Traversone
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In un'epoca a noi più vicina di quanto possiamo pensare, il Campo di Lavoro per la Libertà (noto comunemente come C.L.L.) è il partito-azienda che all'indomani del crollo dell'impero comunista governa e organizza democraticamente il prospero stato peninsulare del Desertico.
Ma dietro la parvenza di libertà, agiatezza e tolleranza della penisola, si cela un'umanità oscura, dolente, incapace di comunicare, schiacciata e resa schiava dal peso ipocrita e banalmente insopportabile di un potere, nella sua più profonda essenza, in tutto e per tutto dittatoriale.
Il protagonista senza nome, in una dimensione malinconicamente ribelle, indefinita, onirica, rievoca la sua storia mosso da un'estrema e libera volontà narratrice, con l'intenzione di riscattarsi da una vita senza significato proprio attraverso il sogno della narrazione.
Una vita amara, stracolma di solitudine e piena di contraddizioni, caratterizzata da un ricorrente senso di inappagamento e dalla sfortuna, anche e soprattutto quando questa si traveste in apparenza da buona sorte. Una vita in cui il protagonista, colto da una strana e imprevedibile malattia chiamata "logolalia", trova però alcuni momenti di pura gioia e consolazione attraverso il gioco, inteso come ribelle, onnipotente, irripetibile attimo di amore, di vera libertà. Il gioco, affrontato nello sport, nell'amore e persino attraverso folli atti di violenza, diventa così, pur nell'ineluttabilità della sconfitta, il solo modo possibile di rimanere attaccati alla vita. Anche e soprattutto nel finale, quando il protagonista investe sé stesso pur di godere di un'ultima, mistica ed ambigua estasi ludica.
Attraverso una struttura labirintica e circolare, pervasa dalla mescolanza di generi, stili e linguaggio, Traversone intende essere l'opera che malinconicamente canta la straordinarietà irripetibile del gioco, la sola cosa in grado di recidere per un attimo i rapporti con la realtà; la sola cosa capace di stagliarsi, più bella di qualsiasi altra passione, nel grande firmamento della vita.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868822989

Napoli

I
Le microtonalità del soffritto preparato per cena si disposero in fila indiana, secondo una scala crescente di profumi: cipolla, sedano, carota e infine olio; disposizione temporale, quest'ultima, che nella partitura preconizzata dalle mie papille gustative risultò abbastanza sorprendente. La sigaretta artigianale che stavo fumando scivolò dalle dita, andandosi a schiantare sul filo spinato prima di toccare terra: nello scontro, volò via una scintilla, ultima lacrima di coccodrillo versata dall'unica bionda cui fui dipendente.
Il lavoro, con tutta la retorica di nobiltà che porta con sé, mi stava rendendo un uomo maturo, benché ancora piuttosto giovane: essendo i due stati di per sé in contraddizione, immaginavo che, di lì a poco, avrei assistito alla prima di una folle convergenza; prima e ultima, in quanto gli anni fanno presto a passare, e ciò che prima si avvicina è destinato inevitabilmente ad allontanarsi, specie se i due agenti non si toccato nemmeno una volta e per scherzo. Avevo sposato l'imprenditoria e le sue cariche dirigenziali in toni pubblicamente scintillanti, e non le qualifiche professionali, ma lo status di personaggio pubblico – pubblico, si intende, all'interno del business, quindi sconosciuto ai più - mi aveva reso il burattinaio di gran parte dei movimenti economici che dal paese fluttuavano verso Stereopoli prima, verso Capitale poi. Questo perché ci fu un terminus post quem, del quale astutamente assorbii per intero la fortuna, in cui potere significava essenzialmente C.L.L.: dopo mia madre e prima di nessun altro, fui l'ultimo della famiglia a rendermi protagonista di un così deciso salto in ciò che prima mi pareva vuoto, e che in seguito riconobbi peggio; la differenza tra i due momenti fu essenzialmente nel trono di fiele d'oro sul quale col tempo mi ritrovai a sedere.
Avevo un appuntamento con Morgana, dopo cena: mi piaceva molto avere ancora quest' idea del “vederci”, nonostante ormai ci frequentassimo da parecchio tempo; tale concetto si rivelava d'altronde funzionale, in quanto aiutava a non rimuovere la pellicola trasparente dal rapporto, oltre ad essere, a conti fatti, l'illusione che consentiva al rapporto stesso di aver luogo. Non è certo un caso se in inglese, lingua che nulla lascia per strada, la parola date può indicare un'uscita, qualcosa di scaduto o addirittura l'invecchiamento, no? Prima, però, la cena: come da tradizione italiana, non c'era nulla di più tenero e intimo in famiglia di una cena consumata dopo una laboriosa giornata; e mentre lo pensavo, già mi trovavo al quarto o quinto boccone di un coniglio a dir poco morbido, soffice, tenero, impregnato di un sapore ancestrale, direttamente offerto da Madre Natura.
Era al centro, circondato dai suoi clienti. Ci guardava acquistare la sua carne, mentre i telegiornali disquisivano pornograficamente su uno dei tanti casi di cronaca nera che affollavano il panorama nazionale in quegli anni. Grazie ai cristalli liquidi della tecnologia Full HD, i colori delle immagini di morte e disperazione seriale parevano più vividi, concedendo molto spazio a fantasticherie ed evoluzioni psicologiche dai risvolti fortemente centripeti: era noto come il governo avesse accolto calorosamente, all'epoca dei fatti narrati, le più avanzate scoperte della comunità scientifica sull'argomento; le lezioni di Goethe e Schopenhauer erano state riprese ed ampliate, e nella cromoterapia confluirono i più disparati e interessanti risultati sanitari, tanto che uno studio a campione dimostrò una percentuale di incremento produttivo, nell'anno precedente, pari al +21%. Più la voce di Giancarlo Impallomeni, navigato anchorman di Rete Piro, si faceva drammaticamente carnale, più questa assomigliava ad un'elegante e servizievole didascalia, proporzionale al rosa pallido effettato di una povera madre, il cui volto scavato e consunto annunciava da sé il rapimento del proprio bambino. Locuzioni come “tragedia”, “dramma”, “dolore” e in parte anche “depressione” erano salutate da tutti come una Provvidenza provvisoria, necessaria allo smaltimento merci commestibili presso tutti i cenacoli italiani, improvvisamente resi spirituali.
Mia madre, anziana e ormai in pensione, mi chiese come era andata, come sempre, senza specificare l'oggetto. Non risposi, dissi “bene”. Il coniglio appariva sempre più esterreffatto dal raid inesorabile che lo aveva colpito, tanto che decise, con un riflesso molto poco incondizionato, di punire uno dei commensali che stava abusando del suo corpo, uno a caso. Mi scorticai un molare, imprecai a mente per non creare imbarazzo, infine sputai senza troppi complimenti gli ossicini con i quali mi avvertì: effettivamente la fretta cronica con cui demolivo il cibo mi impediva di gustarne appieno il piacere, oltre a impedire una corretta digestione. Lo presi come un segno antipasquale, eversivo, un input pittoresco ma efficace: lo ringraziai addentando un altro boccone, rallentandone tuttavia la masticazione. Stavolta percepii più intensamente il sapore, deglutendo il bolo con disinvoltura: la mia leadership quotidiana, scampato il pericolo, ne uscì rafforzata, e così pure la dieta. Il carlino, aggrappatosi frattanto con le zampe al jeans, mi guardò assente, dall'alto dei suoi dentini storti. Mio padre, anche lui in pensione da tempo, cambiando canale mi invitò a fare tabula rasa del mio provvisorio amico. Decisi controvoglia di non deluderlo, la fretta tornò, gli ossicini pure. Chiese come era andata, come sempre, senza specificare l'oggetto. Non risposi, dissi “bene”. Finì tutto, appena ogni sera finiva la ciclica catarsi del mangiato. Il silenzio circoscritto dal lampadario della cucina era spezzato ogni tanto da qualche commento estemporaneo dei miei, rendendo la dimensione familiare, come insegnava una serie televisiva civilmente antiamericana, più una cosa tra conigli che tra esseri umani.
Tornai dunque nei pochissimi metri quadri della casa a me graditi, nel mio feudo, dove in un angolo era riposta la mia vecchia e impolverata chitarra elettrica, rigorosamente “preparata” secondo la rivoluzione apportata dalla scuola chitarristica di Glenn Brank. Non avevo mai avuto a grossa simpatia i grandi virtuosi dello strumento, i tecnici a livello maniacale, quelli con una pulizia sonora e una perfezione esecutiva da accademia militare, gli eroi insomma. Gli eroi hanno una grande qualità: quella di tralasciare i difetti, e i difetti si sedimentano nell'oblio delle epoche, fin quando arriva colui il quale li recupera, li esaspera, e rinnova tutto quanto fino ad allora è stato tradizione. Distruggendola, resuscitandola. La chitarra preparata è la risposta controstorica alla chitarra regina del virtuosismo solistico. Preparare una chitarra è come preparare un piatto: il chitarrista diventa cuoco in tale oltraggiosa operazione. Fintanto che le corde risuonano piane ed il contatto con esse segue una logica normativizzante, il pick-up – bobina singola o humbucker che sia – risponde per mezzo di frequenze ordinate secondo un orizzonte d'attesa comune: il codice comunicativo è universalmente noto e viene riconosciuto e accettato da tutte le civiltà di stampo occidentale. Questo crea la melodia, questo crea l'armonia, concetti discutibilmente mimetici che sono in realtà il risultato di un complesso quanto schematico mènage a trois tra la teoria musicale, l'esecuzione del musicista e le prestazioni del mezzo utilizzato. Ma se il procedimento di cui sopra subisce una o più deviazioni della norma, il codice è infranto. Ecco, allora, la necessità del cuoco pazzo. La preparazione dello strumento permette di scavalcare tutto questo: il timbro generato è differente da quello ottenuto secondo le convenzioni prestabilite, ma c'è di più. Poiché la preparazione di una chitarra è potenzialmente infinita, in quanto fa uso di qualsiasi tipo di oggetto inserito tra o sulle corde, si può affermare che anche le risposte tonali, sulla stessa scala di frequenze disposta dai pick – up già osservati, giammai risultino uguali fra loro - benché anche in tal caso conti molto la tecnica dell'esecutore -. È un discorso malsano, che si inscrive in formazioni estetiche che scavalcano i meri concetti di classicismo ed avanguardia. Manca l'eguale in un discorso atonale, e se manca l'eguale anche la melodia sparisce. Se la melodia sparisce, la legittimità musicale è resa nulla. Dall'opinione pubblica, e dal governo. Prima che aprissi le danze concrete, veritiere, enarmonicamente perfette del lavoro, c'era un altro me, falsamente ispirato da princìpi nobili, da menzogne virtuose, da attività inutili: sperimentare intorno alla musicalità del rumore era il progetto per eccellenza, il mio originario destino, o meglio ciò che con una sempre valida scusa chiamai destino per non vergognarmi troppo dell'irrealizzabilità dei sogni. Ma si arriva ad un punto in cui il cuoco pazzo non è più necessario. Si rende conto di essere solo, nell'inferno della nouvelle cousine pubblica, perciò reagisce in maniera sana di fronte ad una società malata.
I miei genitori mi avvertirono per la prima volta del pericolo quando ancora ero uno studente universitario. «Rischi una multa, se ti va bene», «Ma perché devi incasinarti la vita», «In futuro sconterai a caro prezzo questa scelta», ecc. Tutto questo, anziché impaurirmi, mi spingeva a osare ancor di più nella mia ricerca musicale, fin quando un pomeriggio bussò alla porta di casa il maresciallo Ugo Lonza in persona; ero solo a casa, intento a studiare, in pigiama e anche un po' fuori forma per via del maltempo che impediva corretti allenamenti.
«Buonasera. Suppongo tu mi conosca», disse il maresciallo mentre stavo ancora finendo di aprire completamente la porta. Aveva le occhiaie tipiche di chi ricopriva prettamente turni notturni, accompagnate da un alito stantio, perfetto surrogato di un timbro vocale acre e persino un po' misterico.
«Salve, feldmaresciallo..», risposi con voce cavernosa. Era la prima volta che aprivo bocca, quel giorno.
«Seh! Magari.. Vabbè, che dici se mi fai entrare? Me la sono fatta a piedi per colpa del vostro ascensore guasto e ora sto a pezzi», chiese esortandomi il maresciallo.
«Non è sufficiente. Non lo è affatto», dissi improvvisandomi lord.
«Dici che è meglio se ti porto in caserma?», domandò la divisa.
Tacqui, poi ritornai sulla terra.
«Quanto zucchero?», chiesi cortesemente.
«Uno, meglio se ristretto», suggerì Lonza.
La mia piccola bastardina abbaiò contro Lonza, come da prassi per tutti i cani. In tutta risposta, il maresciallo si piegò per accarezzare il cane biascicando qualcosa di linguisticamente deviato, quasi a voler mimarne un intendimento a quattro zampe. Rassicurai in toni di maniera lo sbirro, poi presi dalla credenza della cucina tazzine e piattini per due, stando ben attento a non far scontrare le porcellane tra loro come invece amavo fare. La qualità del caffè, dalle mie parti, si segnalava per una decisa variante “palustre”, così informalmente definita in riferimento alle origini del luogo: la moka, sin dai primissimi insediamenti paleoindustriali, veniva fatta cuocere con acqua di palude; il gusto ottenuto assumeva, in tal modo, un aroma ispido, metallico, ideale per mitigare ansie e infermità spirituali. Ancora oggi la ricetta, tramandata di padre in figlio, viene seguita e fatta propria dalle torrefazioni presenti in zona, tutte riunite sotto il segno infallibile della Tondelli, società di intermediazione per conto terzi e affiliata del C.L.L. Degustammo, dunque, ciò che amavo ritenere fantasiosamente pura acqua di palude: un po' per gioco, un po' per illudermi di affondare le mie radici su un'identità psicostoricamente determinabile; a conti fatti, ad affondare erano le radici stesse.
«Che stai studiando? So che studi», chiese Lonza, con un'alitata resa ancora più precaria dal caffè.
«Blanchard. Lo spazio letterario, La scrittura del disastro...un tipo in gamba, molto capace. Il fatto che lei non lo conosca è normale, oltre ad essere un gran segno di civiltà», risposi.
«Dai per scontato che non lo conosca.», commentò infastidito Lonza, per poi cambiare subito argomento, «Correggimi se sbaglio, ma la Tribuna Ovest non è venuta a protestare manco una volta?».
«Protestare contro competenze non richieste?», domandai ironico.
«No, no.», rispose bruscamente la divisa, «Mi riferisco al casino che fai con quella cazzo di chitarra.. io dico, ma sei matto? Non lo sai che quel tipo di musica è stato bandito dieci anni prima che tu nascessi? È prevista una multa salatissima e, in caso di recidività, persino l'arresto! Io poi lo dico per te, per il tuo futuro, per la tua famiglia... con una fedina penale incrostata quelli del C.L.L. non ti prendono manco per sbaglio! Hai voglia poi a dire loro “è bravo, preparato, scrupoloso, tutto sua madre...” abbi pazienza...».
La conversazione stava prendendo una piega sinistra, quasi a voler mimare l'inquietante autorità che avevo davanti a me.
«Mi scusi, non vorrei polemizzare, ma lei che ne sa che faccio casino? Anzi, come fa a sapere prima di tutto che suono uno strumento?», dissi in modo rude, cercando di rendere il più esplicito possibile il mio tentativo di opposizione.
Lonza mi guardò impunito, esclamando: «Non vorresti saperlo, davvero. Accontentati. Suona qualcosa di più normale, anche ardito, però normale, capito? Sei un bravo ragazzo, strimpellare il rumore è solo controproducente per te..».
«E perché sarebbe controproducente, porco di un dio?», domandai aggressivamente, sempre più indispettito dal giudizio da scribacchino domenicale del Lonza.
Niente. La sicumera con cui legiferava si faceva sempre più accentuata.
Lonza isse: «Non vorresti saperlo, davvero. Accontentati. Accontentati. Accontentati. Accontentati. Accontentati. Accontentati. Ti sei accontentato?».
Lo ripetè altre dieci volte, poi tacqui.
«Pare di sì», risposi dopo alcuni secondi di titubanza, «l'importante ora è che la smetta di dare fiato al fiato, che è strumento pure lui. Nel Suo caso un po' sfiatato.. sa di carogna variegato merda».
«Ahahah!». Era una risata talmente finta da farla sembrare credibile. Tacqui ancora.
«Ti prenderebbero per blasfemo, poi», continuò «Vaglielo a dire, dopo, che ti sei pentito, che chiedi la misericordia. Padre Bovolenta è molto rigido su argomenti di questo genere».
«Concordo», glissai.
«Vabbè, senti.. Che mi dici invece di quelli della Tribuna Est?», mi chiese insistentemente.
«Nemici naturali, come l'altra parte», risposi.
«Ti va un tressette, lazzarone?», domandò.
Non riuscii a capire se fosse un modo per tergiversare o meno; nel dubbio, rifiutai.
«No, grazie. Nemmeno sono bravo a tressette. Lei non è in servizio?», domandai con l'intenzione di cambiare subito argomento.
«Appunto: mi diverto a lavoro, o almeno ci provo», rispose smagliante, con la tronfia sicurezza dei padroni.
Rimanemmo in silenzio per alcuni interminabili giri di orologio, durante i quali la libidine della tanto amata violenza cominciò a scorrere lungo i miei strettissimi vasi sanguigni. Era quello il periodo in cui iniziavo ad autoconvincermi che la passione per il gioco avesse preso il posto del sesso, benché non risultassi inattivo in quell'altro ambito. Tuttavia, già da anni trattavo le due vie dello sfogo ormonale in modo differente, e questa fu l'oggettività che mi aprì gli occhi al riguardo. Pur non potendo farne biologicamente a meno, tra le molteplici insicurezze di un'età indefinita e ormai lontana, iniziai a guardare il sesso con sospetto, lontano dall'instaurare rapporti di complicità con esso: una crepa era nata sulla principale attività motoria umana. Il C.L.L. cominciava ad affacciarsi in ambito internazionale, approfittando dell'esasperazione ottimistica di quell'atlantismo che stava per fare da preludio alla caduta post-comunista. Le verità arroganti di milioni di cittadini desertici furono rese ancor più salde da certe manovre ad ampio respiro. Progressivamente, ogni aspetto del quotidiano iniziò a sembrare diverso, permeato di un'aura distorta, inquietante: tanto le attività civili, quanto le funzioni primarie. Tutto sotto il segno del potere: andare a fare la spesa, pagare le bollette, sostare in divieto di sosta; impaurirsi, arrabbiarsi, rallegrarsi, fare amicizia, fare all'amore, soprattutto fare all'amore. Non c'era azione che non mi suggerisse ossessivamente un rapporto, per quanto sincero, naturale e sgombro da dubbi, con l'idea di dominio, e il sesso ne rappresentava l'apice. Patologicamente dilaniato sottocoperta da tale ossessione, tutto mi sembrava inscritto entro i limiti del dominio: l'infinitamente grande e l'infinitamente enorme. Tutto, o forse no: come ogni regola, esiste l'eccezione, un momento orgogliosamente antiumano, e per questo l'unico ad apparirmi sinceramente e spirituralmente per quello che era. Si può ben immaginare quale fosse, ma più che di attività sarebbe più corretto riferirsi ad esso come una religione. E religiosamente, già pregustavo una nuova avventura nelle...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Accusa
  3. Buongioco
  4. Napoli