Anima di Borgo
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Anima di Borgo

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La vita di Alex, un adolescente scontroso e ribelle, converge rapida con quella della piccola Lisa, una bambina costretta a sperimentare la solitudine legata alle misere condizione sociali, sfociando in un incidente che causa l'allontanamento dei due ragazzi dal piccolo paese di Borgo. Gli anni trascorrono veloci mentre una strana e misteriosa forza, che ha preso il via, rafforzandosi, proprio il giorno dell'incidente, spinge i ragazzi a tornare al paese natio alla vigilia del diciottesimo compleanno di Lisa.
Quella che viene narrata è una storia incentrata sull'inevitabilità e la risonanza che vite apparentemente inutili possono avere sul tranquillo corso del mondo, un mondo in cui per la maggior parte del tempo gli uomini camminano ignari, come mosche cadute in una boccetta d'inchiostro che a fatica si tirano fuori, alzando il capo e osservando la realtà circostante attraverso una spessa patina nera. Nessuna vita è inutile e forse nessuna vita è realmente indispensabile al cammino che ci vede partecipi per un lasso di tempo così limitato.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788868820930

I

Nell’estasi di una giovane pianta un minuscolo fiore marcisce. Solo tra mille, impercettibile macchia violacea in un rosso splendore. Di lì a poco il male si espande e il viola ricopre la pianta, che stancamente vacilla in flaccide forme.
Un inutile uomo muore, nell’incuranza del dinamismo frenetico, piccolo neo, ed esala l’ultimo affannoso respiro di una vita per sempre dimenticata. Tutti così sciaguratamente inutili, tutti così tronfi di essere il perno dell’universo.
La sera era fredda, e raffiche di vento, ululando, si avventavano contro le tristi vetrate del Blu Bar. L’intensa luce bianca dei neon illuminava l’interno in un’asettica privazione di colore. Un grigio impiantito completava l’opera, e di sicuro, chiunque si trovasse per la prima volta a varcare, di sera, la soglia del bar, avrebbe avvertito un crampo allo stomaco e un inespresso desiderio di buttarsi di un fiato in una folla scalmanata, danzante in ebbre convulsioni in un’orgia di amore.
Il vecchio Corto sedeva solitario su un duro sgabello, lo sguardo segnato perso tra i cubetti di ghiaccio immersi in un whisky, forse più antico di lui, scogli dai contorni smussati piombati nel dolce e caloroso mare ambrato. Le mani grinzose a stento riconoscevano il freddo dell’acciaio del bancone e soffice e soffuso un trepestio gli ammantava le orecchie.
Una vita monotona, segnata da un unico grande avvenimento cui aveva assistito da tacito spettatore, e forse bastava questo per uscire dal baratro del vuoto, un unico intenso vagito spentosi piano nell’eco di un abisso infinito. Quanti come lui?
Con distrazione roteò intorno gli occhi cerulei, ricoperti di una patina bianca. Fu un momento, un rapido incrocio con gli afflitti e spenti occhi del giovane Italo. Fu come tuffarsi in antichi ricordi da troppo tempo sepolti in una nicchia sperduta della mente. Guardò il giovane che flaccido sedeva incurante, abbandonato ai suoi pensieri, a un tavolino rotondo isolato in un angolo semioscuro del locale.
Due vinti guerrieri, così assorti nella propria miseria, che avrebbero potuto passare ore a sorseggiare insieme un liquore scadente senza scambiarsi una parola, tanto l’interesse negli altri e negli avvenimenti della vita cala, quanto più si sprofonda, soli, senza un incerto appiglio.
In paese tutti erano a conoscenza degli sfortunati esiti dell’ultima attività avviata dal giovane Italo. Tempo addietro il ragazzo aveva ereditato dalla famiglia tre ettari di buon terreno, ben poca cosa, pensava, per metter su una redditizia coltivazione agricola tradizionale. Optò dunque per una scelta diversa, e in ciò ebbero il suo peso la passione e l’amore del ragazzo verso gli insetti e gli animali in generale. Con entusiasmo si era tuffato nell’apicoltura e nell’allevamento di tutta una serie d’insetti che, secondo la sua speranza, sarebbero stati idonei a molteplici utilizzi. Entomologi, musei naturali e mostre, agricoltori alle prese con acari e parassiti che guardavano con sospetto i ritrovati chimici, sarebbero dovuti essere i suoi principali clienti. Aveva anche avviato la manifattura di oggettistica eccentrica, da quadri che contenevano splendidi esemplari di farfalle, a ciondoli e fermacarte in resina trasparente al cui interno facevano bella mostra insetti congelati in pose dinamiche.
Poiché poi gli avanzava ancora molto spazio, guidato dall’ardore giovanile di strafare, senza pensarci su due volte si gettò a capofitto nell’allevamento di lumache. Lui le trovava ripugnanti e non ne avrebbe mai assaggiata una ma, da quello che sapeva, era un cibo molto in voga in determinati ambienti, una vera prelibatezza.
La volontà, la forza e l’entusiasmo non gli mancavano, insieme a una ferrea fiducia che gli fece sottovalutare gli ostacoli e ridimensionare l’inesperienza in quel settore. Dapprima furono le api a sciamare in massa. Provò a seguirle, recuperarle ma ciò che raccolse fu soltanto un’infinità di punture, che lo portarono sul punto di odiare quegli insetti che tanto aveva amato. Si salvarono solo pochi nuclei di api. Poi seguì un ottobre straordinariamente piovoso e gran parte del terreno, per alcuni giorni, diventò un acquitrino; le piogge ingrossarono il piccolo fiume che lento si snodava al centro della sua terra, e un mare di acqua e fango si riversò sulla fertile terra. A sue spese capì, dolorosamente, che non tutti i terreni sono idonei per l’allevamento di lumache, e le sue, com’era prevedibile, perirono affogate.
Neanche la riproduzione degli insetti e la manifattura di oggettistica andarono meglio. In paese i vecchi agricoltori vedevano con diffidenza quella nuova attività, e non si fidavano di questa forma di lotta ai parassiti delle piante e, nonostante le rassicurazioni del ragazzo, non ebbero il coraggio di rischiare il loro raccolto; ciondoli, collane e fermacarte rimasero per lo più invenduti, tant’è che egli dovette cessare l’allevamento di alcuni tipi di insetti, e non perché gli oggetti non fossero belli, quanto piuttosto perché Italo non aveva l’anima del commerciante, era, infatti, molto timido e accondiscendente, e fu totalmente incapace di organizzare una buona pubblicità per i suoi prodotti.
Fiasco completo su tutta la linea, l’ennesimo fallimento della sua vita, e ora il ragazzo sedeva là, in un angolino del bar, afflitto e sfiduciato, ritenendo di essere un incapace e avvertendo come un macigno il peso della sua inutilità. Molte volte mancò poco che piangesse al pensiero del suo vecchio padre, che sebbene cercasse, guardandolo teneramente, di consolarlo e di tirargli su il morale, doveva, ne era certo, considerarlo un incapace. Insopportabile era la convinzione di averlo deluso.
Probabilmente il padre non pensava tutto ciò del figlio ma Italo, comportamento comune tra gli uomini, aveva trasferito in lui ciò che pensava di se stesso, e i pensieri del padre altro non erano che l’amara immagine che ogni mattina vedeva riflessa nello specchio.
Corto non seppe mai spiegarsi perché fece quel che fece, forse compassione o forse perché, nonostante tutto, la debole fiammella che brama un po’ di umano calore è dura a spegnersi.
Ordinato un altro whisky, con entrambe le mani impegnate a reggere gli anonimi bicchieri, si diresse verso il ragazzo.
“Questo è un vero toccasana in una fredda giornata come questa” disse sedendo di fronte ad Italo e avvicinandogli il bicchiere, facendolo lentamente scivolare sulla ruvida superficie del tavolo.
Come immaginava il ragazzo non rispose, evidentemente infastidito, limitandosi a inarcare leggermente un angolo della bocca in un formale sorriso e abbozzando un lieve cenno d’intesa con il capo. Eppure in quegli occhi il vecchio intravide una soffusa scintilla, il debole ricordo di un’anima che aspetta implorante un’occasione per ridestarsi.
Quello che Corto non sapeva era che, proprio in quel momento, il ragazzo stava passando in rassegna mentalmente tutte quelle persone che un tempo erano state sue amiche. Da un pezzo, nonostante fossero sue coetanee, esse si erano sistemate, trovando tutte un solido impiego e molte si erano già anche sposate, alcune con figli, altre in attesa. Solo per lui il tempo sembrava essersi fermato, bloccando il naturale progredire della vita e facendo nascere la sgradevole sensazione di essere in ritardo, di aver perso l’unico treno che assicura un minimo di senso in questa vita.
“Proprio non riesco a capire” riprese il vecchio nel tentativo di trovare uno spiraglio “come sia possibile sia alcuni giovani si arrendano con una simile facilità. Di tragico c’è il guardare avanti e, in là con l’età, avvertire vicino la fine, sentire il suo pestifero fiato che gela ogni volontà di azione. Ma i giovani…” strinse le labbra scuotendo tristemente la testa e uno sconsolato sorso di liquore, accompagnato dal sottile tintinnio dei cubetti di ghiaccio, lasciò una sospensione che Italo, avvertendo i toni paternalistici delle parole del vecchio, si risolse a riempire.
“ E’ un po’ come un possente veliero che, nuovo, forte, in grado di affrontare le sconfinate distese dell’oceano, naviga senza troppi problemi tra onde alte e irrequiete, di cipiglio dà dentro, forte di vele saldamente intessute, a un vento sferzante; sorride con sfida alle nuvole dense, e lentamente, non risentendone, si avvia al naturale declino figlio dell’usura. A volte però capita che una nave possente si trovi ad affrontare un insieme di situazioni insostenibili, una tempesta terribile che squarcia le vele e nello spumoso rimbombo logora anzitempo la struttura, lasciandosi alle spalle un relitto senza vele, perso tra i flutti tranquilli in una desolante inutile attesa. Così va la vita, e un tempo qualcuno disse che in mancanza di risposte l’unica che abbia un senso è lo smemorarsi e perdersi nel sonno della vita.”.
Il ragazzo volse altrove lo sguardo melanconico, sperando in tal modo di far intuire al vecchio che non aveva alcuna intenzione di annodare una discussione scontata.
Fuori il vento ululava spavaldo facendo tremare la grande vetrata panoramica del bar. Un debole e vago brusio li isolava ancor di più in quel piccolo angolo del locale, il triste mormorio così facile da trovare in quei posti dove la sera si riunisce l’universo sconsolato delle persone che vivono ai margini della società, pedine sacrificabili in una vana e lunghissima attesa.
“Così gli uomini si arrendono e diventano inutili, e all’inutile non è dato ridere” disse Corto protendendo il busto in avanti in direzione di Italo.
“Ridere di sé e del proprio passaggio in questo mondo, di certo sì.”
“Già, struggersi di non rispettare le rigide scadenze imposte dall’uomo… non è questo che genera il senso dell’inutilità?” sussurrò il vecchio con voce profonda, non nascondendo il tono sarcastico.
“Pensaci, nessuno si riterrebbe inutile se la società non avesse radicato profondamente, in tutti gli uomini, delle convinzioni e certezze che essenzialmente sono solo sciocchezze. Queste certezze, che subdolamente siamo portati a difendere con ogni nostro nervo, ci spingono a considerare incapaci e inetti determinate persone, e di conseguenza inutili e prive di senso saranno anche le loro azioni. Dimentichiamo in tal modo che le azioni hanno un loro peso specifico, e ti potrà sembrare strano, ma talvolta una piccola, singola azione, compiuta da un essere insignificante, lentamente cresce acquistando vigore, ripercuotendosi infine con conseguenze catastrofiche, e quello che prima era insignificante non è più considerato tale.”.
Gli occhi di Italo, incorniciati da un paffuto viso dal bel colorito rosso, si strinsero nel tentativo di carpire i pensieri del vecchio. Incrociando le braccia e stringendosi nelle spalle, iniziò, con piccoli fremiti di una crescente impazienza, a domandarsi che cosa il vecchio volesse da lui. Ultimamente non era un tipo paziente.
“Non vorrei offendervi” esclamò alla fine passandosi una mano sulla fronte “Ma perché non andiamo al sodo e mi dite espressamente cosa volete?” Circondato il bicchiere con entrambe le mani, il giovane prese a tamburellare con dita frenetiche il vetro. Si pentì subito delle parole e del tono scontroso che aveva rivolto a Corto, intuendo che era un’azione vergognosa scaricare su un povero vecchio il peso della sua frustrazione. Il suo viso si addolcì soffermandosi sulle rughe di una vita inespressa.
“Impaziente, eppure non mi sembrava che avessi una gran premura” sibilò il vecchio inghiottendo un altro sorso di whisky. “Comunque, è presto detto; Il luogo, la situazione, tu stesso, con lo sguardo perso nel vuoto, mi avete riportato alla mente un vecchio ricordo, una storia che forse non aspettava altro di essere narrata, e vorrei che fossi tu ad ascoltarla… sembri proprio la persona giusta del resto.”
“Di storie ne conosco molte vecchio, e non so se…”.
“Oh ma questa è davvero speciale, una storia senza tempo, persa nei rivoli dell’animo umano. Poi se questo vecchio ti offre un altro giro, potresti quantomeno prestargli un po’ d’attenzione.”.
Così dicendo Corto si alzò, dirigendosi con passo barcollante al bancone, non lasciando a Italo, che stupefatto lo guardava, possibilità di replica.
Nonostante si sentisse attaccato, la sensazione di noia e rabbia andava diminuendo, e quello scambio di parole risuonò nel ragazzo come un gelido vento mattutino, piccoli e pungenti aghi di brina ridestarono la mente da lungo assopita. Con un ultimo sorso vuotò il bicchiere e nell’improvviso calore derivante, si perse nel sorriso cresposo del vecchio che, con non poca fatica, tornò a sedersi al suo fianco.
I bicchieri non sembravano più tanto anonimi.
“Gli inizi esigono sempre un preambolo arzigogolato, ma noi siamo gente pratica, interessata al succo della vicenda, e quindi andremo subito al punto” esordì Corto tentennando sulla sedia nel tentativo di trovare una comoda posizione.
“Dunque, la nostra storia ha inizio in un lontano passato, nel piccolo paese di Borgo. In una calda sera di maggio, un uomo sedeva, solo, a un tavolino di una decrepita taverna. Davanti a lui una bottiglia di buon Barbour con cui si accingeva, come ormai di consuetudine faceva da anni, a festeggiare il suo compleanno. Quell’anno erano quarantasette, e una bottiglia e un unico bicchiere erano tutto ciò di cui aveva bisogno. Quel pomeriggio aveva comprato due metri di corda robusta.
Era perso nei suoi pensieri, in un’espressione malinconica ma al contempo piena di rassegnata pace. La vita gli scorreva tranquilla intorno, i ragazzi scherzando, ridevano di cuore, gli uomini, dopo una dura giornata di lavoro, discutevano animatamente sorseggiando un boccale di birra, e i vecchi, riunitisi insieme, sottovoce osservavano la gioventù smodata. E lui non c’era. Nessuno lo vedeva, ma questo quella sera non lo turbava più. Inutile chiedersi come fosse arrivato a quel punto, troppi erano i gradini che aveva disceso, uno dopo l’altro, prima che la scalinata nel soffio del vento, crollasse alle sue spalle. E quella sera, guidato dall’alcol, fece l’unica cosa possibile, l’unica che avesse un senso, sprofondando nel dolce delirio alcolico della dimenticanza.
E poi l’uomo sognò.
Era in una casa, vagamente somigliante alla sua, ritto in piedi davanti ad un’ampia vetrata variopinta. Fuori era buio, i lampioni spenti offrivano la vista di un cielo pieno all’inverosimile di stelle. “Non pensavo esistessero così tante stelle” si disse ammirando le luci lontane. Poi il paesaggio mutò. Le luci dell’universo si spensero, e un immenso boato gli riempì le orecchie penetrando fin nelle infime pieghe del suo essere. Iniziarono i fulmini, potenti e ripetitivi. Erano vicini, sempre più vicini. Aumentarono d’intensità, il rumore crebbe. Si ripetevano ormai senza tregua, uno spettacolo stupendo nel proprio terrore. Lunghe strisce elettriche nascevano e si univano coprendo l’intera visuale. Lo stupore e la paura presero il sopravvento, e l’uomo abbassandosi si nascose dietro una parete. Sporse leggermente la testa dalla parete, perdendosi nell’ipnotico spettacolo. All’unisono i fulmini si unirono tutti in un sol punto, la terra brillò e vacillò in un’immensa esplosione. L’onda d’urto lo travolse, mandando in frantumi la vetrata e facendo tremare l’intero edificio. Il tempo rallentò e venne il silenzio, l’uomo acquattato vide i minuscoli e colorati frammenti di vetro passargli accanto lentamente. Rimase a bocca aperta osservando le mille lucciole colorate. Provò ad allungare la mano, nelle luci vedeva la speranza, sarebbe bastata afferrarne una, un piccolo frammento d’infinito. Tornarono il tempo e il rumore, le luci si spensero e la terra cessò di sussultare.
Smarrito scese in strada, percorrendo in silenzio le vie deserte. Rari lampioni emanavano un’intermittente luce diffusa, e lui camminava da solo. Lontano echeggiavano risa chiassose di bambini che giocavano, un rumore sinistro nel silenzio che sovrastava tutto, aguzzò la vista e nella penombra della luce di un lampione, scorse un gruppetto di sei ragazzi che si rincorrevano felici. Ai lati della strada un rivolo d’acqua turbinava e gorgogliava dirigendosi verso un vicino tombino. “Deve essere piovuto da poco” pensò l’uomo avvicinandosi. Barchette di carta veleggiavano spavalde sull’acqua, sotto gli occhi entusiasti dei bambini. Videro l’uomo, si spaventarono forse, e ridendo si allontanarono di corsa. Protese la mano destra, voleva gridare “No, aspettate”, ma l’urlo si bloccò in gola. Le barchette terminarono la loro navigazione accasciandosi, zuppe d’acqua, sul freddo tombino arrugginito. L’uomo si chinò sul tombino e ne afferrò una. La girava e rigirava tra le mani, guardandola con un sorriso nostalgico. La luce del lampione si affievolì. Poi la barchetta s’infiammò e dalle mani dell’uomo caddero, lenti e leggeri, frammenti di cenere. Gli venne da piangere.
Dal tombino sgattaiolò in silenzio l’estremità di una pianta rampicante. Rapida si avvolse attorno alla gamba sinistra dell’uomo e, prima che lui se ne accorgesse, la punta affilata penetrò nella sua fronte, al centro degli occhi. Sentiva un dolore assurdo, le ossa del cranio che stridevano sotto la pressione del rampicante. Le mani dell’uomo si strinsero sulla pianta cercando di cacciarla via ma era troppo scivolosa e si divincolava incessantemente. Sentì un crack, la punta tagliente era riuscita a far breccia nella calotta cranica. Un dolore pungente lo portò alla realtà facendolo svegliare madido di sudore.
Si guardò intorno, era ancora immerso nell’oscurità. Dagli scuri di legno filtrava sottile la luce lunare illuminando il leggero pulviscolo. Pensò alle fate e a qualcosa di magico che ruotava invisibile attorno a lui. Accasciò la testa sul cuscino e tornò a dormire.
La mattina successiva uscì da casa alle nove, recandosi con indosso il suo abito migliore dal barbiere. Dalla bottega ne uscì ben rasato e profumato, con gli stepposi capelli ordinatamente pettinati. Con sguardo spento, camminando lentamente e con solennità, si diresse verso il vicino bar, dove ogni mattina ordinava un caffè sorridendo alla deliziosa ragazza che con grazia e agilità si muoveva dietro al bancone. Quella mattina il sorriso fu più dolce e colmo di un’indefinita tristezza, cosa che suscitò non poco turbamento nella ragazza che nel vederlo così elegante e curato, fu attraversata da un gelido brivido. Ma poi l’uomo, dopo averle rivolto un ultimo sorriso, si girò e se ne andò, e come sempre accadeva negli altri, il ricordo del suo incontro svanì perdendosi nella nebbia dell’oblio. La ragazza tornò a muoversi agile e felice nella sua divisa nera attillata, dimenticando la strana borsa che l’uomo stringeva con la mano destra.
“Se solo avesse sorriso un po’ di più” pensò l’uomo attraversando la strada che costeggiava l’estremità sud di Borgo e imboccando una stradina che, diramandosi quasi invisibile alla sua destra, si perdeva nella campagna. La mattina era limpida e il sole spadroneggiava nel cielo in assenza di nuvole.
Per una ventina di minuti egli percorse la stradina che via via diventava sempre più simile a un sentiero. Alla fine essa curvò a sinistra, esaurendosi nell’esuberante vegetazione che cresceva ovunque. Arrancando a fatica tra gli arbusti e le sterpaglie, l’uomo si creò un varco giungendo in un’ampia radura, così bella da togliere il fiato.
Un grande spazio circolare dove gli arbusti in fiore si ricoprivano di mille colori; ...

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  1. I
  2. II
  3. III
  4. IV
  5. V
  6. VI