la riva. Il capitano ci rassicurava: – Rimanete fermi! Esplosioni non ce ne saranno più! –. L’ammiraglio Parchomenko non si rende conto che il fondale è fango e melma e non offre alcuna resistenza al pesantissimo scafo, la profondità dunque va ben oltre i 17 m da lui stimati. Alle ore 4 del mattino, nel mar Nero della Crimea, nella bella città di Sebastopoli, di fronte all’ospedale, l’ultimo pennacchio di fumo e vapore si scaglia verso il cielo buio, la nave si capovolge portando con sé 604 marinai sovietici. Victor Saltykov, insieme al suo comandante Soloviev ed altri 48 uomini di equipaggio si salveranno.
Sulla bella città della “piccola Italia” cala il silenzio. Seguiranno giorni drammatici nei quali altri marinai perderanno la vita per salvare quelle giovani voci che intrappolate nel gigante d’acciaio cantavano “Varyag”. Poi il canto si fece debole fino a confondersi con la brezza del mare e fu a quel punto che “Varyag” divenne memoria collettiva della più grave tragedia di tutti i tempi della Marina militare sovietica.
Dopo l’affondamento venne immediatamente istituita una commissione d’inchiesta che il 17 novembre 19...