Le cose migliori
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Informazioni sul libro

Una vita apparentemente tranquilla, serena, all'interno di una famiglia del ceto medio viene spazzata via dalla tragedia della malattia. La madre di Irene si ammala di Parkinson e questo evento cambierà il corso di tutte le loro esistenze, la sua e quella di tutta la sua famiglia. Il punto di rottura viene segnato dalla finale dei mondiali di calcio. 8 luglio del 1990 e un'afosa giornata estiva segnerà per sempre la sorte della protagonista. Nelle ore che precedono la partita più seguita al mondo che Irene abbandonerà per sempre i panni dell'infanzia per vestire quelli dell'età adulta. La piccola cade, inciampa in un masso grezzo di cemento lasciato per dimenticanza sull'asfalto: un guidatore distratto che corre troppo, sua madre che viene sequestrata dalla prima avvisaglia della malattia……

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868825454

Capitolo IV

Arrivai a notte fonda a casa di Michelle, la mia amica d’infanzia trasferitasi dall’isola nella provincia di Milano da più di dieci anni. Non mi disse niente, pianse con me. Mi preparò da mangiare, mi prestò il suo pigiama, mi fece dormire nel suo letto. Ovviamente non mangiai, non dormii. L’essere umano ha bisogno di capire, di sapere poi può essere pronto a sostenere tutto quello che deve accadere. La mia storia d’amore divenne la scena di un crimine. Buttai giorni e sprecai le notti a scandagliare i fatti, sezionare i gesti, scolare indizi. Non trovai nulla. Rimase solo un cuore assassinato e un killer pavido e spietato. Luca sparì, non fece nulla per riportarmi da lui. Restai a casa di Michelle un mese, il tempo di trovare un appartamentino tutto per me e un lavoretto per mantenermi.
Seguii tutti i consigli affettuosi e inutili che gli amici sono in grado di dare in questo genere di situazioni: uscire tanto, tagliarsi i capelli, cambiare il guardaroba e soprattutto non pensarci. Potevo anche non pensarci il giorno ma questo stratagemma faceva infuriare il mio subconscio che la notte si vendicava e mi teneva sveglia con i fotogrammi del tradimento di Luca. Furono tempi duri, dopo la delusione sentimentale arrivò anche quella del lavoro. I mesi si succedevano, li riempii di corsi di specializzazione, conseguii un master in arte contemporanea. Intanto trovai lavoro come cameriera in un bar fumoso, alla periferia di Milano. Ogni domenica si riempiva di tifosi che venivano a guardare le partite del campionato di calcio smoccolando e consumando birre e Campari. Erano gli anni Duemila e passa. Passò anche l’entusiasmo per l’Europa tutta unita, per la moneta unica. La crisi investì l’Italia e con lei, molti Paesi del globo. Le fabbriche chiudevano, chi non falliva trasferiva la produzione nei Paesi dell’Est, con manodopera a più basso costo. Cominciò a spirare l’aria del pessimismo, l’inflazione faceva le suole alle giornate, i suicidi fecero registrare i picchi nei diagrammi di statistica. Ebbe inizio il fenomeno della disoccupazione colta, un’immensa schiera di laureati disoccupati, con un pezzo di carta tra le mani e la voglia di fare. Gli entusiasmi si affievolirono. Eravamo la generazione degli over educated: troppo colti, troppo specializzati per i lavori che ci ritrovammo a fare. Me ne accorsi perché insieme a me, mi ritrovai a sgomitare per lavorare in quel bar con praticanti avvocati, architetti e scienziati politici. Il signor Remigio, il proprietario del bar, ci prendeva in giro. Lui con la terza media ne aveva fatta di strada altro che noi.
“Grazia, Irene ma non vi vergognate?! Avete speso una marea di soldi in tasse e libri …… poi per cosa?! Per pulire i cessi di un bar e servire birra alla gente!” e rideva soddisfatto.
Era un uomo con gli stessi anni di mio padre, grasso con una pancia così ributtante che la camicia gli scappava sempre fuori dai pantaloni. Si ostinava a portare un riporto ridicolo per coprire la nudità delle calvizie, aveva un alito asfissiante unito a un fegato grosso coltivato dalle continue alzate di gomito. Stava dietro il bancone e si limitava a fare i caffè mentre io e Grazia, l’altra cameriera servivamo i clienti al tavolo, facendo avanti e indietro tutte le notti. Molto spesso quando passava dietro il bancone, con la scusa di controllare le bibite che mancavano quel maiale faceva scendere le mani sui miei fianchi, sul sedere.
“Spostati culona” mi diceva con il suo umorismo sguaiato e io sgusciavo veloce da quel corridoio di viscidità. Ingoiavo fatica, schifo e la tentazione di sputargli addosso. Avrei dato qualsiasi cosa per andarmene via ma i soldi mi servivano. Le bollette e il padrone di casa arrivavano puntuali alla fine del mese. Intanto continuai a cercare un lavoro, qualcosa di migliore per me, pianificai la fuga da quel bar. Ogni volta la chiamata per un nuovo colloquio mi riempiva di speranze. Mi preparavo accuratamente: vestiti sobri ed eleganti, mi truccavo leggera, raccoglievo i capelli. Sfoderavo il mio miglior sorriso e una stretta di mano decisa. I miei selezionatori cominciai a collezionarli, sostenevano a malapena il mio sguardo. Dopo una breve incursione sulle mie reali competenze e abilità spostavano il discorso sulla flessibilità. Bisognava essere flessibili, rinunciare all’idea del posto fisso così cara ai nostri genitori. Era indispensabile adeguarsi, andare al passo con i tempi, modellarsi al ritmo della globalizzazione. Fui flessibile, rinunciai all’idea del posto fisso, fui alla moda con i tempi. Spesi diversi mesi facendo dei tirocini o stage come li chiamavano. Veniva presentata come un’esperienza formativa molto utile che serviva a crescere. M’immersi nel mondo degli stage anche se non era retribuito ma impegnativo come un lavoro in termini di orario e responsabilità. La parola mi piacque, era romantica, mi fece pensare a un palcoscenico, agli spettatori, al primo piano che prima o poi mi sarei ritagliata nel mondo del lavoro. Feci queste esperienze formative nell’ambito delle ludoteche e dei musei, pensai che dopo, una volta formata avrei potuto lavorare ma il sistema mi stritolò nel marchingegno della flessibilità. Nessuno mi assunse perché quello stage non era un rapporto di lavoro, non avrei mai potuto rivendicarlo durante un concorso. Inoltre perché assumere una persona dopo averla formata? Il tirocinante è molto più conveniente di un lavoratore. Dopo il primo tirocinante ne subentra un altro, poi un altro, poi un altro ancora. Tutti vengono formati ma nessuno viene assunto. La mia gloria di lavorare per la cultura a gratis fece a pugni con i bisogni fisiologici della mia vita: bere, mangiare, pagare le bollette. Cercai un lavoro che non c’entrava nulla con i miei studi e con le mie aspirazioni pur di mantenermi. Visitai i centri servizi per l’impiego. All’inizio mi diedero molta fiducia, visti da fuori sembravano palazzoni moderni. Dentro lampadari in stile minimalista IKEA, poltrone basse e verdi, gli annunci speranzosi di lavoro appesi alle bacheche. Una mattina mi presentai con il curriculum in mano, mi avevano fissato un appuntamento. Un esperto di politiche del lavoro sarebbe stato lì, al mio servizio, a sfoderare le sue competenze sperando di affinare le mie. Il giorno della convocazione entrai dentro l’ufficio, notai riproduzioni di Mirò appese alle pareti. L’impiegato era un signore distinto e gentile. Ci presentammo e mi fece accomodare. Aveva già preso visione del mio curriculum che precedentemente gli avevo spedito via mail. Gli spiegai che avevo bisogno di mantenermi da sola, vivevo lontana dalla mia famiglia. Avevo portato centinaia di curriculum di persona nelle profumerie, nei supermercati, nei bar, nelle aziende. Cercavo un lavoro qualsiasi: cameriera, donna delle pulizie, segretaria, centralinista, commessa. Nessuno mi chiamò. L’impiegato cominciò a sfogliare il curriculum che avevo portato.
“Ci credo che non l’hanno mai chiamata, il suo curriculum così strutturato non va bene!” mi disse.
“In che senso non va bene?” domandai cercando di capire meglio.
“Deve tagliare molte parti, così preparata e qualificata non la chiameranno mai soprattutto per un lavoro non qualificato. Tolga la laurea specialistica, tutti i corsi di formazione, il diploma di master, dichiari la conoscenza dell’inglese a livello scolastico e basta” sentenziò. Rimasi stupita ma annuì e gli dissi che avrei seguito i suoi suggerimenti.
L’impiegato non si arrestò ma continuò a elencarmi tutte le nuove forme del mercato del lavoro:
1. Lavoro a progetto
2. Lavoro Co.Co.Co
3. Lavoro ripartito
4. Lavoro intermittente
5. Lavoro accessorio
Pensai alla prima tipologia, alla bizzarria di intendere il lavoro come un progetto e non come una scelta di vita. L’altra opzione mi ricordò il verso delle galline e in maniera pregiudiziale il suo nome mi fece ridere e non lo presi troppo sul serio. Il terzo tipo di contratto mi diede la concezione della condivisione (già era difficile trovare un lavoro….se poi dovevo pure ripartirlo?! Ma soprattutto ripartirlo con chi?). La quarta opzione mi ricordò la stabilità delle lampadine e mi fece venire in mente che di intermittente fino a quel momento io conoscevo solo le luci. Infine quello che mi stupì più di tutti fu l’ultimo, il lavoro accessorio. È una novità pensare al lavoro come a un accessorio come se fosse un orologio, un bracciale da infilare e sfilare e non un bisogno fisiologico, una necessità impellente e soprattutto un diritto per l’uomo. Tutte queste forme contrattuali o quasi, sono accomunate dall’ebbrezza della temporaneità, inaugurano il “Carpe Diem” nel mondo del lavoro, trascurano diritti fondamentali come la tutela delle malattie, cancellano il concetto di ferie retribuite e di maternità. Appena fu possibile, con una scusa mi congedai dall’impiegato che mi accompagnò alla porta annunciando:
“Sa signorina, queste nuove tipologie lavorative servono per rispettare le politiche dell’Eurozona” e io gli risposi abbottonandomi la giacca:
“Signor Rossetti, conosco il patto di stabilità. È stato stipulato e sottoscritto nel 1997 dai Paesi membri dell’Unione Europea e riguarda le politiche di bilancio pubblico. Bisogna mantenere fermi i requisiti di adesione all’Eurozona. È buffo però pensare come questo patto di stabilità andrà a minare la mia di stabilità, quella economica e personale ed insieme a me, la stabilità di un’intera generazione”.
Il signor Rossetti restò a bocca aperta.
“Ma …ma…” cominciò a farfugliare. Non gli diedi modo di controbattere, gettai il mio curriculum nel cestino, gli dissi “Buongiorno e buon lavoro” e mi diressi veloce all’uscita.
Andai a prendere l’autobus per tornare a casa. Mi sentì ridicola durante l’attesa dei mezzi pubblici, conciata in quel modo: con le scarpe con il tacco, la gonna e le calze velate. Mi appoggiai alla pensilina e notai un foglio appiccicato con un annuncio:
“Cercasi ragazza seria e affidabile, amante della lettura e dell’arte per svolgere la mansione di dama di compagnia/NO BADANTE. Chiamare Piero, dopo ore pasti”.
Alla fine del foglio erano stati ritagliati tanti piccoli rettangoli con il numero di telefono. Strappai l’annuncio intero e lo infilai nella borsetta.
“E se questo annuncio nascondesse al posto della dama di compagnia la ricerca di una prostituta? Era strana la selezione di una dama di compagnia in questo periodo di crisi…una badante sarebbe stata normale ma nel foglio era specificato NO BADANTE” pensai. Non volevo mettermi in altre situazioni spiacevoli dal momento che stavo cercando assolutamente di andare via dallo squallore delle frasi e delle mani del signor Remigio.
Eppure un sesto senso mi diceva di chiamare. Attesi il primo pomeriggio, composi il numero, il cellulare squillò a vuoto quando sul punto di chiudere mi rispose una voce cristallina:
“Pronto?” e dopo un attimo di esitazione risposi:
“Si…pronto, sono Irene, sto cercando il signor Piero”
“Si, sono io mi dica”
“Sto chiamando per l’annuncio di lavoro relativo alla ricerca della dama di compagnia” dissi.
“Si, bene….io sto cercando effettivamente una dama di compagnia, una persona che ami leggere, visitare le mostre e i musei per trascorrere i pomeriggi insieme a me”.
“Io potrei essere la candidata perfetta allora, amo leggere e adoro visitare le mostre e i musei” dissi.
“Bene” esclamò Piero “allora le andrebbe di vederci domani pomeriggio in un bar per conoscerci e prendere un caffè insieme?”
“Certamente” risposi.
“Allora ci vediamo al Caffè Amoroso di Piazza San Giovanni, lo conosce?” mi chiese
“Si si lo conosco” lo rassicurai “a che ora ci incontriamo?” proseguì
“Alle tre Irene, se per lei va bene” disse Piero
“Va bene, a domani allora” lo rassicurai salutandolo
L’indomani mi recai al Caffè Amoroso in anticipo, erano le tre meno dieci. Non avevo chiesto indicazioni sull’aspetto fisico e in quel momento pensai a come avrei potuto riconoscerlo. Guardai dentro il bar e seduti sulle sedie rosse e i tavolini di legno vidi solo un gruppo di quindicenni chiassose e un ragazzo con la barba scura che teneva tra le mani una tazzina di caffè ma senza bere. Diedi uno sguardo annoiato alle vetrine affianco al bar: borse, scarpe, bigiotteria. Alle tre e cinque chiamai Piero. Mi misi dentro al bar, vicino all’ingresso per osservare fuori il suo arrivo eventuale. Udì un trillo dietro le mie spalle ma non ci feci caso. Mi rispose una voce diversa da quella del pomeriggio prima:
“Pronto Piero? Sono Irene e mi trovo al Caffè Amoroso per l’appuntamento, stai arrivando?” mi sincerai
“Ciao Irene” mi rispose una voce che proprio mi spiazzò “girati un attimo per favore, guarda dietro le tue spalle” proseguì quella voce. Mi girai e vidi il ragazzo con la barba che avevo notato prima, alzarsi dal tavolo e farmi un cenno con la mano.
Mi avvicinai perplessa, intanto entrambi chiudemmo la conversazione dai nostri cellulari.
“Ciao Irene, io sono Federico, il nipote di Piero”.
“Siediti prego, ora ti spiegherò tutto” mi sedetti senza riuscire a pronunciare ancora una parola, incuriosita e ostinata a capire perché Piero, l’autore dell’annuncio non si fosse presentato personalmente all’appuntamento. Quel giovane uomo che avevo davanti però non mi dispiaceva affatto, aveva una faccia particolare, due occhi che sembravano due pezzetti di carbone ardente, le ciglia folte. Quando sorrideva gli occhi vivaci diventavano due fessure sottili. Portava la barba e i baffi. Le labbra erano carnose, violacee, perfettamente disegnate. Assomigliava a Freddie Mercury, il mio mito adolescenziale. Sopra il labbro superiore s’inerpicava una cicatrice spessa fino all’attaccatura del naso. Pensai che fosse nato con il labbro leporino. Dopo, in piedi camminando avrei notato una clavicola più corta dell’altra che gli donava un’andatura un po’ sbilenca. Mi ricordò mio nonno e quell’incidente in miniera che gli abbassò la spalla.
“Irene, io mi chiamo Federico e sono il nipote di Piero. Mio nonno ha 85 anni. Tutta la vita ha fatto il viticoltore e ora è in pensione già da diversi anni. Spesso continua ad andare in campagna ultimamente però si è appassionato di lettura e di arte. Ha bisogno di una persona che conosca queste materie, con cui discutere di libri e di poesie e che lo accompagni a visitare le mostre. Soprattutto ha bisogno di una persona che usi il cuore più che gli occhi con lui. Per il resto mio nonno è una persona indipendente, affettuosa e molto spiritosa. È rimasto vedevo giovanissimo, dopo pochi anni di matrimonio e non si è mai risposato. È particolare, è fissato con certe sue concezioni della vita ed è per questo motivo che non abbiamo trovato ancora una persona giusta per questo lavoro. Il colloquio con lui sarà decisivo, durerà solo pochi minuti. Non è qui Piero perché il colloquio si svolgerà a casa nostra dove lui ci aspetta, dove l’accompagnerò se lei vorrà. Io vivo ancora con lui ma sono fuori tutto il giorno per lavoro. Sono un ingegnere per l’ambiente e il territorio”.
Ero un po’ stranita ma il mio sesto senso ancora una volta mi suggeriva di fidarmi di tutta quella bizzarra situazione. Ci pensai un po’ e poi risposi a Federico:
“Va bene, accetto ma il colloquio lo vorrei fare subito e per favore diamoci del tu”, Federico sorrise, annuì, chiamò il cameriere e ordinò un altro caffè per me. Nell’attesa parlammo del più e del meno, poi pagammo e ci dirigemmo a casa sua. Un vialetto alberato accoglieva i visitatori. La casa era grande, dipinta di bordeaux con le finestre in legno nero. Federico aprì senza suonare il campanello. Entrammo e mi piacque subito quella casa. Un ampio salone dava il benvenuto, il parquet, un camino acceso e alto dove potersi sedere all’angolo della stanza. Librerie a muro ma libri sparsi ovunque. Un mazzo di fiori freschi troneggiava al centro della tavola. Di spalle, seduto su una vecchia poltrona un uomo guardavo il cielo apparire alla finestra. Ne intravedevo i capelli canuti, le mani rugose appoggiate sui braccioli della poltrona, il collo avvolto da un foulard. L’uomo seduto sentì il rumore dei nostri passi e con voce allegra ci diede il benvenuto ma senza voltarsi:
“Ciao Fede e ciao Irene, tu devi essere Irene vero? Benvenuta, io sono Piero” proseguì.
“Ciao! Si, sono io Piero, sono Irene” dissi.
“Irene togliti il cappotto e avvicinati alla finestra che trovi sulla destra, subito dopo l’ingresso per favore” mi disse Piero. Vidi subito la grande finestra sul muro, mi sfilai il cappotto rabbrividendo e mi chiesi perché si ostinava a rimanere seduto. Fuori ululava un vento gelido, mi avvicinai alla finestra, come mi aveva chiesto.
“Sono vicina alla finestra come mi hai chiesto Piero” dissi.
“Bene” fece lui “ora guarda fuori e dimmi cosa vedi”.
Mi proiettai con lo sguardo fuori, aveva appena cominciato a piovere.
“Fa freddo, tira vento e piove” dissi lapidaria ma Piero non s’accontentò e mi incalzò:
“Non avere fretta, prenditi il tempo che ti serve. Guarda bene, non limitarti a vedere”.
Non capivo il senso delle sue parole ma seguì l’istinto. Con la manica del maglione lavai via la condensa umida dal vetro così potevo osservare meglio. La finestra dava proprio sulla strada, di fronte si stagliavano due case: una grande, con un giardino ben curato e un albero di fico e alcune palle di plastica abbandonate, l’altra piccola e accogliente, con un grande lembo di alberi e fiori ma trascurato. Potevo vederle bene le case perché distavano veramente pochi metri.
“C’è vita qui fuori, fa freddo, il vento fa inchinare le fronde degli alberi. Di fronte a lei vive una famiglia, sicuramente sono sposati da pochi anni e hanno figli piccoli. Il giardino è ben curato e il marito si dedica al giardinaggio nel fine settimana con la moglie. Intermezzano i lavori dedicandosi ai loro bambini e giocando con loro. Affianco vive una signora anziana, sola. Me lo dice la sua casa piccola, troppo piccola per una famiglia numero...

Indice dei contenuti

  1. Capitolo I
  2. Capitolo II
  3. Capitolo III
  4. Capitolo IV