El Arco Iris
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El Arco Iris

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Informazioni sul libro

Una coppia in crisi dopo qualche anno di matrimonio. La storia di un weekend primaverile che li porta dalla Liguria alla Toscana e poi all'Umbria. Intricate vicende sullo sfondo di drammi interiori e temi sociali attuali. Personaggi e scene caratterizzati con il gusto dell'introspezione e della figurazione.

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Informazioni

 

1. I colori dell'arcobaleno

 
 
Scese la sera, portando con sé pace e malinconia. Letizia, seduta al buio nella sua stanza, sentiva muoversi la creatura che portava in grembo. Lesse la cartolina che veniva dalla Spagna, da una località dalle parti di Barcellona. La calligrafia era di Marcella. Lettere e punti rotondi sulle vocali. Era diventata una turista perfetta e visitava tutto quello che c'era da visitare finché non si stancava; le mandava sempre bellissime cartoline che raffiguravano scenari naturali. Forse per essere certa di sapere che, dopo aver voltato pagina dalla sua vita precedente, era diventata inaspettatamente una perfetta giramondo. Letizia voltò la cartolina e guardò di nuovo l'immagine. Una bellissima villa, ai margini di una strada. Immersa nella campagna spagnola. Proprio dal lato destro, dove la strada curvando si affacciava dolcemente sul mare, si alzava un arcobaleno. Anzi un Arco Iris, come si dice laggiù, molto nitido; poi subito un altro da sinistra. Sembrava quasi che si scortassero a vicenda. Letizia ripose la cartolina sul tavolo. Ricordò i momenti felici con Aurelio, la sua mente tornò a quando l'aveva conosciuto, a quanto si erano amati, a quando si erano sposati. Erano il ritratto della felicità, dell'amore perfetto che s’incontra una sola volta nella vita, anche se a un certo punto erano parsi esattamente quasi il contrario. Si ritrovava sempre più spesso a scrivere sul suo diario, sebbene non fosse più di moda. Per non urlare: per lei sarebbe stato maleducazione. Nella vita di tutti i giorni, i suoi occhi erano le sue parole. Esse avevano un linguaggio e un dizionario tutto loro, spesso erano più veloci della sua bocca a rispondere. Così, quando non sapeva bene cosa dire, o meglio, quando non sapeva cosa fosse giusto dire - perché c'era un'etichetta da seguire per discorrere educatamente, e lei, a quella lezione, purtroppo, era rimasta assente - le parole scrupolosamente registrate su quel diario parlavano al suo posto.
Letizia era poco più che trentenne, attraente e seria. Era snella, con belle mani affusolate e capelli biondi. Appariva una giovane donna sensibile e degna di fiducia, che curava i suoi doveri e il suo aspetto. In quel momento scoppiò a piangere, ripensando al giorno in cui il destino aveva deciso di incominciare a toglierle i suoi sogni. Un uomo che aveva lasciato una traccia indelebile nel cuore di chi lo aveva incontrato. Entrambi venivano da buone famiglie. Lei aveva studiato. Lui pure. Ripensò a quel viaggio e ricordò la determinazione dei loro primi anni di matrimonio, le certezze inconfutabili, l'ansia di crescere per diventare finalmente un tutt’uno.
Le tornò in mente la sua emozione impacciata di viaggiare per la prima volta con tutto in “regola”, ossia avendo consolidato i requisiti minimi di una vita tranquilla. Avevano viaggiato frequentemente, anche sin da quando si erano incontrati. Erano sempre stati una coppia di scavezzacollo. Si ricordava di Venezia: per lei il luogo più bello che ci fosse al mondo, dove erano stati in viaggio da fidanzati. Non si erano però limitati a quello. Ci fu quindi un viaggio in Francia, in una Parigi che magicamente la notte si animava, si trasformava, in cui i grandi artisti del passato prendevano vita. Senza contare tutti i successivi viaggetti spensierati, come due piccioncini innamorati.
Esplorarono isole esotiche, veramente degne di essere visitate, Komodo con i suoi draghi, Giava con il vulcano Bromo, i templi di Borobodur e Prambanan, le tribù e le barriere coralline di Sulawesi. Poi altre zingarate a maggiore portata di mano. Partenze avendo in testa le previsioni del tempo negative. La voglia di divertirsi e riposarsi. Erano infine andati alle Seychelles per trascorrere un viaggio di nozze durato dieci giorni.
Dopo, quell’incanto svanì; non riuscivano più a immaginare, con la naturalezza di un tempo, il loro primo viaggio da sposati. Al contrario dei cliché derivanti da una gettonata mitologia romantica d’impronta platonica, Letizia aveva scoperto presto che poi uomo e donna non sono tanto complementari, non diventano parti della stessa sfera alla ricerca di un’integrazione armoniosa. Aveva diuturnamente riscontrato, attraverso una lenta autoconsapevolezza, che tra uomo e donna c'è qualcosa che non va, che non si compone mai, c'è una differenza nelle singolarità che non si può assorbire, una permanente instabilità dovuta a diversi modi di vivere l'esperienza del sesso e dell'amore. Per comprendersi, era addirittura giunta ogni lunedì, dopo la pausa del weekend, ad affidarsi a una di quelle moderne figure, sostitutive del confessore, che con finto entusiasmo proclamano di accogliere, ascoltare e sostenere gli esseri umani. Nella tranquillità e nella riservatezza di una stanza, si concedeva un tempo soggettivo di quiete pacificante, confidente nella psicoanalisi e nella clinica di orientamento psicoanalitico applicata alle svariate circostanze in cui delle coppie fino a un momento consolidate e rodate entrano in crisi. Incontri all’insaputa del marito, che dunque ruotavano attorno a un argomento: l’amore. Non era l’amor cortese: quello del dolce stilnovo, delle trame dei film romantici e delle ballate della musica rock, per passare dalle epoche più lontane nel tempo al mondo d’oggigiorno. Sentiva un crescente bisogno di essere ascoltata, quasi come se ogni parola, in una sua presunta plasticità, divenisse apotropaica. Era vittima di un disagio così diffuso nella contemporaneità, per l’intensità di un dolore subdolamente crescente, quindi arduo da lenire. Parlare di se’, di quello che la faceva stare male, di ciò che la faceva patire oppure che semplicemente diveniva motivo di porsi delle domande in un determinato periodo. Mentre un tenue sole filtrava dalle tendine scorrevoli bianche, disegnando lame luminose sul pavimento, quasi impassibile, nel suo silenzio scorretto e innaturale, l’analista sembrava assentarsi tanto da costituire una delle barzellette circolanti sugli strizzacervelli. Il dottor Tarcisio Tracolli era capace di stabilire un’enorme giusta distanza dalla sensazione di pienezza strabordante, che ha un suo corrispettivo in arte in ciò che è definito “horror vacui”, vale a dire la pulsione del paziente a riempire, a saturare lo spazio psicologico d’immagini, di oggetti non figurati, di narrazioni. Ben lungi dall'essere un puro, cioè un eroe a tutto tondo, ma piuttosto un cinquantenne disincantato e vagamente disgustato da se stesso e dal mondo, Tracolli era un insigne analista a livello nazionale, che riceveva un solo giorno la settimana, nell’elegante studio di una struttura sanitaria privata, ubicata in un’avveniristica palazzina rifasciata di vetro e metallo, cangiante esteriormente con le vibrazioni della luce e l'intensità dell’azzurro del cielo. Così curato nell’abbigliamento - con una cromia giocata su gradazioni di rosso, ocra, blu e infine grigio -, raffinato nei suoi costumi, non avvezzo a viver di poco, quanto ingrigito a livello della passione, scarsamente operoso e assopito sulla propria poltrona, si guadagnava agevolmente il pane a botte di duecento euro la seduta. Senza peraltro offrire agli ignari utenti una fase di un ascolto attento ai dettagli oppure una prospettiva maggiormente dialogica e marcatamente volta all’interpretazione di un “filo logico”. Letizia pensava di ricevere beneficio, calandosi in quelle situazioni quasi caricaturali in cui Tracolli stava perennemente seduto dietro il lettino sul quale lei parlava con enorme pathos, non accorgendosi neppure del totale disinteresse da parte di questo strambo professionista per le esternazioni su cui costruiva il suo discorso. La realtà che lei rappresentava con un gioco di chiaro-scuro, accentuava i toni di un amore svanito, un desiderio affievolito, uno slancio erotico spento. In quei pochi ma importanti anni, aveva con Aurelio realizzato la condivisione della quotidianità, momenti passionali d’intimità; due vite da ancora costruire insieme, uno a fianco all’altra, nell’ambito di un progetto esistenziale ad ampio respiro. Tutto questo si sarebbe potuto dissolvere nel momento della separazione? Era conscia che stare meramente in totale silenzio, in assenza ormai di un dialogo vero con il consorte, rappresentasse il rischio di abbandonare se’ stessa a un destino ormai scritto. O quasi che già soltanto prevedeva, nell’incombere di un’esperienza che sarebbe stata per lei sconvolgente, della quale ancora in quell’istante ricordava i minimi particolari.
Ricordava con rabbia che proprio in quei momenti l’analista avrebbe dovuto manifestare la sua presenza accogliente e accesa, in grado di valutare il carattere di una persona, comprenderne gli stati d’animo e prevederne i comportamenti, non abbandonandosi invece a esibire la sua immagine caricaturale e degradata, la raffigurazione allegorica, folkloristica, tipica del mitopoietico mondo cinematografico, degli epigoni di Freud. Bluffatori travestiti da taumaturgi, più propensi a spillare quattrini che a dare risposte, che alimentavano le vecchie e mai sopite dispute sull’utilità o meno degli studi e delle pratiche inerenti alla psiche. Dopo che le apparve evidente che gli incontri con il terapeuta traducendosi in un susseguirsi d’istanti pieni, gonfi, rutilanti delle sue sensazioni e dei suoi racconti, non producevano l'effetto benefico desiderato, Letizia desistette.
Stufa, anche solamente di leggere di approcci e metodologie disparate, prossime più a quelle di stregoni e ciarlatani che a quelle di tecnici del sapere scientifico, come quasi tutti coloro, che ingenuamente si erano affidati a questi sprovveduti, alla fine, saggiamente, decise che forse fosse più sbrigativo cavarsela da sola.
Riconobbe facilmente che un viaggio potesse essere la soluzione, forse scontata, che per la verità veniva da lontano, forte di un valore allegorico: paradigma di ogni movimento, effettivo o simbolico, esperienza essenzialmente e intrinsecamente umana, fin da quando il bambino acquisisce la locomozione nella prima infanzia. 
Letizia giunse quindi a desiderare che lei e Aurelio andassero a godersi una deliziosa vacanza da soli, per festeggiare insieme il momento magico che, fino a non tanto tempo prima, loro avevano vissuto.
 
 
Flebili dettagli, mossi in singoli passi personificati a tutti gli effetti, in continue sfumature di colori.
Questo era il modo con cui si manteneva in lei costante l'alone di mistero che aleggiava su quei ricordi, dalla prima all'ultima scena interiormente memorizzata.

 

2. In fuga dal grigiore

Stranamente, alla fine fu invece Aurelio a proporre quella vacanza. Un’idea maturata gradualmente, frequentando un ambiente per lui insolito, che odiava i bar come chi beveva: una funzionale caffetteria vicino al suo ufficio.
Letizia, lavoro a parte, da mesi era notte e giorno assiduamente impegnata nelle cure del fratello; non rientrava a casa, se non per qualche ora. Era così stanca che si addormentava all'istante. Forse non voleva lasciarsi il tempo per pensare. C’era stato un periodo di fitte discussioni con il coniuge, al termine del quale parve loro un ragionevole compromesso quello di ritrovarsi, salpando per una delle località al mondo ancora inesplorate per loro. L’estate precedente Letizia aveva proposto Madonna di Campiglio, perché riteneva che la bellezza della montagna d’estate potesse esercitare un certo fascino anche su di lui, malgrado adorasse tanto il mare. La sorte non fu però propizia. In sostanza, erano in partenza quando furono avvertiti dell’improvvisa notizia di un grave incidente in cui era rimasto coinvolto Edoardo, il fratello minore di Letizia. Lei, sconvolta, si precipitò subito in ospedale. Ovviamente rimandarono il viaggio. Sebbene fosse grave, per fortuna il giovane non subì emorragie cerebrali, ma, prima di recuperare completamente le sue condizioni psicofisiche, dovette passare alcuni mesi di degenza e convalescenza. Anche dopo la fase acuta ebbe bisogno di cure e assistenza continua per tutte le funzioni vitali; una volta dimesso, continuò a peregrinare tra visite specialistiche e centri sanitari, sottoponendosi ad accertamenti periodici, medicazioni e trattamenti di fisioterapia, lottando con tante cose: difficoltà di respirazione; dolori intensi e fastidi, dovuti ai tubi e cateteri o a traumi. Nel tortuoso percorso della riabilitazione fu richiesta la stretta collaborazione della famiglia, di tutte le sue energie e di tutta la sua pazienza. Un enorme sacrificio per i genitori, troppo vecchi e acciaccati, che così ricadde quasi esclusivamente sulle spalle di Letizia, la quale cercò di non stare sulla difensiva, quando si affrontavano i deficit del fratello. Si trattava di individuare con i sanitari i problemi più importanti nelle diverse fasi del programma riabilitativo, per lavorarci e possibilmente risolverli. La donna si rese disponibile in tutto, dalle più banali incombenze legate alla cura della persona, pulizia e alimentazione, a essere il più presente possibile al suo fianco, nei momenti a letto o accompagnandolo alle visite. Parole rassicuranti, carezze e baci, senza caricarlo delle sue ansie. Assorbita dal fratello, Letizia, trascurata nell'aspetto e nel vestire, con i capelli in disordine, nella cui fisonomia, nei cui occhi specialmente, si notavano i segni della veglia e della fatica della mente e dell'animo, finì per badare soltanto marginalmente a un marito incapace, o non abituato, ad aggiustarsi in casa. Ormai incurante delle faccende domestiche incombenti, sebbene vivesse nell’era dei piatti di plastica e dei surgelati, delle scatolette e delle teglie in teflon, del forno elettrico e a microonde, lei non si mise più a trafficare in cucina. Per arginare il disordine imperante - da lungo le stoviglie aspettavano nel lavandino che qualcuno le lavasse - chiamò una colf. Siccome Letizia non mangiava quasi più con lui, Aurelio fu, quindi, costretto a trovare un rimedio, almeno per i pasti durante la pausa di mezzogiorno e di sera per la cena, rassegnandosi alla distanza emotiva sempre maggiore che si era stabilita tra loro.
Attivo da quasi dieci anni, il “Vin Rouge”, con la sua collocazione in piazza Martiri della Libertà, era certamente un’ottima soluzione per risolvere il problema degli spuntini. L’uomo vi riuscì a soddisfare ogni sua preferenza, potendo accompagnare le bevande con snacks, desserts, dolci e piatti freddi, come insalate varie. Al piano terra si trovava il salone principale, con tavolini e sedie, dove si poteva mangiare e bere affacciati sulla piazza, al di sopra invece il soppalco, dominando il locale, era perfetto per trascorrere qualche oretta a bere, mangiare e conversare in modo appartato. In entrambi i livelli esisteva un contrasto di colori notevole, che metteva in risalto il chiaro della luce, dentro, e, fuori, il grigiore delle corte giornate invernali. In quell’ambiente s’incrociavano personaggi che in poche mosse riuscivano a caratterizzare una città in crisi permanente. Per la sua particolare ubicazione, il “Vin Rouge” attraeva diverse fasce di clienti: durante il giorno, assumendo lo smalto migliore, serviva bibite, caffè e sandwiches a giovani e gente di passaggio proveniente dalla vicina Stazione ferroviaria, come rifugio per gli studenti ritardatari delle vicine scuole. La sera, invece, appariva soltanto il classico bar dislocato in un angolo di città anonima di provincia, in quelle ore somigliante a un fantasma, completamente deserta, senza anima viva: tutto si concentrava all’interno. Dietro al bancone era costante la presenza della barista, unica figura a mostrarsi con colori chiari, quelli che rispecchiavano la luce forte dei faretti a led, intenta nel suo lavoro, a qualsiasi ora del giorno o della notte, preparando e servendo caffè, cappuccini, bibite, long drink, cocktail e aperitivi; panini e piattini, torte, brioche, pasticcini e coni di gelato. Dall’altra parte di quella spartana buvette, invece nella penombra si perpetuava il bivacco degli avventori: taluni girati di spalle, qualcuno a scrutare, anche arrapato, il fisico della barista. Spesso nessuno parlava, ognuno perso nella propria realtà, come se tutto quello che li circondava non avesse avuto alcuna importanza.
Anche una frugale mangiata a base di pizza riscaldata e birra, sarebbe stata l’ideale per ravvivare lo spirito, dopo un pomeriggio pregno di rogne lavorative che si sarebbe trasformato in una serata noiosa, per riuscire a dormire poi beato, senza eccessivo rancore verso una moglie troppo assente, la volta che Aurelio piombò dal nulla all’interno del locale. Fuori, la temperatura si era raddolcita nonostante la stagione; il cielo autunnale, fuligginoso, al primo buio andava assumendo tonalità di rame, gravido di una di quelle intense piogge, di cui si avverte la vicinanza nell'umido tepore dell'aria.
“Buonasera”, fece Aurelio.
La barista disse gentile: “Altrettanto!”;
“Un trancio di pizza margherita, una birra media alla spina e poi un caffè, per favore”;
“Va bene al banco o si siede al tavolo?”;
“Resto al banco, grazie”, precisò l’uomo.
Appena fu servito, Aurelio si allontanò all’estremità del banco e vi depose pietanza e bevanda.
Uno per uno osservò in volto i tristi figuri circostanti, ora che li vedeva distintamente, simili a manichini all’interno di una vetrina, con i pensieri che volavano, persone ammutolite dal frastuono della musica ad alto volume della radio, mentre all’interno della sua mente le preoccupazioni avevano creato uno scudo impenetrabile. Mangiò e tracannò avidamente, con palese soddisfazione della titolare dell’esercizio, la quale in quel mentre si sfamò anch'essa, spiluccando gli avanzi di consumazioni, bevendo tè o caffè. Come se nulla fosse successo.
A un tratto l’uomo sbofonchiò, a ganasce ancora piene: “Posso avere anche un bicchiere d’acqua?”.
La donna rimase un attimo inerte a quelle banali parole di richiesta. Poi scrollò le spalle. Si videro sul suo viso dipinti una freddezza e una determinazione che prima non c'erano, quasi si reprimesse per mantenersi asettica, nel dire: “Naturale o gasata?”.
“Naturale, grazie”;
“Ho appena terminato di mangiare, devo bere acqua per gustare, dopo, meglio il mio caffè”;
“Normale il caffè?”;
“Ristretto, grazie”;
“Le preparo subito il suo caffè…”, ringhiò la donna, per sovrastare con la voce il rumore dell’acqua che fluiva dal rubinetto, “Intanto la sua acqua naturale... ”.
“Grazie”, quasi urlò Aurelio nel fragore della macchinetta del caffè.
“Ecco il caffè ristretto…zucchero normale o di canna?”;
“Normale, grazie, quanto devo?”.
La barista strinse le palpebre per focalizzare le sue annotazioni frettolose su un foglio semi-unto e sospirò lentamente e prese a battere sui tasti del registratore di cassa. Rilesse due volte il totale verde tr...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. 1. I colori dell'arcobaleno
  3. 2. In fuga dal grigiore
  4. 3. Legami deboli e legami forti
  5. 4. La partenza
  6. 5. In viaggio
  7. 7. Serata al karaoke
  8. 8. La telefonata nel cuore della notte
  9. 9. Dubbi e rimorsi
  10. 10. Verso l’Umbria
  11. 11. Arrivo in paese
  12. 12. Conversazioni in macchina
  13. 13. Il Casolare
  14. 14. Il pranzo
  15. 15. Assentamento
  16. 16. Atmosfera da crapula.
  17. 17. Sotto il cedro del Libano
  18. 18. Serata inquieta
  19. 19. La sorprendente coincidenza
  20. 20. La rinuncia
  21. 21. Confessioni tra donne
  22. 22. Il capolinea dell’ambiguità
  23. 23. Notte da incubo
  24. 24. Nessun dorma
  25. 26. L’alba degli eroi
  26. 27. Un nuovo giorno
  27. 28. Si avvicina l’ora della verità
  28. 29. La richiesta di aiuto
  29. 30. Perdonare agli altri senza limiti, dovere di giustizia
  30. 31. Indomiti in servizio
  31. 32. La lettera
  32. 33. La vittoria dei martiri
  33. 34. Desiderio di fuga
  34. 35. Donne al passeggio
  35. 36. Soprassalto mattutino
  36. 37. Colpo di scena a colazione
  37. 38. Ritorni e fughe
  38. 39. Le grandi delusioni
  39. 40. L’ultimo arcobaleno
  40. Epilogo