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Siamo sospesi su di una fenditura. Essa segna una rottura e dispone un di qua e un di là. La consapevolezza sociologica di tale momento di rottura e di passaggio ha prodotto il postmoderno, vale a dire una società che non ha ancora chiuso con il moderno ma che non ha neppure prospettato le forme della società che verrà.
La fenditura si è creata a causa di importanti cambiamenti tecnologici, sociali, individuali. Tali cambiamenti conducono a nuove forme identitarie e alla formazione di nuove relazioni sociali.
Quali conseguenze sui nostri profili vengono prodotte dagli attuali processi di consumo e dalle proliferazioni invasive e onnipresenti delle comunicazioni di massa?
In che modo l'elettronica muta le nostre relazioni sociali?
Essere consumatori invece che cittadini, essere internauti invece che persone, avvolgere ogni forma di relazione sociale dietro gli schermi azzurrini dei nostri computer, dei nostri palmari, dei nostri cellulari, che cosa comporta per le nostre idee, per le nostre speranze, per i nostri timori e per le nostre aspettative? A queste domande tenta di fornire una risposta questo libro che Alberto Abruzzese e Mauro Ferraresi vogliono indicare come un testo fondamentale per indicare le nuove ibridazioni di organico e inorganico, per segnalare il mescolamento di molecole e di elettronica e per denunciare la produzione di nuovi individui e di nuove relazioni sociali fornite di più sottili e virtuali consistenze. Interventi seguendo l'indice Mauro Ferraresi, Vanni Codeluppi, Giovanna Russo. Vincenzo Susca, Derrick de Kerckhove, Michel Maffesoli, Carlo Formenti, Stéphane Hugon, Andrea Granelli,
Nello Barile, Andrea Malagamba, Antonio Rafele, Alberto Abruzzese

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788868740917
Categoria
Sociologia
Alberto Abruzzese
Manifestazioni identitarie prima delle cose penultime
Il fantasticare è un universo in espansione, un soffio di odori che fuoriesce dalla cose per mezzo di un sognante. Se voglio studiare la vita delle immagini dell’acqua, mi occorre quindi riconoscere il loro ruolo dominante nel fiume e nelle fonti del mio paese.
[G. Bachelard, Wikipedia]
1. Per cominciare
L’identità: un tema immane, qui predisposto per poche righe soltanto; per un ragionamento breve, occasionale, fatto di passaggio. Un tema disperso (troppo poca identità etica o estetica o politica, si dice) e insieme terribile (troppo terrore e troppa violenza identitaria e soprattutto contro-identitaria, si dice anche). Un tema che – fattosi il mondo più compresso e dunque più sensibile ad opera della globalizzazione che lo stringe e confonde in se stessa – sta soffiando più forte nell’aria che respira chi tra noi, sul finire di questo lunghissimo tramonto occidentale, ha creduto di potersi assopire in un atteso e liberatorio vuoto di identità. O nel suo rassegnato oblio. O nel suo inconscio portamento. L’identità è un tema classico – un concetto canonico – ricco di definizioni tra loro in aperta contraddizione, metafisiche e locali, che hanno fatto la storia del pensiero oscillando tra i giochi di ruolo della commedia umana e la tragedia dei conflitti che le sue grandi narrazioni non sono riuscite a fare rientrare nel proprio lieto fine sociale. Nel proprio riscatto o nella promessa di “buona novella”. Un tema che – oggi, nell’avvento incontrollato di un’epoca di nuove grandi migrazioni fisiche e culturali – si fa sempre più scomodo, più pericoloso, sino a funzionare non da dispositivo di regolamentazione pubblica e da principio ordinatore della vita privata, ma da trappola istituzionale e da detonatore ideologico per chi lo teorizza e per chi lo pratica.
Crisi dell’identità, si dice. Crisi e critica – ci ricorda Michel Maffesoli (2009) – hanno la medesima radice: un soggetto o un oggetto entrano in crisi nel punto in cui al loro interno si apre una spaccatura e con essa – nel suo vuoto – interviene la necessità di valorizzare il fattore che l’ha prodotta. L’idea che una crisi non va ricomposta, chiusa, superata, ma va invece valorizzata non è certamente nuova (Cacciari, 1979). Ma quasi sempre si è trattato di modalità di valorizzazione che non colgono il contenuto reale di quanto, avendo prodotto la crisi, al tempo stesso rivendica la necessità di affermarla invece di superarla (il superamento delle contraddizioni è tipico slogan del progressismo moderno e della sua ideologia continuista). La differenza è in questo: una valorizzazione della crisi come cura omeopatica della malattia (l’uso di piccole dosi di veleno per riportare l’organismo al suo stato di salute ed anzi renderlo immune dalla malattia stessa); oppure una valorizzazione della crisi, non più in quanto condizione di malattia comunque da curare (seppure, intelligentemente, per mezzo della malattia stessa), ma in quanto condizione in cui è proprio la dialettica tra malattia e salute ad essersi consumata, e in cui di conseguenza si è aperta la necessità di perseguire sino in fondo la piena rivelazione del suo contenuto critico (tanto per usare una celebre formula, certo molto presente nel pensiero di Maffesoli: al di là della malattia e della salute).
È in tale prospettiva che si fa per me interessante la partecipazione a questa nostra piccola impresa collettiva dedicata al problema dei problemi e cioè alla domanda sul dove l’umano voglia scegliere di collocarsi o sia costretto a con-sistere per continuare a vivere la propria vita. Il problema dell’identità: qui e ora. Quindi grida, guerre e slittamenti tra frammenti di identità. Flussi e riflussi storici ai bordi del presente, sulla linea passato-futuro che divide Occidente e Oriente. Ondate identitarie: piccole e grandi onde che corrono una sull’altra, dietro e avanti all’altra. E che, raschiando la linea tra sabbia e mare, modificano quanto del suolo sprofonda e quanto emerge; quanto dei luoghi svanisce e quanto riaffiora. Fantasmi di identità che, da creature delle tenebre, si fanno tangibili, manifestandosi anche alla luce del giorno, nell’ora meridiana, panica, dei senza ombra. L’identità post-moderna porta con sé il fardello della società dello spettacolo, della civiltà dell’immagine. Identità di marca è la parola d’ordine che è maturata a partire appunto dal manifesto pubblicitario.
Se pensiamo a quanto il sistema dei media è cresciuto facendo crescere il volume delle merci, l’identità è ben più della persona socialmente costruita e vincolata, è anzi il territorio in cui i processi di identificazione e processi di dis-identificazione sono continuamente al lavoro sul campo dei rapporti sociali e dunque dei conflitti interpersonali. L’identità, anche la più compatta e rigida, ha in sé la dimensione corale di un romanzo di formazione, i tasselli temporali e spaziali di una storia condivisa, di una fiction ad alto gradimento. Come accade nel marketing per la marca, nata al fine di compensare simbolicamente il “vuoto di senso” derivato da strategie di vendita sempre più spersonalizzate, l’identità è la marca, dichiarata o implicita, di ogni relazione affettiva e sociale: la sua funzione consiste nell’orientare alla vita, nel situarla e nel farci sentire di appartenere ad essa. Le marche dei prodotti e le marche identitarie sono il frutto di manifestazioni simboliche intimamente connesse tra loro. Dalle piazze alle pareti della città e poi agli schermi e infine al televisore c’è sempre di nuovo il manifesto: dispositivo ostentativo, aggressivo, d’avanguardia e quindi tipicamente moderno. E tuttavia manifesto è aggettivo e sostantivo che nella sua oltremodo complessa etimologia richiama l’atto di rivelare con violenza, di toccare, colpire, quindi fendere, offendere, scoprire sul fatto, denunciare: una visibilità, quella appunto del manifesto, che turba l’idea solitamente neutra e intenzionalmente pacifica che si suole dare di sfera pubblica, come sfera garantita, depurata e separata dalle irruenze del mercato e dalla potenza dei linguaggi.
L’identità – già di suo sempre dilaniata dal proprio statuto enigmatico: il sé che si riconosce come identico a sé in quanto diverso dall’altro da sé – è soprattutto la marca di una continua divisione nel tempo e nello spazio delle esperienze individuali e collettive. In particolare, si pensi ora al marasma identitario rivelato dalla catastrofe dei nostri sistemi istituzionali e amministrativi: conflitti tra consumatore e cittadino, tra culture locali (famiglia, lavoro, consumi) e cittadinanza; tra capitalismo individuale e Stato. Tra sfera privata e sfera pubblica. Proprio la sfera pubblica: là dove alle identità era assegnato il compito di lasciare armonizzare tra loro le proprie diverse nature; là dove le moltitudini dovevano sapere amministrarsi producendo amministratori capaci di riconoscere e rispettare la loro doppiezza, ambivalenza e instabilità; là dove le persone avevano l’obbligo di entrare in conflitto con altre persone al fine di negoziare il senso della propria identità, liberamente condivisa o rifiutata da altre identità, e affidarsi al buon governo di leggi valide per tutti. Sembra, a dirlo, una sfera, un mondo, in via di estinzione: non perché siano scomparse le impalcature formali che – seppure per una sola parte di società e di nazioni – hanno sostenuto questa idea di vita pubblica e di società civile, ma perché la complessità del mondo vissuto si è spinta incredibilmente oltre le capacità di resistenza dell’umanità.
Ed è in questo oltre che è inevitabile immergere lo sguardo. Di questo oltre, essere preveggenti (dote del sentire assai più che del vedere). Di questo oltre – fuori del tempo e fuori dello spazio del soggetto moderno – farsi carico, se non si vuole restare al di qua della crisi (del mutamento che essa impone), lasciando che la vita sfugga comunque da una identità storica e sociale immutata perché ormai immutabile. La crisi va invece affrontata come crescita di una complessità oggettiva: tanto estrema da mettere in discussione gli elementi stessi di cui è fatto l’essere umano, mosso ora da una scossa interna di altra natura. Da circostanze in cui il massimo di retificazione del sociale coincide con il massimo di catastrofe dell’economico, il massimo di ordine con il massimo di pericolo, il massimo di umanità con il massimo di disumanità.
2. L’identità che ci/mi tocca
Sappiamo che l’obiettivo di queste poche pagine non può essere riassuntivo, troppo estesa è infatti la bibliografia, anche restringendola dentro le visioni di quanti si interessano di media e consumi. I quali, del resto, se hanno davvero colto il senso delle mutazioni sociali del mondo contemporaneo, cominciano a capire bene quanto, tra le loro mani di ricercatori, ci siano discipline che riguardano qualsiasi pratica sociale, pubblica e privata, e dunque quanto esse non possano certo restare confinate nei propri settori di riflessione storici, accademici, e per così dire istituzionali. Cultura, comunicazione e identità trovano nella interconnessione (l’insieme di un sistema culturale), nella condivisione (le forme di comunicazione che realizzano e sostengono questo insieme) e nella dissipazione (le forme di consumo che ne consentono la rigenerazione) la loro concretezza di fatti sociali. È da questo orientamento che è discesa la scelta di alcuni di noi, tra i quali il sottoscritto, di sostituire la vecchia denominazione “sociologia della comunicazione” con “mediologia”.
Dunque, qui – trattandosi di identità, e dunque volendo esplicitare ciò che in ogni discorso è comunque sempre implicito – non si può apportare una riduzione, un taglio sulle discipline della comunicazione e del consumo. Non lo si può fare, perchè – quanto più si è passati dall’egemonia delle culture della produzione, tipiche della società industriale, a quelle del consumo, tipiche della società postindustriale – esse si distinguono sempre più a fatica l’una dall’altra: ciascuna loro parte, parzialità, sconfina al proprio interno nell’altra.
Invece, tenendo anche conto della destinazione di queste pagine, presumibilmente affidate alla formazione universitaria, si può scegliere una strada diversa. Più responsabile. Non quella di istruire con pillole di sapere, ma di colpire, meravigliare e attrarre (che peraltro non è sfida da poco, in un regime d’aula in cui lo studente s’è in gran parte trasformato in un prestatore d’attenzione frigido o nel simulacro muto e impenetrabile della sua differenza: ma su questo si veda più avanti). Si può sostare su un punto cruciale e, in questa mia scrittura, raccoglierci intorno alla ferita che oggi più ci tocca nel ri-pensare e ri-sentire – nei tanti modi in cui questo è possibile e da più parti viene fatto, ancor più nella vita quotidiana che nei libri – i contenuti identitari che stanno deperendo in noi; che stanno morendo nel mondo. Per interrogarci se è in tutto vero che questa morte sia in corso o sia addirittura avvenuta. E come, in quali piattaforme espressive, possa essere percepita. Come questa morte nasconda una vita in grado di riprodursi, e tuttavia non possa essere più detta vita nel senso umanistico che la Storia del Mondo, decretata ai vertici della specie umana, ha attribuito ai mutamenti del vivente.
Ripeto: “la ferita che più ci tocca”. Una frase brevissima, questa, e persino un poco enfatica. Se essa non si incontra con il vostro gusto, vi chiedo venia. Ma il piccolo espediente retorico con cui mi rivelo a voi pare a me necessario. Qui, l’effetto conta, e deve arrivare a dire molto più di quanto la brevità sembri consentire. In primo luogo, la frase allude a qualcosa – di doloroso, privativo, e insieme aperto – che tocca (toccare, tocco, toccante, e persino il tocco del tempo e la sorte che tocca). Dunque, richiama innanzi tutto una dimensione emotiva, di natura tattile: dimensione di cui noi tutti abbiamo esperienza, assai più dell’alfabeto e delle idee, del sapere e delle leggi. Noi tutti (o quasi: mai dimenticarsi di quelle forme di dis-abilità che tuttavia servono a confermare la regola dell’identità come sopruso sull’esistenza sensoriale quale essa sia, ivi compreso il silenzio e buio della mente o della carne).
Noi tutti: certo. Marshall McLuhan (un autore ancora così poco presente nelle ormai sterminate bibliografie della sociologia e della filosofia) ci ha invitato a sostenere che i linguaggi del sentire – contrapposti alla natura individualista, nazionalista, militarista, totalitaria dei linguaggi del vedere – rivendicano una loro specifica, fisiologica, vocazione a relazioni trasversali, che potremmo attribuire a una dimensione genericamente comunitaria, se non fosse che essa s’è declinata in diverse forme storiche e sociali: tribali, popolari, democratiche. Persino totalitarie. La qualcosa, si badi bene, vuol dire che la democrazia, in quanto modello di organizzazione politica fondato su vaste relazioni collettive, non per questo dispone di linguaggi dotati di una natura per se stessa “buona”, “ugualitaria”,”solidale” e “salvifica” (come invece le ideologie progressiste dell’avvento ci hanno abituato a credere di un regime democratico).
Vuole semplicemente dire una vocazione o meglio ancora una capacità istintiva, profonda, remota, automatica di aprirsi alle cose del mondo. Apertura che non va confusa con le regole libertarie e liberiste della civilizzazione, ma va individuata nelle mutazioni interiori dell’ambiente di vita delle civiltà umane. Apertura che – in origine, quando, ancor prima della parola e dell’immagine, erano l’olfatto e l’udito a orientare il comportamento – s’è alimenta in regimi di sovranità della forza e della violenza animale, della potenza della natura e dei suoi appetiti, della crudeltà del caso, della incontenibile irrazionalità del sacro.
Una apertura, quindi, che non avviene in parallelo e in misura proporzionale a una distribuzione equa dei poteri, dei diritti e dei doveri di ciascun individuo, ma che anzi si è andata restringendo quanto più – con lo scrivere leggi e somministrare pene, accumulare archivi e deliberare canoni e discipline – si sono affermati i dispositivi di produzione e controllo della vita sociale in quanto unica forma di realtà umanamente esperibile. E tutto il rimanente è stato lasciato giacere – come giace in zone remote una parte di cervello un tempo attiva e ora dormiente – in quella primordiale zona semantica che proprio l’evoluzione sociale dei linguaggi dotati di capacità traduttive ha contribuito a rendere inesprimibile. Le forme di rappresentazione orali, scritte e audiovisive possono dire sul sapore e sull’udire, sul piacere e sul dolore, ma tuttavia non possono raggiungere la perfezione – identitaria o per eccellenza dis-identitaria? – del sapore, dell’udito, del dolore e del piacere, che sono pienamente in grado di comunicare attraverso se stessi (e, quando un linguaggio riesce nel suo intento di tradurre in segni e testi ciò che non sa altrimenti trasmettere, alla fine non fa altro che nuovamente consegnarsi ai sensi di chi fruisce quei segni e quei testi, aprendosi altrove da essi).
Così il sentire in comune tra individui, enti, sistemi, processi, macchine, memorie, corpi e quanto altro di significante vi sia nell’esperienza di un ambiente, è stato preso in carico dai linguaggi del libro e dello spettacolo, e – per quanto la differenza tra società aperta e società chiusa riguardi indubbiamente una differente intensità di relazioni trasversali e decentrate – l’apertura dei sensi è stata esonerata dalle sue funzioni originarie e queste funzioni si sono invece progressivamente (de)realizzate come dispositivi istituzionali. La Storia è la forma che il sapere umano ha dato a questo percorso: progressivo filtraggio dei sensi, in cui il paradigma della retrostante selezione naturale è stato abbondantemente superato dalle sovrastanti forme di conflittualità sociale della selezione culturale (ovvero della dimensione sempre più artificiale della natura in quanto ambiente in cui l’essere umano è germinato proprio come momento cruciale della sua instabilità ovvero della sua capacità trasformativa).
La modernità – di questa lunghissima vicenda, che va dall’homo sapiens all’uomo tecnologico – è stata la messa a punto, l’ottimizzazione. E di poi, la crisi della modernità in quanto crisi del soggetto moderno – dell’identità di ogni identità sociale, ecco perché essa costituisce il problema dei problemi – segna la de-costruzione del tempo storico in una fluttuante galassia di luoghi, di situazioni, di siti. Solo ora i dispositivi di stato e di legge, che hanno così a lungo fatto tacere, inibito o atrofizzato, i dispositivi del sentire, rivelano la loro usura (identità fragili e esasperate), la loro disaggregazione (identità divise e diasporiche), la loro dispersione (identità fluttuanti, ibride, incantate e disincantate, afflitte e deliranti), la loro stagnazione (identità coercitive e coartate), la loro paura (identità terribili, atterrite, terroriste, suicide). E – solo ora che le identità, che quei dispositivi producevano e producono, si fa sempre meno funzionale alla riproduzione della cultura, alla sopravvivenza di un ambiente – l’apertura del sentire si incontra con i territori dei linguaggi digitali, insorti ad opera delle discontinuità e fratture (errori di copia, direbbe un evoluzionista) dei linguaggi tirannici (olocausto e bomba atomica), generalisti e totalitari (televisione), locali e globali (mercato). Linguaggi, quindi, del nuovo: nuovo non nel senso di aggiornato ma nel senso – sostanzialmente più semplice rispetto alla complessità dell’altro suo significato storico – di radicalmente diverso, accentuatamente discontinuo, con poco passato e molto futuro (seppure in forme sempre più incognite, ipotetiche, a loro modo paradossalmente statiche).
Svolte espressive nate appunto da deviazioni – assai più occasionali che strategicamente volute, assai più locali che verticali e globali – che si manifestano e maturano dall’interno del sistema di governo del suo stesso ambiente di appartenenza e che, solo raggiunto un loro particolare stadio di avanzamento, iniziano – mediante decisori e attori sociali interessati – a negoziare il loro valore d’uso e di scambio, entrando in conflitto con le forme espressive di cui sono pur sempre la deriva. A questo proposito, le retoriche e le ideologie con cui si è voluta contrapporre l’identità sociale dei new media a quella degli old media risultano per più aspetti infondate o ambigue. Tutto ciò che oggi la rete riesce ad essere, anche di diverso, può trovare la sua genesi – per continuità e discontinuità – in una serie di snodi espressivi vissuti dentro i sistemi mediali (una riproducibilità tecnica basata su linguaggi analogici, unidirezionali e di massa) che le teorie dei comunicazionisti a loro tempo non hanno saputo cogliere (forse erano solo in parte in grado di farlo e certamente non hanno voluto farlo), ma che ora, proprio grazie al manifestarsi dei linguaggi interattivi e multimediali dell’informatica, possono trovare una loro più profonda e articolata interpretazione (è come se il futuro stia trascinando in sé il passato).
In secondo luogo, la frase “la ferita che più ci tocca” annuncia il noi di cui faccio uso nello scrivere queste pagine, quel noi – “ci” – che a mio avviso in ogni discorso è di fatto una totalità spuria, impropria, impossibile. Un fatale imperativo. E quindi la mia scelta di argomentare qualcosa sull’identità, usando senza altra indicazione la prima persona plurale è assai problematica. Dà per risolto il problema che vorrebbe invece porre, ritiene cioè possibile parlare dell’identità in modo comunque plurale, con la pretesa di valere a livello soggettivo e insieme oggettivo (il noi che assomma in sé l’io, il tu, il noi, il voi, senza curarsi della terziarità in cui siamo immersi). In un discorso pubblico (tanto più se scritto: è la funzione stessa che si attribuisce alle discipline e alla ricerca scientifica ad avere carattere pubblico), la problematicità o meglio il sopruso di questa scelta a priori di una identità realizzata, deliberante, riguarda non solo il noi universale del soggetto moderno, erede unico del tempo e dello spazio della storia, riguarda non solo il protagonista, colui che si fa sovrano del dramma, primo attore della scena (che è poi lo scrittore onnisciente delle grandi narrazioni), ma riguarda anche il noi di parte, il noi che si contrappone agli altri, l’io che insorge contro il tu o contro la terza persona, contro il terzo incomodo, di volta in volta lo straniero che appare sull’orizzonte o quello che è entrato nella tua casa e nella tua città, ti ha espropriato, domina la tua volontà (e, esiliandoti dall’io o dal noi con cui percepivi e esprimevi la tua libertà individuale, ti costringe allo statuto di nemico in patria; ossessionato dall’altro, il soggetto si svuota e la sua persona si fa nessuno oppure traduce la stessa impossibilità identitaria in quella di un tutto, più o meno celeste, più o meno infernale: il nulla e il tutto non sono forse la sintesi del nichilismo moderno?).
In conclusione, chiedo al lettore di non accettare il noi al quale la scrittura mi obbliga, e di prenderlo semplicemente come una mia resa alla complessità delle relazioni tra identità, come il travestimento di un discorso in tutto personale. Il noi che, nell’argomentare, mi scappa, mi sfugge, e mi abbandona, accettatelo come un tic – una abitudine senza intenzione – e magari, al massimo, come una preghiera di attenzione umana. Una richiesta di commozione. Parlo dunque, a mio nome, della identità che sento qui e ora come una ferita. E infine: la parola ferita – ciò che nella presente mia scrittura mi tocca – suggerisce che qui intendo trattare l’identità avendo in mente, tenendo in vista la carne che riempie e veste il nostro corpo. È di carne – la carne di cui siamo fatti da dentro e fuori della nostra pelle – il soggetto che interpretiamo nella società e che da essa è a sua volta interpretato. C’è stata la maschera del ruolo. C’è stato il teatro della mente. C’è stata l’autorità, l’aura, dei simulacri. Da sempre e ora, nell’ordine dell’umano. Ma, prima e oltre l’umano, c’è anche la carne viva dei sensi. Una vita che, così a lungo messa al lavoro in ogni recita sociale della storia, ovvero del tempo soggettivo, infine si riconosce in quella pura e semplice terziarità del mondo che si manifesta senza più né prima né seconda persona (Esposito, 2007).
È questa la direzione di cui voglio qui di seguito tenere conto, ora che al crepuscolo delle grandi narrazioni si accompagna la risacca delle grandi e piccole cerimonie, caotiche e turbolente eppure rese sempre più irrilevanti, volatili, da forme relazionali che vivono – sono vissute e vivranno – al di là dell’umano. È il grande disincanto che avanza dopo l’epoca dei grandi incantesimi collettivi di un mondo televisivo la cui genesi è molto più ampia e profonda della televisione stessa (Abruzzese, 1995; Colaiacomo, 1999; Bolla, 2004).
3. Un punto di partenza: l’acqua
Sono varie le religioni che hanno posto un diluvio universale ad origine della vita umana e animale. L’efficacia di questo mito originario sta nel raccontare un inizio per mezzo di una fine: una sorta di seconda creazione divina della vita terrena mediante un evento naturale in cui i principi del bene e del male, della punizione e della salvezza sono pienamente elaborati. L’invenzione di un mondo cui è stato dato di vivere e proliferare in quanto sopravvissuto alla catastrofe, deforma lo stesso senso della vita, mostra l’inganno che essa rappresenta, la miseria che si nasconde dietro il suo meraviglioso, lussureggiante, apparire. Tutto questo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Colophon
  3. Indice
  4. Introduzione
  5. Identità fredde. Lineamenti per una Identity Consumer theory
  6. La vetrina digitale
  7. Forme dell’identità e del consumo: homo performans e società ipertecnologica
  8. Derive di carne. Lo spirito e le forme dell’immaginario postmoderno
  9. L’immaginario transpolitico
  10. Cybercultura: “comunione dei santi” postmoderna
  11. Il cybercapitalismo è un modo di produzione?
  12. Tecnica e soggettività. Spazio digitale e relazioni societali
  13. Memoria e Internet
  14. Siamo tutti neotot? Dall’ontologia emozionale a Burn after reading
  15. Identità in costruzione Leopardi, Simmel e il medium dell’abitudine
  16. Manifestazioni identitarie prima delle cose penultime
  17. Bibliografia
  18. Notizie sugli autori
  19. Note