Dall’insediamento all’adattamento:
le reti e il contesto d’arrivo
I network migratori
I processi migratori sono fenomeni sociali collettivi, che congiungono non solo più punti del sistema (area di origine, transito e destinazione), ma anche più soggetti, legati tra di loro da relazioni di natura diversa (parentale, amicale, etnico-nazionale, lavorativo-professionale). Tali processi non possono che declinarsi all’interno di reti e relazioni sociali tra migranti effettivi e potenziali che, attraversando le frontiere, danno vita ad interconnessioni tali da ridurre al minimo i costi e i rischi della migrazione. Le reti, che costituiscono a livello teorico un ampliamento concettuale della categoria di “catena migratoria”, benché non facciano chiarezza sulle origini del flusso, ne spiegano il meccanismo intrinseco di autopropulsione e gli effetti di retroazione sul contesto di origine. Come scriveva Thomas rispetto all’emigrazione transoceanica diretta verso il Nuovo Mondo:
La situazione di un uomo immigrato da poco sarebbe qui di totale disorientamento se egli non trovasse alcuni punti fermi di identità rispetto alla propria vita passata, e li trova proprio tra coloro che appartengono al suo gruppo o alla sua nazionalità e che lo hanno preceduto. Quasi sempre arriva presso amici; spesso sono stati loro a mandargli il biglietto della nave, e sono loro ad ospitarlo finché non trova un lavoro e non restituisce i soldi del biglietto (Thomas 1921, tr. it. 1997, p. 99).
La migrazione ucraina non si discosta da questo framework. Mutano le modalità dell’andare: la maggior parte delle migranti viaggiano in pullman, servendosi di agenzie turistiche che lavorano senza licenze, o prendono i pullmini a nove posti, che attraversano sapientemente varie linee di frontiera prima di giungere a destinazione. E mutano anche le condizioni nel contesto di ricevimento: generalmente non si incontrano e non ci si fa ospitare da parenti e amici, ma c’è già qualcuno sul posto che le aspetta o che spiana loro la strada, di solito una connazionale che svolge il ruolo di mediatrice, trovando un lavoro e/o una sistemazione temporanea. Si parte, quindi, sulla base della fiducia riposta in conoscenti e amici, oppure su sollecitazione di concittadini che sono partiti prima che, per i modelli positivi e di successo che trasmettono, stimolano ad essere seguiti, creando una catena che si riproduce costantemente, autoalimentandosi.
In quel periodo, una mia amica era già andata in Italia, a Torre del Greco. Un giorno, mentre parlavo con lei per telefono, mi disse: “Per quale motivo tu stai ancora a casa? Dai, vieni qui!”. Ed io le dissi: “Galija, come vengo? Mia figlia adesso ha sedici anni. A lei serve una madre! E poi io non conosco nemmeno la lingua!”. “E cosa volete fare? Bogdan [il marito, N.d.A.] non lavora, tu non lavori, lei studia: come vivete?”. “Come viviamo? Tu sai come viviamo!”. “Dai vieni, almeno per un anno!”. (Olga)
Sono venuta in Italia, perché una mia amica lavorava a Cosenza. Io ero stata a lavorare in una fabbrica nella Repubblica Ceca. Come sono tornata a casa, i soldi, ta-ta-ta, e già erano finiti! E pensavo: “Mamma mia cosa devo fare, devo andare di nuovo da qualche parte?”. Questa mia amica lavorava già in una famiglia, e per telefono mi ha proposto di raggiungerla. E così nel 1999 sono venuta a Cosenza. (Maria)
A fine 1999, ad ottobre, sono partita per Roma, dove c’era una mia amica, una mia vicina di casa, che mi aveva proposto di partire, dicendomi: “Se tu vieni, magari cominci a capire come funziona, un po’ ti spiego la situazione e così piano, piano trovi lavoro”. (Elena)
La categoria di “catena migratoria” è stata introdotta negli anni sessanta per dar conto dei meccanismi di richiamo familiare utilizzati dagli emigranti (maschi) dell’Europa meridionale (Ambrosini 2008, p. 18) verso i restanti membri del proprio nucleo familiare. Sia le migrazioni individuali che familiari possono determinare l’avvio di “catene migratorie”: quel complesso di legami personali e familiari che fungono da richiamo di nuovi migranti con la stessa provenienza e che, una volta innestatosi, assume una natura autopropulsiva, finendo col rendere i flussi parzialmente indipendenti dalle opportunità lavorative disponibili nelle specifiche aree di approdo (Zanfrini 2007, p. 100). Diversamente la “rete migratoria” è
… da intendersi come l’intreccio di un set di relazioni che danno vita ad un tessuto sociale complesso, provvisto di diramazioni e di una serie di interdipendenze tra il contesto di arrivo e quello di partenza, i cui legami non sono sempre di natura familiare, ma, come nel nostro caso, maggiormente costituiti da reti amicali, di conoscenti o più semplicemente di connazionali (Massey 1988, p. 396). Il network – amicale o parentale – si configura così come un elemento fondante la decisione della migrazione, e vitale per una questione di r-esistenza attiva sul posto, in grado di produrre un miglioramento della propria posizione economica, sociale, psicologica ed emotivo-relazionale (Salvino 2014, pp. 158-159).
Ogni migrante che approda nel contesto di ricevimento è quindi parte di un complesso flusso di relazioni ed interazioni, all’interno del quale si attua un trasferimento spontaneo del capitale sociale di cui la rete dispone, al fine di facilitare l’accesso alle diverse opportunità che si sviluppano nella società di arrivo. La nota affermazione di Tilly “non sono gli individui a emigrare, ma i network” (Tilly 1990, p. 84) rimanda ad un livello di agency che trascende la dimensione individuale (micro), collocando il singolo soggetto in un livello intermedio di tipo meso, che è, appunto, quello espresso dalle teorie dei network (Massey 1988). L’unità di analisi nel “crucial meso-level” (Faist 1997) diviene così l’elemento del ‘sociale’ – il cui ruolo era già stato ampiamente sottolineato da W.I. Thomas e F. Znaniecki (1918-1920, tr. it. 1968) nella migrazione contadina polacca in Europa e America – che si aggiunge al profilo ‘economico strutturale’, costituito dai fattori macro, e alla dimensione ‘individuale e familiare’ espresse dal livello micro.
La rete risulta, dunque, un’infrastruttura dotata di funzioni ampie, che possono essere sintetizzate in funzioni di tipo cognitivo (assunzione, propagazione e condivisione di informazioni), strumentale (atte a risolvere problemi di ordine pratico: sistemazione logistica, ricerca lavoro, consulenza legale, assistenza sanitaria e sociale), identitario (mantenimento e promozione della propria identità etnica) ed emotivo (sostegno affettivo e psicologico).
A volerle meglio esplicitare, le funzioni dei network potrebbero essere così descritte: fungono da stimolo ed incoraggiamento e trasmettono le informazioni primarie necessarie alla partenza e all’orientamento nel nuovo contesto; avviano processi di mediazione linguistica e culturale per i connazionali, specie in presenza di modesti livelli di competenza linguistica da parte dei new comers; forniscono supporto morale e, laddove necessita, anche materiale; a destinazione sostengono logisticamente il nuovo arrivato fino a che questo non abbia trovato un’occupazione; attivano le proprie reti di conoscenza locali per trovare un lavoro (Ambrosini 2005, pp. 82-89; Zanfrini 2007, pp. 99-103). I network sono anche funzionali a un cambio di lavoro – per decisione propria o altrui – e ad atti di richiamo in altre città, magari al Nord, ove le condizioni e le prospettive lavorative sono più ampie e meglio retribuite.
Dopo sei mesi in Italia sono tornata a casa e lì una mia amica mi ha chiamato per andare a lavorare a Padova. (Ljuba)
Un giorno mi chiama una mia amica e mi dice: “Vedi che c’è una signora di Milano che sta cercando una babysitter per suo figlio che si occupi pure dei servizi, perché si deve stare tante ore a casa. I genitori sono di Salerno, però loro vivono a Milano”. Sono andata, li ho conosciuti, mi hanno detto che parlavo bene l’italiano e siamo rimasti che mi avrebbero fatto sapere. Mi offrivano molto di più dei quattrocento euro che guadagnavo in Calabria: mi davano mille euro. Poiché avevo urgente bisogno di denaro, in una settimana mi sono trasferita! (Alla)
Solitamente l’accesso al mercato di lavoro del Nord è facilitato dalla conoscenza della lingua, che, in generale, consente anche un più efficiente orientamento nella società ricevente. Essa è il mezzo primario attraverso il quale si concretizza il processo di accostamento alla (e comprensione della) cultura locale, altrimenti lasciato in sospeso e caricato di infiniti misunderstandings. La lingua orienta l’interazione tra gli individui in virtù della sua funzione di mediazione normo-simbolica e di traduzione della realtà in significati socialmente condivisi. Come racconta Oksana eloquentemente:
I primi tre mesi sono stati senza un sorriso, senza allegria: terribili. Sai perché? Perché non potevo parlare. Questi tre mesi sono stati i più tremendi di tutta la mia vita: un incubo così non l’ho mai vissuto. A Benevento tutti parlano in modo emozionale, ed io prendevo questi atteggiamenti come un continuo rimprovero. Io non capivo cosa mi dicessero e pensavo sempre che mi sgridassero. Perché io non sapevo fare delle cose: da noi il modo di cucinare è diverso, perfino fare le pulizie per me era difficile perché mentre da noi c’è un solo detersivo per tutto, da voi ce ne sono tanti: uno per il pavimento, uno per il bagno, uno per il water. Io mi confondevo sempre, perché non riuscivo a leggere le etichette. In quei momenti era molto difficile. Ma cominciai a darmi da fare per imparare la vostra lingua il prima possibile. Io scrivevo su delle carte i nomi delle varie cose. Sul frigorifero avevo attaccato una targhetta con la parola ‘frigorifero’, tutto quello che c’era in casa era pieno di questi cartellini. Quando dovevo dire o chiedere qualcosa io sempre con gli occhi cercavo su questi oggetti la parola che mi serviva. Questo metodo mi è stato molto utile.
Nel momento in cui cominciai ad imparare la lingua, allora capii che loro non mi sgridavano, ma che questo era il loro modo di esprimersi. Allora capii che loro non parlavano in italiano, ma in dialetto, che non era nemmeno napoletano, ma addirittura beneventano. Loro parlavano nella loro lingua, abbreviando le parole, troncandole ed io non potevo capirle a meno che qualcuno non me le spiegasse. Ad un certo punto ho cominciato a chiedere a tutti loro: “Parlatemi per favore in un italiano pulito”. Io avevo un quaderno che utilizzavo quando guardavo la televisione, perché in televisione da voi parlano un italiano corretto: in basso scorrevano i sottotitoli, io leggevo queste parole e poi le trascrivevo su questo quaderno e la sera le cercavo, in modo che io potessi essere in grado di conoscere la vostra lingua. Io non volevo solo imparare a comunicare, ma desideravo anche molto leggere i vostri giornali, le vostre riviste. Quando tutti cominciarono a parlare italiano con me allora diventò molto più semplice. Tre mesi ho studiato la lingua. Dopo tre mesi ho iniziato a parlare. Quando inizi a parlare è completamente un’altra vita, assolutamente. Innanzitutto io abitavo in una casa con sei appartamenti, dove tutti si conoscevano. Dopo pranzo scendevano tutti in strada, si sedevano e cominciavano a parlare. Era così interessante. E a loro interessava chi ero io. Io raccontavo e riuscivo a rispondere alle domande e ad imparare la loro vita. Un’altra cosa completamente.
L’acquisizione della lingua rappresenta quel salto in avanti che consente di sentirsi più a casa, di compiere quel passaggio che, in parte, riconcilia con se stessi e con le persone con le quali si condivide la propria quotidianità. In caso contrario ci si sente come menomati, sordomuti: alieni catapultati in un territorio ostile.
Quando non conosci la lingua e ti chiedono qualche cosa e tu ti giri e non sai se stanno facendo la domanda a te e tu non capisci che cosa vogliono da te…peggio di un animale ti senti. (Oksana)
La migrazione, infatti:
… intesa come movimento nello spazio e nel tempo, espone anche ad un espatrio lingustico, che, come sottolinea Anna Rossi-Doria, è «perdita della lingua materna», una «sorta di esilio interiore» a cui la donna migrante è sottoposta al fine di integrarsi nel nuovo ambiente e ricrearsi una nuova identità che va a scapito di quella precedente. L’assunzione di una nuova fisionomia linguistica si rivela, invero, q...