Tutte le cose al loro posto
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Informazioni sul libro

Sara ha poco più di vent?anni quando scopre di avere un tumore. La malattia, pur sconvolgendo la sua esistenza, costituisce l?occasione per mettersi in gioco, continuare a fare programmi, a lottare e ad amare, a voler vivere fino in fondo la propria vita a tal punto che persino il rapporto con il suo medico, Roberto, fuoriesce dalle mura dell?ospedale e si catapulta nella vita reale, dove amore e paura si intrecciano in un vortice di emozioni intense. A scandire il tempo ci sono i ricoveri in ospedale, gli esami infiniti, le lacrime, i sorrisi, la consapevolezza di una malattia che non vuole andarsene e la rinascita fisica ed emotiva di una ragazza che è costretta troppo presto a diventare donna.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788868822521

Tutte le cose al loro posto

«Sara, devi rifare il prelievo. Stendi il braccio».
Sto ancora dormendo quando la voce dell'infermiera mi risuona in testa come un'eco. Non è un sogno e prima che realizzi, sento un ago che mi buca la vena e vedo diventare la cannula rossa. Il braccio l'ho steso inconsciamente, forse in automatico.
«Abbiamo fatto. Premi forte, ti metto il cerotto».
Ok, ora ricordo dove sono e chi sono. Sbadiglio e mi stiracchio, allungandomi verso l'alto con discreta energia, mentre l'infermiera esce. Dalla finestra entra uno spiraglio di luce tenue. Si fa largo nell'ombra della stanza, attraversa il buio di queste quattro mura che mi separano dal mondo esterno.
Mi rimbocco le coperte, guardo l'orologio. Sono quasi le sei del mattino, fortunatamente posso ancora dormire. Richiudo gli occhi e il rumore del telefono sopra il comodino mi riporta alla realtà. Un messaggio. Papà.
Ciao Principessa mia, stai tranquilla. Gesù veglierà su di te in questo percorso.
Tu mi hai sempre detto che ci vuole pazienza papà, ma forse a volte la vita ci mette a dura prova. Così capisco che se sei sveglio a quest'ora è perché la preoccupazione caccia via il sonno e non permette agli occhi di chiudersi e al cervello di scollegarsi. No, il cervello, quello è sempre in movimento, fin troppo presente, fin troppo consapevole. Se parli di Gesù, papà, e non lo fai mai, allora in fondo un po' ci credi. Ci credi che esiste un Dio che ci guarda dall'alto e ci assiste. O forse credi che a Dio ci si possa appigliare in momenti come questi. Se lo nomini una cosa è certa: hai guardato dentro di te e hai bisogno di qualcosa di grande a cui aggrapparti. Qualcosa di forte, che, nonostante il mistero, esiste da sempre e per sempre. Quello che la scienza non può darti. Lo apprezzo, papà. Lo apprezzo. Lo apprezzo perché mi mostri la tua paura mentre cerchi di vincere la mia. Il tuo chiamarmi principessa è già un regalo immenso per cacciarla. E quando mi dici che Gesù veglierà su di me sono contenta. Voglio pensare che sia così. Prima o poi però tutto passerà. Te lo garantisco, te lo prometto. Farò in modo di ridarti il sorriso dopo la tristezza. La bufera è arrivata, ma quando sarà terminata i nostri passi saranno più leggeri, l'equilibrio più stabile e, un passo dopo l'altro, andremo avanti più consapevoli, più forti. Non cadremo più. Te lo prometto papà.
La mia compagna di stanza dorme profondamente. Russa forte, fa un rumore tremendo, sembra quasi un trattore. È una specie di miracolo che io possa dormire di notte con lei al mio fianco. È stata operata pochi giorni fa e a breve la dimetteranno. Dorme sonni tranquilli ora, è per questo che le consento di trasformarsi in una piccola ruspa, di notte, senza dirle niente. Se lo merita in fondo. La sua paura era quella di non poter più vedere i nipotini. Quando l'ho conosciuta, pochi giorni fa, mi ha detto «Sai, io sono nonna di due bimbi stupendi. Sono la gioia della mia vita e quando ho saputo di avere quello che ho, il mio primo pensiero sono stati loro. Poi lo sconforto, poi il terrore. Poi ho iniziato a pregare». Fabiola, questo è il suo nome, non chiama mai per nome la sua malattia. Come se così non esistesse. Come se non interpellandola, non le desse il diritto di sbucar fuori all'improvviso e di farsi ingombrante nella testa. Una forma di autodifesa. Una scelta per sopravvivere. «I miei nipoti per me sono figli due volte. Li amo troppo per lasciarli soli». Le ho sorriso con malinconia, perché i problemi purtroppo esistono, anche se non li nomini.
C'è un momento nella vita di ogni persona in cui viene da chiedersi “perché?” Tutti, prima o poi, interroghiamo l'esistenza a gran voce, cercando di capire il motivo per cui siamo stati scelti per un determinato avvenimento. Uno dei miei film preferiti, dice così “A nessuno arriva qualcosa che non sia in grado di sopportare”. Certo, deve pur essere vero. Ma io credo che ci sia qualcosa di più sottile, qualcosa di più intimamente legato al fato. Credo che ogni vita sia già scritta in un libro che noi possiamo sfogliare solo quando gli avvenimenti narrati prendono forma, e che siamo solo pedine che ogni giorno si muovono su questo pianeta guardando il cielo in cerca di risposte. Ma forse, a volte, la risposta a tutti quei perché è più semplice di quanto pensiamo.
Semplicemente “doveva andare così”. Forse ad alcuni può sembrare una soluzione semplicistica, superficiale, ma a che serve dare un senso all'insondabile? Qui dentro, nelle mura di questo ospedale, tutti più o meno si sono fatti questa domanda. Tanti sicuramente hanno smesso di interrogarsi. Hanno già attraversato la fase di pugni al muro, urla e pianti disperati. Hanno già attraversato un bel po' di notti insonni, di ricerche su internet, di pacche sulla spalla da parte degli amici più cari. E ora stanno combattendo a denti stretti, perché non importa il motivo per cui si è in guerra. Importa solo che si è in guerra, bisogna rimboccarsi le maniche e fare il tuffo nel vuoto più coraggioso di tutta la vita. Senza sapere se si affogherà o se e quando si tornerà a galla. È un rischio che va corso però. Perché il tempo speso a piangere quando scopri di essere il soldato prescelto, non te lo ridà nessuno. Ogni secondo è fondamentale, ogni attimo è prezioso per poter giocare d'anticipo e provare a vincere. Non esistono altre tattiche se non quella di correre velocemente e di avere il coraggio di fare tanti chilometri, senza prendere mai fiato. Senza arrendersi mai.
È successo qualche giorno fa. In un pomeriggio di Febbraio dei miei ventun anni. Tornavo da una lezione all'università. A far capolino sulla porta mia madre.
«C'è qualcosa che devo dirti».
La mia mamma è una donna forte. Forse la più forte che conosca, a tal punto che spesso mi dà l'impressione di essere incrollabile. Affronta i problemi di petto, la mente sempre lucida e razionale, e riesce a trovare una soluzione a tutto, ad analizzare l'ostacolo e a superarlo. Le mie amiche dicono che le somiglio, che ho un cervello da adulta e che sono la più forte tra tutte loro. Non so se è vero, anche se vorrei con tutta me stessa che fosse così.
Quella volta però la sua voce era rotta dall'emozione, i suoi occhi parlavano per lei. Mi ha stretto la mano, chiudendo il suo pugno nel mio. E stringeva forte forte, senza lasciare le mie dita, intrecciandole nelle sue. Poi mi ha abbracciato e cercando di conservare la massima serenità ha detto «Andrà tutto bene tesoro». Sapeva che avevo già capito di cosa si trattasse. È sempre stato così tra me e lei, abbiamo la capacità di leggerci dentro.
Qualche giorno prima una sonda sul mio collo, nella luce soffusa di un ambulatorio d'ospedale. È bastato un ago a prelevarmi delle cellule. A penetrare i miei tessuti, a spingersi in fondo, tanto in fondo e a riemergere con un piccolo pezzo di me. Tutto eseguito in silenzio, senza fare un fiato. Nel silenzio di chi sapeva già leggere il monitor di quell'ecografo.
«Tirati un po' più su Sara, ora gira la testa verso destra».
E ancora una sonda che si muove, da un lato e poi da un altro. Non sapevo interpretare quelle immagini proiettate sullo schermo, non sapevo cosa ci fosse scritto in quella che era la fotografia del mio collo. Ma se c'era una cosa che sapevo fare bene, molto bene, era leggere gli sguardi. E quella dottoressa aveva due occhi che urlavano.
Ho pianto forte con tutte le energie in corpo e di colpo, senza nemmeno rendermene conto, ho trovato il coraggio di chiedere a mia madre «Che cosa ho?».
Ho messo me stessa e lei nella condizione di dover ascoltare, di dover dire, qualcosa di impronunciabile. Come può una madre comunicare alla propria figlia di essere malata? Quali sono le parole più giuste, il tono di voce più calmo? Così mi ha messo di fronte all'evidenza, mi ha mostrato un foglio.
Nero su bianco, un professore sentenziava sul mio stato di salute. Nero su bianco, l'inchiostro che distruggeva la mia spensieratezza. Nero su bianco, la malattia toglieva posto ai sorrisi. “Carcinoma alla tiroide” c'era scritto. Chiaro e limpido. Poche parole che non lasciavano altro spazio all'immaginazione.
Dovevo operarmi. Io che fino a poco tempo fa non sapevo nemmeno che cosa fosse la tiroide. Non sapevo che fosse un organo, così delicato, a forma di farfalla, che gli antichi romani chiamavano scudo. Non sapevo che per ironia della sorte avrei combattuto una guerra e qualcuno mi avrebbe privato del mio scudo. Non sapevo nulla e tutto ciò mi sembrava un'ingiustizia. Un'ingiustizia chiamata cancro. Così, senza mezzi termini. Senza tante altre parole, perché una, la più forte di tutte mette a tacere le altre.
Ho conosciuto il dolore toccando quelle lettere dell'alfabeto combinate tra loro in modo orribile. Ho guardato in faccia la paura e ho visto di che pasta è fatta. Si è materializzata davanti a me, forte, più forte di qualunque altra cosa, scura, grezza, indefinita.
Entravo in quel momento in un capitolo della mia vita, che mai avrei pensato di dover aprire. Ci entravo con la preoccupazione di chi non conosce cosa accadrà, ci entravo in punta di piedi per non concentrare troppe attenzioni su di me. Ci entravo con le lacrime e accantonavo la felicità, come a dire “con te ci rincontreremo poi”. Ci entravo col silenzio di quelle notti successive passate sotto le coperte a piangere. Tiravo su il piumone, caldo e morbido, come se avesse potuto difendermi dal male che mi aveva colpito. Come quando da piccola mi svegliavo da un brutto sogno e facevo capolino dalle coperte solo con gli occhi per controllare che la strega cattiva non fosse nella mia cameretta.
Da quel momento, quarantotto ore esatte in cui la mia visione del mondo, della vita, delle priorità, degli obiettivi, si sono completamente stravolti e rovesciati. Diagnosi, protocollo, tipo di tumore, stadio del tumore sono state le parole, nuove e mai sfiorate prima, con cui sono entrata in contatto.
Quando ho riaperto il mio pugno quel giorno, ho trovato sul palmo della mano un cioccolatino a forma di cuore. Rosso, piccolo, custodito gelosamente da mia madre fino al mio ritorno. Quello era il suo modo, delicato, discreto, puro, innocente, di riconfermare la sua presenza nella mia vita. Quello era il regalo più prezioso che avessi mai ricevuto. Scartando quel cioccolatino avrei trovato tutto il suo amore.
In reparto sono la paziente più giovane. Eppure, in fondo, a prescindere dall'età siamo tutti uguali. Tutti soldati pronti per andare a vincere una battaglia. Tutti vestiti con la divisa da guerra: il pigiama. Al posto degli anfibi abbiamo le pantofole. L'arma più potente la portiamo dentro di noi. E sorridiamo, o quantomeno proviamo a farlo, a chi si prende cura della nostra salute. Spesso l'ospedale diventa un luogo di speranze comuni, di riflessioni ad alta voce. Spesso un luogo di profondo dolore si tramuta in un posto dove imparare, dove conoscere qualcosa di mai visto e mai sentito prima.
La mia compagna di a...

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