1.
Dove si comincia a tradurre un dilavato e graffiato autografo
Tic, tic, tic.
Avrebbe potuto essere un pendolo, se solo il ticchettio fosse stato regolare e preciso. Invece, aveva l’irregolarità di una goccia che spunta dal soffitto, pigramente si ingrandisce e si concentra, fino a lasciarsi andare al grande salto che la porta a rimbalzare sul pavimento.
Tic, tic, tic.
Dopo un po’ di tempo, il pavimento, preso a lievi picconate in quella maniera, si incava fino a formare un piccolo vasetto, che accoglie le nuove gocce e le accumula in una piccola piscina per topolini. L’acqua ora continua a cadere ma non rimbalza più così in alto.
Plic, plic, plic.
Un rumore snervante, che mette a dura prova anche la più coriacea pazienza. Questo pensava, nell’ascoltare quell’aritmia cadenzata, Dante Del Mondo. Non pensava più granché bene, a causa di quell’incessante metronomo guasto: pareva che in tutto quel tempo le gocce avessero battuto non solo sul pavimento, ma gli fossero rimbalzate anche sulle tempie; sentiva le meningi erose alla pari del pavimento.
L’umidità, poi, gli anchilosava le articolazioni e gli sembrava torcesse le vertebre del collo e della schiena.
Da quanto tempo stava lì? Difficile a dirsi di preciso. L’unico contatto con l’esterno era dato da un’apertura nel muro, sulla parete di sinistra, in alto sopra la sua testa. Per quanto riguardava l’architetto, quello probabilmente era un desiderio di finestra; per Dante, non era che una feritoia più larga delle altre, abbastanza da fare entrare la pioggia che il vento schiaffeggiava dentro la stanza ma non abbastanza da potere contare albe e tramonti.
Se però non si voleva fare un calcolo preciso, sarebbe stato sufficiente valutare la lunghezza della barba, che ispida e riccia gli circondava il viso e le labbra. Oppure si sarebbe potuto misurare l’ammontare della sua sporcizia, che giaceva e si accumulava all’altro angolo della stanza. O ancora la lunghezza degli artigli di mani e piedi, non fosse che Dante li frantumava quando, in uno scatto di rabbia, colpiva le ruvide e umide pietre che lo seppellivano lì dentro.
I robusti anelli di ferro che gli stringevano i polsi, invece, non li sentiva quasi più. Aveva fatto l’abitudine alla pressione e all’irritazione degli angoli smussati. O forse, solamente la pressione era diminuita progressivamente al suo dimagrimento. Certamente, ormai conosceva bene la lunghezza della catena che li collegava al muro alle sue spalle, tanto che aveva preso come naturale limitazione di movimento il suo legaccio: come a nessuno verrebbe in mente di girare la testa come una civetta, così a Dante non veniva in mente nemmeno di protendere il braccio sinistro verso l’angolo destro della stanza.
Quella sera era piovuto da poco, e il ticchettio dell’acqua si era fatto più insistente di altre volte.
Dante Del Mondo decise di usare il vecchio metodo per non impazzire: ripensare alle circostanze che fin lì l’avevano condotto nella cella 41, ad almeno 25 metri di distanza dalle fondamenta della torre in cui era stato rinchiuso da quel periodo insondabile di tempo, una torre robusta, cilindro che si stagliava su un modesto isolotto a poche miglia dalla costa, che lampeggiava ogni sera in lontananza.
Il vecchio metodo cominciava proprio così: decidendo e ripetendosi che si sarebbe utilizzato il vecchio metodo, ripetendo le specifiche tecniche di là dove Dante il galeotto si trovava.
Conclusa questa prima fase, il prigioniero ripercorreva la scalinata che l’aveva fatto sprofondare lassù.
2.
Dove si scoprono i natali di Dante
Giorno più, giorno meno, Dante Del Mondo aveva pianto per la prima volta la notte di circa 32 anni prima. Chi lo avesse incontrato, una volta cresciuto, in qualche locanda, avrebbe appreso che – per quanto quella volta non fosse rimasta certo unica – non si ricordano molte altre circostanze che l’avessero indotto a piangere. E anche quella volta, ci teneva a fare presente agli astanti, probabilmente un ruolo importante l’aveva avuto la mancanza della luna: un povero bimbo spelacchiato esce, si aspetta chissà cosa dall’altra parte, luci colori musica profumi, magari mentre stava ancora dentro a nuotare nella placenta gli hanno pure parlato e promesso le migliori meraviglie d’Oriente. Poi invece esci, è buio e umido perché la notte è senza luna, è freddo e fuori nevica fitto, il primo odore che senti è la stanchezza della levatrice, l’aria ti brucia i polmoni. Naturale che sei seccato e ti chiedi chi te l’ha fatto fare.
Sia come sia, Dante – cessato di piangere grazie alle braccia e ai seni di sua madre – si era trovato a essere il primo erede di un mercante, il quale in realtà aveva da diverso tempo l’età per diventare padre, senza che la sorte o la Provvidenza se ne fossero avveduti.
Con il mestiere del padre, la famiglia doveva girovagare spesso. Dante imparò ben presto a fare di conto, prima ancora che a leggere e – sempre a sentire le sue storie da locanda – perfino prima di avere compiutamente imparato a parlare. Balenava intorno i piccoli occhi verdi, cogliendo tutto ciò che vedeva di colorato e mobile sulla strada, attento ai particolari e mai svagato.
Gli piaceva il tintinnare delle monete nella borsa del padre, gli piaceva lo schiocco che producevano i baci della madre, gli piacevano le farfalle e i fiori a primavera e il caldo crepitio di un tronco fiammeggiante in inverno. Preferiva il caldo al freddo, ma non sapeva decidersi tra i porti di mare...