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Nei romanzi gotici lo chiamerebbero "il Genio della Perversione", la volontà testarda d'autoinfliggersi un dolore causa un desiderio sfrenato di compiere crimini per il solo gusto dell'illegalità;
Quando la realtà, unica e inossidabile, inconcludente, immersa in una noia profonda, grazie ad un artificio malnato, si ravviva alla luce della scoperta di una sua alternativa onirica, Arnaut, un inglorioso critico teatrale, languidamente indolente, si convince a capofitto in un baratro di elegante sfrenatezza, dividendosi fra un mondo concreto sapido di invida per l'amico Cadamosto e la sua amante Neiva, e di autocelebrativo sdegno verso tutto ciò che si dimostra pragmatico, realista o necessario; e un mondo intessuto dal groviglio mutaforma dei suoi sogni, vissuti in totale coscienza grazie agli insegnamenti di un vecchio scienziato del sonno appresi da un vecchio libro: Berenice è la favola bella che si dispiega in questa seconda dimensione, ed incarna l'ideale estetico della bellezza fatale.
In un universo"doppio" sospeso in tempi e luoghi indefinibili, si recita questo esagerato melodramma, inteso come un teatralità totale e spassionata, sbruffone e pigro, vizioso e infantile, sulla cui ribalta divisa a metà si affanna Arnaut, districandosi dall'una all'altra parte, superbamente convinto di poter giostrare a suo piacimento gli eventi, scandagliando le pieghe più oscure di entrambi i mondi e lasciandosi portare dal fascino della finzione, consapevole della rovina a cui verrà trascinato, accettata in nome della bellezza del dramma.
Tutto precipiterà in un parossismo di vizi e ripicche, doppelganger, sdoppiamenti e ricongiungimenti, ombre, figure, marionette e sospetti grotteschi, fino a quando i due mondi non si troveranno irrimediabilmente a collidere.
La protagonista è tuttavia Blanche, che come ogni ottima attrice apparirà per poco, se ne andrà senza farsi notare, ma lascerà un vuoto profondo sul palcoscenico e nei cuori della platea; fate tesoro d'ogni sua parola e d'ogni suo gesto, poichè sta tutto lì, il resto è costume.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868822866

Amarene

Fosche visioni in una bettola
Quando apersi gli occhi mi trovai in un vecchio locale di legno, una tradizionale locanda dei bei tempi andati, quando ancora l'ebbrezza si colorava di seppia e gli uomini sapevano cantare all'ombra dei quadrifogli. Non ricordavo con precisione i fatti del giorno, ma intuii che una leggera pioggia aveva sporcato il sole, e un timido arcobaleno di primavera si era affacciato fra i palazzi della città. L'avrebbero chiamato “tempo delle streghe” se avessi avuto quindici anni di meno; e già mi figuravo le fattucchiere terrificanti volarsene a cavallo di scope fra l’arcobaleno iridescente, alzando la sottana ai preti e mutando il colore ai rospi! Divertenti fantasticherie da marmocchi... a ogni modo, mi ritrovai in questa bettola accogliente e teporosa, seduto a un massiccio tavolo appiccicoso, col mento nella mia mano destra e una sigaretta spenta nella mia mano sinistra. Mi accorsi che una nebbia perpetua partiva il locale in orizzontale e nembi grigio-cobalto si spostavano per la sala mossi da leggiadria meditabonda. Accesi la sigaretta. Al mio tavolo, discussioni senza bellezza artistica faticosamente si facevano largo nell'osceno; trovavo che fosse un dolce piacere sonnacchioso, ripararmi nell'aristocratica posa del fumatore. Quattro individui brutali mi accompagnavano. Di questi ricordo solamente un uomo alto, frenetico e preoccupato, coi suoi occhi piccoli e neri. Fra il grigiore degli astanti, un fugace barbaglio azzurro rapì la mia incoscienza e minò la nobile postura che avevo ideato. In un angolo lontano alcune donne parlavano elegantemente senza che io potessi udirle. La leggera avvenenza di una di quelle mi avvolse nella seta dei suoi occhi azzurrissimi e nel delicato svolgersi dei suoi capelli biondi. Accortasi del mio interesse, lei ricambiò il mio sguardo e con intraprendenza mi regalò un leggero sorriso. Ricambiai silenziosamente portando con allegria la sigaretta alle labbra. Lei pareva divertita e non trattenne un secondo sorriso. Come scosso da un brivido fui costretto a modificare il mio posare e trovai un altero e poetico significato nel mio nuovo modo di sedere. Dovetti apparire buffo, poiché lei non riuscì di nuovo a trattenere il sorriso. L'orrendo figuro al mio fianco si accorse dello scambio di cortesie e compreso il gancio mi alzò con spirito d'arrembaggio. Lo frenai con poca convinzione, ma siccome in lui riconobbi gancio e contraltare, le mie proteste furono tiepide, e mi lasciai condurre falsamente di controvoglia!
Mi sorpresi dunque a quel languido tavolo e fu l'energumeno, mia guida, colui che esordì per primo. Un ovattato riverbero echeggiò le sue parole oscene e il semantico si perse fra la mia finta distrazione. Alcune leggere risate lo accolsero e quello, spalancando i suoi minuscoli occhi, s'impettì tronfio e arrischiò un affondo. Dal ciuffo dosato dei miei capelli sbirciai quello sguardo azzurro. Silenzioso sedetti al loro tavolo e lasciai che il duca mio discendesse fra i cerchi insidiosi di quei loro giudizi silenti. Non mi curai di un solo dettaglio che non fosse lei, purpurea rosa di un giardino disadorno. Quale unta perorazione tesseva quell'imbonitore da bancarella, e con quale fierezza avanzava il suo virile fandango; si lanciò nei meandri di un ispido bosco fitto di trame oscure e macchinose, col suo solo pulsare come arma (innocua e inconcludente, fiacca quanto inerme). Il suo vagheggiare svanì lentamente in dissolvenza, smisi di ascoltare. Porsi elegante la mia mano migliore agli occhi azzurri e mi presentai col mio nome: Arnaut. Lei sorrise e trasse da una giacca blu stretta alle spalle, una penna blu, e d'inchiostro coperse il dorso della mia mano. La guardai stranito ma lei mi invitò a osservare con più attenzione; abbassando lo sguardo allora rallegrai il mio animo turbato; alcuni numeri, ridondanti e musicali all'ascolto, delineavano il profilo di un numero telefonico. Forse che fosse collegato al suo apparecchio? Amici lettori, questo non voglio per ora svelarlo. Voltando distratto il capo, sorpresi il duca mio di nuovo attaccato alle amiche di lei. Mi strizzò l'occhio (fu faticoso il notarlo, piccoli com'erano) e alzandosi mi assegnò a vedetta di quella ludibria schiera di bellezze; la sua assenza avrebbe portato interessanti polibibite! Partito che fu, subito i loro occhi furono su di me che ero rimasto. Mi informarono purtroppo che il mio compagno non le aveva per nulla convinte e avevano pianificato una rapida e segreta evasione prima di un suo ritorno. Veloce chiesi a Lei dagli occhi cerulei quale nome avrei dovuto ricordare e lei rispose spigliata: Berenice. La sua Bellezza mi folgorò rovesciando l’intero mondo in un bianco e nero, così elegante... Si trattava di una Bellezza propria e iperuranica, estatica, senza tempo. Berenice... Ancora alla coppa del suo nome bevevo avido, che le compagne già prendevano per l’uscita e lei, dispiaciuta del fattaccio, lasciò cadere in segreto un invito. Lo raccolsi dal pavimento e l'apersi. Le sue indicazioni portavano a un locale che già avevo vagamente sentito nominare, l' "Oeuvre", un delizioso cafè affacciato su una via ciottolosa, in riva a un lento e placido naviglio. Mi sarei ovviamente dovuto presentare senza il duca mio. Non potei acconsentire, già se ne erano già andate con la Borea e io in fretta mi trovai costretto a prendere una decisione. Danzai su me stesso, ritirai sciarpa e mantello attento che i miei compari, prostrati ai seni di una cameriera generosa, non si avvedessero del mio passaggio, e svanii nel fumo passando dalla pesante porta massiccia. Non fui capace di trattenere un riso smargiasso, mi immaginai il mio coraggioso amico recare beveraggio a un pancone deserto, e col suo espressionare sgomento e traboccante d'ira, retto sui suoi lombi da ginnasta, maledire questo flaccido corpo d'Arnaut...
Il mattino ha l’oro in bocca
Per i boulevard di una cittadina non necessariamente francese mi ritrovai dunque a vagare spensierato, velatamente tronfio di un'estetica impeccabile, slacciando una cravatta bordeaux abbozzavo un sorriso sghembo trattenendo imperiosamente una sigaretta. O quale brezza scompigliò d'un tratto i miei capelli corvini! Desiderai essere biondo, e lo fui, ma constatando il tradimento delle mie aspettative, riarrangiai la mia acconciatura ed essa tornò al colore originale. File di vetrine furono i miei specchi entro i quali frettolosi comparivano e repentinamente s'ammutolivano rappresentazioni oscure ma lucenti della mia persona. Ne fui estremamente felice. Secco il rumore delle mie scarpe di vernice s'alzava al contatto con l'asfalto, non avevo la minima idea circa la destinazione del mio divagare, eppure, ugualmente proseguivo, impettito e sbruffone, meravigliando me stesso a ogni luccicante novità. Quando mi soffermai all'altezza d'un cartello, voltando la mia attenzione di qua e di là, desiderai che fosse giorno, e giorno divenne! Un sole limpido s'accese come di colpo destato, e qualche abbozzo di nuvola da lugubre grigio oscuro cangiò in un chiaro color marmo di ceruleo venato. E la folla! Ovunque mi girassi, dal nulla apparsero donne dai colori sgargianti, arancioni, e azzurri e verdi, con borse e cappelli e un passo allegro e frenetico; e uomini con impermeabili beige e kaki, e occhiali da vista dalla spessa montatura e valigette e parlavano tutti rumorosamente sorseggiando caffè in bicchieri di carta o seduti a sparuti tavoli dalle sottili gambe ricurve o fermi di fronte a vetrine meravigliose costruite di carta colorata. Dal profondo silenzio di una notte solitaria, il suono chiassoso del giorno proruppe entro ogni anfratto; grida, e risate, e biciclette e il passo di scarpe tutte insieme per la via principale, e i fiori e gli alberi di piccole verdi aiuole salvate al cemento da mano pietosa. Tutto pervase e alimentò il mio gentile stupore e sorridendo m'avviai verso meridione, seguendo lo spegnersi dei lampioni e l'aprirsi delle imposte. È mattina dunque? Pensai perspicace, all'Oeuvre servono il caffè e un'ottima torta di mele con gelato alla crema.
Un buffo cloche e un panamà
Voltai la mano destra affinché potessi controllare il numero sul dorso, ma in una strana oscurità teporosa riuscii solamente a scorgere la pallida epidermide priva d'ogni grafema. Come stordito, lasciai ricadesse l'intero braccio ed esso sprofondò morbidamente. Trassi un profondo respiro e come voltandomi ritrovai subitamente la strada e ritrovai la città splendente. Quale sortilegio... Per poco ebbi pensieri turbati, ma fingendo indifferenza proseguii il mio cammino. Un imponente edificio piano sfilò alla mai sinistra, con le sue targhe di marmo lucido, i suoi busti e le sue insegne dai caratteri antichi. Presi per il cancello principale; candide Magnolie coprivano il giardino che si apriva all'interno, panchine raminghe stavano all'ombra delle fronde, rami intrecciati senza peso incorniciavano colonne massicce e severi sarcofagi echeggiavano il monito cupo dei fasti passati. Una salma pacifica riposava orizzontale sopra un basamento recintato, dal fogliame qualche sparuto richiamo d'uccello. Proseguii fino a una piccola via, da quella a un porticato, svoltai. Piano si scostò un palazzo giallognolo e passata la calle sorsero un piccolo ponte e un placido naviglio. Sistemai il colletto della mia camicia scura e le spalle d'una bianca giacca gessata blu. Ecco il discreto cafè aprire una coppia di ombrelloni bordeaux, ecco gli agili tavolini in ferro battuto e le snelle sedie in stile moderno. Ed ecco lei, sola, a un solitario breakfast malinconico. Sorrisi e la raggiunsi. Fu sorpresa di vedermi e ricambiò il sorriso aprendo i suoi meravigliosi occhi cerulei. Senza parlare mi invitò a prendere posto, io mi sedetti e rimasi a seguire la linea dei suoi gesti. Tolsi il panamà e lo appesi allo schienale di una sedia vuota. Avevo un cappello? A quanto pare... Scambiai un dolce sguardo con la donna e trassi dalla tasca interna della giacca un portasigarette d'argento; mi offerse un fiammifero. Fumammo entrambi, e quando uno snello garçon con una bianca camicia e un nero papillon venne al nostro tavolo, ordinammo del caffè e della torta di mele con gelato alla crema. Lei prese a raccontare della sua eleganza e della sua passione per gli abiti da cocktail. Mi raccontò del mare e di come i suoi capelli fossero meravigliosi coperti dalla salsedine. Posando delicata la cenere mi parlò con leggiadria e io l'ascoltai senza un giudizio, intimamente convinto non ci fosse necessità di giudizio. Amava le guepiere e le ballerine. Mi raccontò di un suo viaggio in campagna, nel Wessex; le chiesi se avesse mai letto... lo confermò con un pacato cenno, ma preferiva di gran lunga il vento fra le fronde peccaminose degli alberi. Arrivò il nostro breakfast, lei aprì un piccolo fazzoletto bianco e lo poggiò sulle sue ginocchia. Delicatamente tagliò la torta e l'accompagnò con il gelato. La fissai sorseggiando il caffè. Mi chiese da dove venissi, ma stranamente non seppi risponderle; indicai il mondo come mia origine e lei rise un poco suggerendomi di restringere il mio luogo di nascita al mio solo intelletto. Mi confidò l’amore per alcuni libri, volumi dalla copertina rigida, verde, scavata d’intagli dorati. Nei pigri pomeriggi estivi, si sedeva fra le erbe, coi suoi enormi occhiali da sole, fra palazzi color dell’oro e cespugli di lamponi, e riga dopo riga scendeva scale di cristallo fino a fiacchi finali. Era così ottocentesca e così austiniana la sua estate. Muovendo lo sguardo, riuscii a scorgere di nuovo i grafemi sul dorso della mia mano. Mi raccontò della perdita di un amore lontano, mi descrisse alcune lacrime, non doverosamente le sue, e mi accennò a lettere mai aperte. Mi mostrò la fotografia di una villa coi balconi color sabbia e si interrogò più volte del mio passato, ma io non seppi darle risposta alcuna. Stranamente, d’un tratto, mi accorsi di non avere mai udito la sua voce: calata sui nostri corpi, millenaria e inamovibile stava come una sorda e piena cappa di silenzio e solo in quell'istante seppi della sua esistenza. Eppure riuscivo a comprendere il dolce periodare di lei che ha nome Berenice, Berenice? Piano si allontanò dal suo caro discorso, come dissolvendosi, e in un istante mi fu più vicina. Tolse il suo piccolo cappello scoprendo i suoi capelli morbidi e buffi... Aveva un cappello? Con quella fascia color salmone, come avevo potuto non notarlo? Trovai le sue mani nelle mie e il suo viso lievemente inclinato scoperse uno strano luccicore. Berenice...
La baciai, languido, con un artistico contegno, più di una volta. Sorridendo, poi, presi il suo braccio sotto il mio braccio e insieme passeggiammo lungo il naviglio placido, io col mio panamà lei col suo giocoso cloche anni '20. E fu come non udire suono alcuno, di nuovo, mentre fumando tranquillamente su un piccolo balcone notai la tremenda altitudine a piombo su una lastra azzurrognola; mi ritrassi e il suo ridere si perse in un'ovattata sordità. La tua voce, Berenice.
Ancora in terra, Arnaut!
Tentai d'alzare il mio braccio ma questi pesantemente ricadde a un palmo dal mio naso, al che mi ritrassi di nuovo, ma ora, come improvvisamente desto, un'oscurità pesante calava sui miei occhi. Tentai nuovamente d’alzare il braccio, ma esso orribilmente si trascinava e ricadeva su se stesso e sulla propria flaccidità. Ne afferrai il polso e d’improvviso fui pervaso da un bruciore frenetico, migliaia di piccoli aghi ardenti s’infransero l’uno sull’altro, volli urlare in quest’oscurità liminale ma quando al fine mi trovai, mi sorpresi seduto in un letto solitario e silenzioso. Scopersi il mio gracile corpo e di quell’incredibile fermento, non rimase altro che un fastidioso doloruccio all’arto che piano riprendeva sensibilità. Lo voltai cautamente e controllai il dorso della mia mano; nessuna traccia di quelle cifre blu e tondeggianti. D’un tratto un barbaglio, nell’oscurità trassi a me il cassetto di un comodino adiacente al mio giaciglio. Frugai fino alla ricerca di carta e penna; cieco riportai su un foglio una vaga sensazione e presto, quando il mio guardare si abituò al buio, la scorsi: incerti e sovrapposti, alcuni segni si assemblavano in un rigo orizzontale, che fino alla fine della narrazione rimarrà misterioso e oscuro a voi lettori. Lo sottolineai e scrissi il nome “Berenice”. Lo ripetei coi labbri senza voce e sorrisi, il suo volto fu più concreto d’ogni altro elemento che potessi ricordare. “Berenice”, col suo fulvo sciogliersi della chioma morbida e il suo riflettersi terso di cielo estivo negl'occhi. “Berenice”, potessi incontrarti nelle pieghe di questa mia fallace memoria ancora fra qualche giorno... Posai con cura il foglietto in una piccola agenda e richiusi il cassetto. Consultai l’orologio, le luci dell’alba presto avrebbero delicatamente varcato le imposte, decisi dunque d’alzarmi. Passato il corridoio silente m’apprestai al tavolo nero e lucente della cucina e accesi una piccola lampada posata su d’un mobile attiguo. Una tenue luce illuminò il mio volto e la mia figura insieme coll’arredamento. Trascinando il leggero velo del sonno, convenni fosse cosa saggia azionare un rumoroso macchinario e bere del caffè. Tagliai una piccola fetta di torta d’albicocca tenuta in una teca trasparente e la depositai s’un tovagliolo rosso. Mentre l’elettronico borbogliare rompeva il delicato silenzio della giovane mattina, fissai senza interesse il pacchetto blu di sigarette, aperto, a pochi metri da me, poggiato con un accendino sul limite del piano di marmo. Nell’attesa ripensai svogliato agli impegni giornalieri convenendo con me stesso un epilogo d’accidia. Il sortilegio del sogno ancora mi empiva l’animo di una cara dolcezza, come se l’estasi, sfiorandomi caritatevole, avesse infuso una sorta d’ottimismo positivo e pacifico, una serafica consapevolezza. “Berenice” di nuovo mi trovai a pronunciare silenziosamente il suo nome. Per quale gioco immaginario un nome così poco comune? Dove avevo mai sentito un nome così strano? Fermai quel chiassoso ronzio e intuii il profumo del caffè caldo traendo la tazza e posandola vicino alla torta. Consumai distratto la mia delicata colazione e mi accesi una sigaretta. Potessi rivederla... Scorsi pallidi raggi di sole disegnare sagome geometriche sul pavimento scuro e nel momento in cui posai la prima cenere decisi di tentare un ritorno all’onirico. Per gioco e per divertimento, chissà che Berenice, sorridendo, non mi aspettasse dietro le palpebre a carezzare la mia solitudine. Tornai dunque nella mia stanza e mi assopii nuovamente, ma nessuna figura mi visitò nel sonno e quando mi svegliai senza il ricordo di un sogno, un poco fui deluso. Erano quasi le undici secondo l’orologio d’argento che stava sul mio comodino, era l’eredità di un caro vecchio il cui ricordo barbagliò per un momento, riscaldando il mio sorriso. Trenta minuti e sarei dovuto essere di fronte a un elegante lounge bar.
Muffin alle mele con sentimento
Di fronte allo specchio del piccolo bagno mi pettinai stancamente, buttando un occhio distratto alle pesanti occhiaie disegnante malinconicamente sul mio volto. I miei occhi tristi si piegavano verso l’esterno regalandomi un’estatica posa priva d’attenzione. Fui nuovamente deluso dal mancato ritrovamento, nel mio armadio, di un panamà bianco e sospirando decisi per la chioma scoperta. Scelsi un lungo doppiopetto blu su una camicia color salmone e mi incamminai per le vie della città. Un fresco vento colpì le mie mani risalendo rapido fin sopra la schiena, tediosi ragionamenti mi guidarono attraverso le arterie cittadine; fra i passanti ricercavo Berenice senza successo. Mi innamorai ripetutamente di sguardi, scarpe, pose e donne dalla bellezza matura, appena sfiorita, e poi d’abiti eleganti, e anelli su dita da fumatrice, mi innamorai un considerevole numero di volte, poi arrivai a destinazione; un’esile ragazza mi aspettava svogliata, la testa piegata sulla sua spalla sinistra e un lento respiro incosciente. La salutai baciandola sulla guancia e sorrisi appena, lo stesso fece lei invitandomi a entrare nell’ampio salone ammobiliato in stile moderno. Fra tavoli deserti ci accomodammo senza nulla di preciso da dirci e senza una precisa voglia di vederci. Mi parlò della moda moderna, dei suoi cari affetti e dei suoi interessi, io l’ascoltavo smarrendo le sue parole dalle mie dita poco convinte. Sorrisi di nuovo e lei sorrise, il cameriere ci chiese se fossimo pronti per ordinare, lei graziosamente decise per un muffin alle mele e una tazza di tè, ne chiesi per due. Mi raccontò di quanto, dopo oscuri periodi nei flutti solitari d’una depressione ostile, si fosse per caso imbattuta nell’uomo della sua vita, un uomo dagli occhi azzurri, dieci anni più vecchio, professore emerito al corso del fratello, grande scrittore di saggi e romanzi, me l’avrebbe presentato se avessi voluto dare una spinta alla mia carriera, di sicuro lui avrebbe saputo se fosse valsa la pena continuare a giocare al poeta o fosse stato più saggio scegliere una soluzione differente per impiegare il resto della mia esistenza. Ero un pessimo critico teatrale, non era necessario qualcuno me lo ricordasse. Sorrisi. Lui era così sensibile, intimamente interessato e gran conoscitore di arte, musica, e delle meccaniche dei rapporti sociali, s’inseriva perfettamente in quella categoria d’uomini d’altri tempi, eleganti ribelli in armature desuete e giacche verde pino coi gomiti coperti di marrone. Sorrisi di nuovo. Non presi parola, mi limitai a ingrassare con quella deliziosa seconda colazione con espressione poco convinta, vagamente interessata. Quando terminò l’agiografia di questo accademico quarantenne capace d’infondere dolcezza nell’esperienza anale, s’interessò dello svolgersi della mia vita; mi trovò impreparato, nulla d’eclatante era accaduto dopo il divorzio, meravigliosa avventura grazie alla quale mi era riuscito di evadere da un tremendo matrimonio figlio di uno sventurato idealismo adolescenziale. Giovanissimo decisi di chiedere la mano di Neissa, una stucchevole bellissima signorina dell’East-River, convinto fosse l’amor vitae, enfatico protagonista di innumerevoli poesie; il sesso orale pareva dar ragione a questa mia profondissim...

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