La sera azzurra
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La sera azzurra

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La sera azzurra

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Informazioni sul libro

La nostra è la generazione dei voli low cost, delle boy band, dei centri commerciali dove comprare tutto quello che non ci serve, del crollo del muro di Berlino e della fine delle ideologie politiche. La nostra è la generazione del disimpegno, dell'individualismo esasperato, e di qualcos'altro... dell'ansia di vivere, del bisogno di amare, dei sogni sempre interrotti, della rabbia che diventa disillusione e infine solitudine.
La nostra è la generazione di Azzurra.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788868826635

Capitolo I

Erano gli anni in cui ognuno di noi
assumeva la propria piega vitale;
ciascun bozzolo spigoloso e basculante,
appeso a un cordoncino elettrificato,
si modellava con fatica
per schiudersi in un'estate svogliata.
Maree buie sottopelle
mandavano segnali a ritmo di samba,
dilatando ogni poro a cratere
ricettivo e suscettibile.
Erano i lunghi giorni
del soleacquaventograndinate nelle ossa,
a botte di sconfitte, divenendo più forti.
La cucina con camino dei nonni materni era piena di gatti di polvere.
Nonna Rina aveva perso quasi del tutto la vista e si accaniva con lo scopettone a tirar via una serie di ragnatele inesistenti, mentre malloppi di capelli crespi, cenere e lanugine indefinita albergavano placidi sotto le sedie in vimini. Ero troppo pigra per aiutare nonna nelle faccende domestiche e poi mi piaceva molto quella sfocatura diffusa fissata sui pavimenti trascurati. Mi pareva a tratti di camminare sulle nuvole.
Ceci, pane scuro con butirro e ricotta impastata con miele d’arancio a chiudere regalmente il pasto consumato davanti alla telenovela di grido… una squadra di ninfomani portoricane che fanno il cambio campo con una dozzina d’amanti villosi e burberi. Fughe d’amore e una eredità (l’unica cosa che sei sicuro rimarrà di te, quando sarai morto) contesa. Furibonde copule rimirate tra una cucchiaiata e l’altra, ingoiando, bofonchiando e stuzzicando a più riprese con la lingua un minuscolo canino scheggiato.
Da fuori, giungeva ipnotica l’eco dei richiami salmodianti delle madri dei bimbi attardatisi a giocare a palla avvelenata nel cortile racchiuso tra le palazzine giallo marcio di via delle Selci: l’invito alla preghiera di un muezzin dal minareto.
Era il dicembre del 1991 e, nel pomeriggio fosco, una luna grassa e cieca non ce la faceva a penetrare le serrande abbassate della stanzetta dove un po’ studiavo e un po’ cianciavo, la bocca schiusa, la mascella puntuta abbandonata, una goccia di saliva a solleticarmi il profilo svagato. Macchinavo alla luce di una abatjour arrugginita, sospirando e grattandomi di tanto in tanto un polpaccio foderato di finissima peluria bionda e tra un sogno lucido e l’altro, animavo ghirigori sul quaderno a righe larghe unto di focaccia.
Pensavo alla morte.
Se quando uno muore, a esempio, si dissolve in parte dentro le persone che ha amato, così che queste ne prendono le abitudini, o se sono le persone che hanno amato chi è morto che si disfano pian piano, perché s’avvicinano sempre più alla morte, e acquisiscono le abitudini del caro scomparso, perché questi manca loro così tanto.
Pensavo all’amore.
Cavalleresco ed esasperato, privo di zone buie, zuccherino eppure sensuale, mai pacchiano, mai fiacco. Un amore da romanzo classico, e io ero una paladina temeraria, mascolina, che con poteri magici sorprendenti eludeva le circuizioni dei malvagi espugnando, infine, un etereo tesoro.
A tirarmi giù, talvolta per le orecchie, dai miei castelli in aria, ci pensava nonna Rina. Ero solita sostare, nei pomeriggi tediosi, a casa dei nonni; i miei genitori erano legati alle rispettive occupazioni, soprattutto mamma, mattina e pomeriggio in negozio, e non potevano badare a me. Nonna Rina, invece, rimasta vedova prestissimo, ancora trentenne, aveva piacere a tenermi con sé, le ero di gran compagnia. Il nostro quartetto famigliare si riuniva alla sera e prima della cena – i surgelati dai nomi vezzosi imperavano –, dovevo superare l’esame pignolo dei compiti per casa. Ero brava e solerte, ma disattenta e a ogni piè sospinto capitava che scambiassi i compiti per il giovedì con quelli per il sabato e la maestra Ilde, paranoica arpia, credeva che mi pigliassi gioco di lei quando genuinamente ammettevo le mie lacune mnemoniche. I pettegoli raccontavano che fosse sempre così astiosa perché era stata abbandonata, praticamente sull’altare, dal fidanzato che, si era poi scoperto, aveva messo incinta una minorenne. Per evitare dunque dissapori e complicazioni, mio padre, soprattutto, giornalista per un quotidiano locale, passava in rassegna con scrupolosità i miei quaderni, e di frequente si trovava a rimproverarmi per le barocche cornici di svolazzi con cui ingentilivo le pagine dapprima smorte. Era una guerra ad armi impari, perché mai avrei rinunciato ad abbellire con ostinazione tutto ciò che reputavo e reputo amorfo, mondandolo della caratteristica mestizia. Fantasticare era, per me, l’estremo rimedio per salvare la ghirba.
Nonna Rina era sostenitrice accanita di detti popolari che snudavano l’arma della malinconia – La felicità è quella distanza tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Più è lunga, meno siamo felici – o rimarcavano con veemenza la rilevanza dello studio, della precisione e della puntualità – Fai oggi presto e bene, ché domani ti conviene – ma più spesso sbottava in improperi meno specifici e più efficaci.
“Azzurra, non fare la scema ché le prendi! Tuo padre ha detto che fino alle sei devi stare qua a studiare e non intendo sorprenderti ancora con la bocca appesa che conti le mosche sul muro… Azzurra! Sono stata chiara?! Non voglio tornare per beccarti un’altra volta a cincischiare!”
“Ti basterebbe non tornare un’altra volta!”
Sgobbavo crudelmente per contrastare quel serico sbuffo che mi portava via, fulmineo e a intervalli precisi, dal mio mondo e dalle sue suppellettili, dai fogli di carta, dalle penne profumate, dalla gommina rosa a forma di ippopotamo, dal vetro appannato che dava sul vicolo di sampietrini, da quel poster gonfio d’umidità, accollato al muro verde acqua, figurante un giovane cantante platinato, inequivocabilmente poco talentuoso.
Non praticavo molto sport, mia madre mi aveva iscritta a ginnastica artistica ma era risultato subito palese, dato che mi era impossibile finanche saltare il cavallo, l’arrampicata sulla fune si fermava al primo step e i miei tentativi di fare la ruota si riducevano a buffe capriole con conclusioni distinguibili sulle ginocchia maculate di lividi, che non era l’attività sportiva più adatta a me. Poi, il costo della retta, in palestra, era esorbitante, così i miei genitori, i nonni e svariati zii, in concerto, mi convinsero che, sì, di sicuro, slanciata e robusta com’ero, sarei diventata una vera campionessa di nuoto. Potevo allenarmi liberamente a mare. D’estate. Gratis.
Presi quell’invito sul serio e, per almeno cinque anni, trascinai i miei genitori, dalla chiusura delle scuole alla riapertura in settembre, ogni sacrosanto giorno a mare.
Ogni quarto d’ora, poi, invocavo la mamma, alle prese con un olio abbronzante dall’aroma agrumato, con l’ineluttabile locuzione preadolescenziale…
“Maaaammaaaaaa, guarda che so fare!”
e giù sotto i cavalloni, col sentore di sale e alghe sulle gengive e i polpastrelli tumefatti dai lunghi bagni.
Il mio corpo cresceva in fretta, robusto, e ammorbidito dal peso di qualche chilo in più. I miei familiari sono sempre stati “malati di cibo”. Un timore enorme tutto concentrato sul mangiare. E, tre volte al giorno, a ogni pasto, l’angoscia sfociava a fiotti. Ricordo che a scuola ero l’unica a non portarmi dietro la merendina per l’intervallo. Mi vergognavo già. Associavo il cibo al nascondimento, a piaceri da gustare da sola, pena la derisione, l’avvilimento, le gridate di qualcuno che forse mi voleva più magra, per volermi più bene. Da settembre a maggio, a ogni modo, i pomeriggi colavano pigri e placidi, solo con un po’ di paura, alla sera, per le potenziali interrogazioni del giorno dopo.
Latte caldo con pane, la zuppa della buonanotte, latte freddo con pane, il croccante buongiorno; un giorno dopo l’altro, con la Barbie Regina delle Nevi e il suo abito di piume bianche e cristalli sempre nella tasca dello zainetto blu, a vigilare sugli occhiali dalla montatura fucsia di celluloide e dalle spesse lenti che non volevo più indossare. Una visione offuscata di me e del mondo, poi, trovavo che mi si addicesse maggiormente.
Bambina, ti accorgi di esserlo quando ti regalano una borsa e non hai niente da metterci dentro, e te l’appendi al collo come una sciarpa. Nel mio caso, già dai sei anni, giravo come un mulo da soma, tirandomi dietro ovunque volumi di storie a fumetti e svariati romanzi, scatoline contenenti piccole reliquie di carta o di zucchero, cambi d’abito e spazzolino e dentifricio (alla fragola) per ogni evenienza. Di sicuro non mancavo di spirito d’avventura, vagabonda per le strade del centro.
Ed era una cittadina, la mia, di tornanti incastonati di fiori di plastica. In quelle curve storpie, gettate su terribili dirupi, molti corpi avevano attraversato il guado e, solo un istante prima, avevano levato gli occhi a un sole che spillava nel mare. Nella parte più vecchia del paese, profumato di salvia, vino rosso zuccherino e lavanda, anziani dai musi grigi, stropicciati, giocavano a carte con la morte, sul tavolino sghembo del bar Delizia. Se passavi, straniero, cinquecento paia di occhi ti tagliavano a fette; occhi ingordi di assimilare la tua diversità per studiare un antidoto. Ragazzetti appresso a bici sferraglianti giù per la ghiaia che portava alla chiesa, bambine che tessevano crini di bambole con un’orbita vedova. Il parroco e il sindaco, nella piazza maggiore, all’ombra del monumento ai caduti. Questo rimaneva, i caduti e le loro effigi glassate d’escrementi di colombi, di una guerra che aveva sancito la nostra estraneità dall’Italia, da noi stessi.
E poi c’era il panico. Oppure, era solo inquietudine. Voglia di scappare, lontano, che scattava indifferibile quando i miei genitori litigavano. I motivi mi erano oscuri ma, tra un urlo e una pausa silenziosa, intuivo che il lavoro a mio padre non stava andando bene e, certo, solo con i soldi di mamma non ce l’avremmo fatta. Temevo sempre il peggio. Così piangevo, forte, fortissimo. Correvo per la stanza sbattendo come un birillo contro i muri, la scrivania, il lettino, le sedie. Colpivo forte le pareti color crema con i palmi delle mani, come a dare degli schiaffi. E con le mani mi pestavo la testa, volevo coprire quegli strepiti. Ne conseguiva che mia madre, Giorgiana, esasperata e rossa in viso, mi veniva a schiaffeggiare per farmi rinvenire da quella trance violenta. Poi diceva “Fai così perché vuoi attirare l’attenzione di tuo padre, eh? Poi la colpa è tutta mia, no? E se la prende con me!” e un ricciolo bruno, fuggendo alle fauci della molletta, le spioveva sulla fronte sudata. Quindi, chiudeva il discorso tappandomi la bocca con un ceffone bruciante. Il rapporto tra me e mia madre era più o meno così: qualsiasi angoscia le confidassi, qualsiasi problema, lei sospirava con un mezzo sorriso che mi lasciava intuire che i miei crucci erano bazzecole e che lei, al posto mio, li avrebbe risolti con uno schiocco di dita. Perché lei era più forte, più grande, più in gamba. La mia reazione era ambivalente: da un lato, mi sentivo protetta in toto da una madre inflessibile che mi avrebbe salvata da ogni pericolo, dall’altro sentivo che, da sola, mai avrei potuto andare avanti perché, soprattutto, ero così sciocca da angosciarmi per inconvenienti veniali. Mio padre, Ludovico, aveva invece sempre in punta di labbra una soluzione, la esponeva con tono arrogante, come a dire “Io faccio meglio di tutti”… Io lo prendevo in giro, o mi arrabbiavo per le sue ingerenze e, in quei momenti, mia madre guardava la scenetta divertita ma, appena terminavo lo sfogo, mi rimbrottava lesta intimandomi di non parlare a quel modo a mio padre, che non era rispettoso. La confusione in me cresceva, soprattutto in merito alle mie potenzialità e ai miei limiti.
Quella distanza dalla felicità, di cui parlava nonna Rina, chissà quanto era lunga, per me.
Mio padre, Ludovico, che alle prime manifestazioni di pianto accorreva per alleviare il mio panico, nei mesi e negli anni diradò sempre più le incursioni nella stanzetta dai colori pastello, fino a turarsi le orecchie e il cuore. Sviluppò, a discapito del suo temperamento, di base mite e tenero, degli atteggiamenti secondo tradizione attribuiti al “padre padrone”. Alzava la voce, insultava, si ammutoliva poi con crudeltà, o forse solo impotenza. Mia madre, in un circolo vizioso, mi mandava da lui, che si chiudeva nella loro stanza da letto, per cercare di farlo rinsavire. Non cedeva. Era mostruosamente frustrante, mi sentivo di troppo, di disturbo. Peggio era averlo intorno mentre eseguivo i compiti di matematica. A ogni errore, mi dava della stupida, la faccia gli diventava paonazza, e io, ormai, piegata da spasmi di sgomento, davo soluzioni a caso ai problemi e alle operazioni, attirandomi altre offese e punizioni. Ancora oggi, se mi trovo davanti a un calcolo, anche semplice, nella testa mi si forma una nebbia compatta, e non ragiono più.
Dall’infanzia all’adolescenza il passaggio fu come clandestino… preferivo non badarci. Credevo che troppi “ti ricordi” rovinassero il presente. Maturai a rilento, in sordina, il bacino si dilatava in fuseaux stampati di cattivo gusto, il naso si acuminava denudando una personalità tenace, plausibilmente strampalata, i brufoli galleggiavano e affondavano, scarlatti e meravigliosi, sulla pelle delicata e sempre arrossata, per il caldo, per il freddo, per l’impiccio, per la rabbia, sicché le mie emozioni indistinguibili mi conferivano un’aura di mistero. I miei capelli, delle deliziose stelle filanti color ambra, erano un impalpabile sipario che mi difendeva dagli sguardi sconvenienti dei coetanei, dei parenti, degli insegnanti e dei ragazzi più grandi che incominciavano a individuarmi come preda eco-sostenibile nel loro rigido schema motorino/palestra/pub/liceo. Il filo conduttore che tenne insieme le mie età dai sei ai quindici anni era costituito dalla vasta produzione di diari dalla massa spropositata, nutriti di appunti, poesie, bigliettini d’ogni sorta, scontrini, inviti a mosce feste di compleanno, carte di caramelle alla cola, foto ritagliate e ricordini vari, persino un assorbente con l’involto lilla fregiato dalla dedica della mia compagna di banco, che mi augurava di usarlo in tempo in caso di necessità.
Vapori di birra doppio malto si attaccavano alle costellazioni di polistirene appese al soffitto della cameretta da bambola, un rifugio post atomico congegnato per proteggermi dalle incursioni nemiche. La rabbia degli anni Novanta, quel patetico, ibrido decennio, caratterizzato dall’affermarsi di produzioni artistiche di bassa lega, consumismo in aumento,
B E A U T Y
una linea piatta dietro l’angolo e l’insidia delle droghe già dissolte nei liquidi corporei delle vecchie generazioni, evadeva dalle mie iridi carbone. La colonna sonora dei miei giorni la pescavo nel passato; intrighi di chitarre elettriche sbrecciate e bassi lugubri mi si solidificavano sulle tempie lungo le notti insonni, abbracciata a un conigli...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. Capitolo I
  3. Capitolo II
  4. Capitolo III
  5. Capitolo IV
  6. Capitolo V
  7. Capitolo VI
  8. Capitolo VII
  9. Capitolo VIII
  10. Capitolo IX
  11. Capitolo X