CAPITOLO 1
E diventiamo dissolvenza, poi creazione
Ho bisogno di una sigaretta.
Ma non di quelle statiche, ammassate come capi di bestiame in un pacchetto rigido. Una spolverata di tabacco vero, quando le dita risvegliano il tatto, e si immergono in un piccolo piacere. Carta velina a filtrare un odore, fino ad abbracciarlo piano. Quando la accendi non aspiri subito, con la bramosia di farla tua, la guardi arrossire fino a incendiarsi.
E lì, in quell'apnea di sensi, esplodi.
Sono seduto su questo terrazzino, su uno sgabello di carta pesta appesantito dall'umidità. Intorno una pace di forma, so che durerà poco, il tempo che albeggi. E allora la gusto di più.
Passa un ragazzino che sa di salsedine. Capelli arruffati e occhi di sale.
Poco più in là l'uomo delle pulizie. E' come per il pane, dev'essere pronto prima che la gente decida di lievitare in giudizi affrettati. La pensione è il palazzo accanto, familiare quanto l'alta stagione. Profuma di camelie, però.
La spiaggia ancora si gode la sua coperta di sabbia, nella brezza del mattino. La vedo distesa su un fianco, con la sua anca morbida, a scalciare qualche sogno. Nessun cassetto dove nasconderlo, ma un moto di versi che va e viene come la marea.
Non parlerò del mare. Quella distesa dolce-amara che tutti ci sentiamo in bocca. Parlerò invece del suo tocco, laggiù oltre lo sguardo, dove l'acqua perde consistenza, cambia, forse evolve. Sì perché il contatto è evoluzione. C'è una linea, non è retta ne sono certo, ma così appare. La linea accompagna, solletica, lusinga. Prega, ma senza la presunzione di invocare un qualche dio.
E' dissolvenza, e poi creazione.
Non mi piace la parola orizzonte. Sa di confine. Mi piace la parola prospettiva. Sa di inizio. L'inizio è una cosa strana, non ho bisogno di guardarlo per capire com'è stato, lo so. E il mare, quell'abnorme e altezzosa vallata piena di sé, inizia le sue giornate con un istante di fragilità. E verità. Il mare tende piano la mano, quando la terra ancora dorme, con prudenza, sottovoce. Timido di fronte all'immortale, che è cielo. Infinito no, è una parola che mi fa paura.
Il cielo è tutta un'altra storia. Risoluto, temperato, più affidabile. Può piangere, sì, ma ti avverte. E non ha paura di appoggiarsi, di chiedere aiuto, al mare, alla terra. A noi.
Alla mano tesa risponde, e non è stretta, è carezza. E allora eccola, la prospettiva, quando il colore si mescola e si emoziona. Non è più azzurro di me quando mi innamoro.
Lei è bellissima, non ho bisogno di voltarmi a guardarla, lo so. E' il mio inizio, tutte le mie fragilità.
L'ho toccata come fa il mare, insicuro, imbarazzato, con lo sguardo basso di chi teme un rifiuto. Il sole era ancora sottosopra, credo non si abituerà mai all'onere che gli abbiamo affibbiato. Nascere e morire ogni giorno, e nella manciata di ore in cui vive, brillare.
Tu lo faresti?
La linea iniziava a comparire, leggera, come tutte le visioni, in bilico, come i miei piedi sulla banchina della stazione. Sapevo che il treno sarebbe arrivato nel giro di poco, un'ellisse di secondi, e poco era il tempo che mi rimaneva. Quello sì che era un confine. Poi il fischio d'inizio che rompe l'attesa, e ti senti pieno, poi vuoto, poi ripieno, poi sottovuoto. E non è adrenalina, è vita. Corri come un pazzo azzardando una mossa, ma è rallentatore. La mano si muove piano, scuotendoti forte. Poi lei ti bacia, come una notizia inattesa.
Non ho preso quel treno, io vivo di impulsi brevi. Ho scelto una strada senza binari, di quelle che vedi in campagna e non sai se ti porteranno a una fattoria disabitata oppure a una tangenziale verso una grande città. La mia, di strada, mi ha portato qui, su questo terrazzino, in una mattina umida di primavera a gustarmi il mare, il cielo, la spiaggia, il ragazzino di sale, l'uomo delle pulizie, la pensione e tutto il resto. Tutto il resto è la donna che è sdraiata dietro di me, sotto un lenzuolo di attenzioni.
Nella sua borsa c'è una bustina di tabacco e non resisto. Spoglio il pacchetto come si fa con un rito, liberandolo, senza storie, senza scuse. Senza piegare i vestiti sulla sedia di fianco al letto. Non è una spinta, il vizio dell'avere sempre qualcosa tra le mani, è semmai slancio, emotivo, viscerale, denso.
E appoggio il suo corpo su una cartina che non vuole guidarlo, ma accompagnarlo. Lo avvolgo, delicato e robusto, fino a dargli una nuova forma.
E diventiamo fumo. E diventiamo dissolvenza, poi creazione.
E facciamo l'amore.
CAPITOLO 2
E leggiamo romanzi d'amore
Sono passati trent'anni.
Ne avevo sette, quando mio padre mi accompagnò qui. Ricordo l'odore di resina e l'aria umida del mattino. L'autunno stava cominciando.
Mi diede una pigna.
Intorno qualche arbusto e di fronte a me un tronco, enorme, imperiale. Era impeto, di crescere forte. La corteccia non era legno ma corpo, vivo. Respirava, lo capivo dalle ombre mosse sulla sabbia.
Sembrava aver visto il mondo, lui. Me lo immaginavo camminare, in una campagna di molti anni e molti spazi fa, e osservare. Ogni sguardo lo riempiva di linfa. Poi era tornato. All'origine, come cerchio che cerca i sassi lasciati sulla strada per ritrovarla. Casa.
E qui aveva messo radici, come ogni uomo che accetta un consiglio.
La testa era gonfia, gravida di pensieri. E loro, i pensieri, fuggivano qua e là, come rami intrecciati. Pareva fungo e cappello, ombrello e campana di vetro.
La luce filtrava, leggera, fino alla retina. Poi abbagliava, per non lasciarsi prendere. Ho cercato di afferrarla tante di quelle volte.
Mi ritrovai la pigna tra le mani, e mio padre a scartare la curiosità. La aprimmo, petalo dopo petalo, e poi sì, uscì un po' d'amore. Tenevo i pinoli come le mie biglie di vetro, prima di perderle in un tiro sbagliato. Paura, freno, eccitazione.
La terra non sembrò inghiottirli, come una bocca affamata di perle e parole vuote, li raccolse piano, accolse, nel suo ventre di madre. Quelli piano si lasciarono prendere, erano imperfetta metà di una perfetta unione. L'incontro fu breve, e poi eterno.
Stavo andando in altalena con Luis. Luis ha tredici anni, almeno quelle sono le estati che gli conto addosso. Profuma di arbusto spontaneo, quell'odore che ti entra nella pancia e non lo togli più. Ha sempre una maglietta bianca stropicciata, come un viso appena sveglio. E gira scalzo, perché vuole sentire, quando la sabbia, sottovoce, gli parla.
Arrivò mio padre, saranno state le dieci. Era un mattino morbido. Non saprei dire se luminoso o introverso, ricordo che era morbido. Lui non vede Luis, e questo mi piace. Ho la sensazione di poterlo tenere con me. Non siamo soli, siamo due.
Mi portò in moto fino al vecchio orto, nessuno ci metteva piede da anni. Aveva una piccola porta di legno, che non era cancello ma spiraglio. Nel tempo. Iniziava con le spezie, perché non era da mezze misure, poi aggirava qualche fiore in una curva curiosa verso quel tutto. Il mare. In fondo al terreno, a fissarlo nostalgico, c'erano due pini marittimi. Solitari e affollati, di speranze, appartati e vicini, come due mani in tasca che cercano un varco nel tessuto.
Sapevo chi avevo davanti. Una tradizione. La storia. Mio padre e il suo di tante vite fa.
Mio nonno era il vecchio che leggeva romanzi d'amore. Se ne stava seduto lì, sotto il suo albero, con un taccuino sdrucito e un accordo intimo con i ritmi della natura. So che una volta scriveva, prima della fabbrica, so che una volta è stato padre, prima della guerra. Ora tra noi è rimasto solo Luis.
Abbracciai la mia pigna come se scrivessi t'amo. E la lasciai andare libera, perché questo, forse, vuol dire amore.
Ho visto tante facce passarmi davanti. Se ci penso, mi sembra una pellicola ciclica che va, poi si inceppa e ancora gira. A volte sembra sole, ma lui no, non si ...