L’AQUILA, 19 GENNAIO 2011
1. FedEx
– Buongiorno, Sara, è arrivata posta per te – la salutò Concetta al risveglio.
– Per me? – fece Sara stupita, incespicando nelle pantofole scozzesi. Il freddo e il fumo passivo della sera prima le avevano lasciato la gola secca e irritata. Sul tavolo, incongruo, un piccolo pacco FedEx.
– È arrivato stamattina – riprese Concetta, grata per la variazione alla sua routine. – Tra dieci minuti ti avrei svegliato.
Sara guardò l’orologio. Le undici! Ma possibile che il suo sonno continuasse a essere così irregolare? Faceva fatica ad addormentarsi e poi restava a dormire fino a mattino inoltrato. Il contenitore FedEx rivelò un pacchetto avvolto in una carta bruna e un biglietto scritto nella calligrafia frettolosa di Jane.
“Da come ne hai parlato ho pensato potesse essere importante. Fammi sapere se lo ricevi. Buon viaggio, cerca di andare almeno a Firenze”. C’era anche un P.S.: “comprati qualcosa di bello”, che doveva riferirsi ai duecento euro che accompagnavano la lettera e che Sara rimise in fretta nella busta prima di dedicare le sue attenzioni al pacchetto. Era stato confezionato con gran cura, e Sara dovette armeggiare con un coltello per estrarne il contenuto. Era un libro consunto dal tempo e ancor più dall’uso, dalla vita che ne aveva sfogliato nervosa le pagine. Il fiore del verso russo. Sara lo aprì, trovò la dedica che le aveva letto Jane per telefono: “A Nadia, per sempre. Osia”. Nadia? Osia? C’era anche un luogo, una data. Roma, 12 febbraio 1958.
Quando non rifletteva troppo sulle sue azioni, Jane faceva anche delle cose intelligenti, bisognava dargliene atto. Sara guardò l’orologio. Voleva appartarsi col libro, ma non sapeva come fare senza offendere Concetta. Aveva già altre volte avuto l’impressione che Concetta considerasse il suo restare in camera a leggere un’attività sovversiva, mentre sedersi davanti alla televisione significava essere normali e socievoli. Aveva anche capito che Concetta non si fidava a lasciarla sola in casa. Forse l’incidente del tritarifiuti giustificava la sua apprensione, ma certo che paragonata alle abitudini americane (prendi le chiavi di casa, fa’ quello che vuoi, mangia quello che trovi nel frigorifero), la tanto decantata ospitalità mediterranea risultava piuttosto guardinga. Si stupì dell’amarezza, ingratitudine, e finanche orgoglio etnico delle sue considerazioni. Deve essere la claustrofobia, pensò. Doveva concentrarsi sulla sua missione, altrimenti rischiava di cominciare anche lei a litigare intorno al tavolo. Il destino le venne incontro in maniera imprevista, nella forma di uno squillo del telefono. Era Alessandro e cercava lei, ma dovette prima attraversare il vaglio di Concetta, dare spiegazioni per la scenata della sera prima, promettere una visita. Quando Concetta finalmente si decise a passarglielo, Alessandro era esasperato.
– Senti, mi servirebbe un favore. Stiamo cercando di tradurre dei comunicati e farli circolare su Facebook e blog internazionali, per far conoscere al resto del mondo la vera situazione della città. Te la sentiresti di lavorarci?
– Be’, sì, certo… ma quando? – chiese Sara, che vedeva ulteriormente minacciato il suo appuntamento coi Russi.
– Oggi, adesso… Ma a parte la versione virtuale, servirebbe anche di fare delle copie cartacee. Questo fine settimana c’è un importante convegno internazionale di astrofisica, voglio distribuirle lì.
– Ma qui una stampante non c’è… – obiettò Sara.
– Appunto. Se per te va bene ti passo a prendere e ti porto alla nostra sede, puoi lavorare là. Poi quando hai finito trovo qualcuno che ti riporti a casa.
– Sì, benissimo, guarda che non c’è nessuna fretta di tornare. Pensi che posso restare a leggere lì quando ho finito?
– Certo, puoi restarci quanto vuoi. Allora passo, eh?
Sara si stupì della sua allegria mentre inzuppava i biscotti nel caffellatte. Si ripromise di andare a cercare della frutta e dello yogurt da qualche parte, ma per ora andavano bene anche quelle calorie vuote per affrontare il freddo. Una stanza dove leggere indisturbata le sembrava un angolo di paradiso. Si rese conto che, per i suoi standard statunitensi, era più vicina all’ora di pranzo che a quella della colazione. Sfruttò la considerazione come scusa per gettare un altro paio di biscotti nel caffellatte. Lo bevve con gusto fino all’ultima goccia, ma fece fatica a riconoscere il suo volto. Le sembrò, per un attimo solo, che a strizzarle l’occhio dal fondo della tazza fosse Nonna Lice.
2. Condizionale passato
– Lei non deve pensare che l’Italia sia questa – le disse il professore sorseggiando il suo cioccolato caldo. – Prima di ripartire deve assolutamente vedere Roma, Firenze, Venezia…
– Cioè il passato.
– Come?
– Sì, mi sta suggerendo di vedere dei monumenti che piano piano si sgretolano, Pompei che cade, Venezia che affonda… Ma in fondo L’Aquila, col suo centro storico in preda ai topi, la sua brutta periferia, i suoi televisori al plasma in ogni casa, il suo centro commerciale, mi sembra sia più istruttiva circa le condizioni dell’Italia attuale, non crede? E forse futura.
Il professore tacque guardandola serio.
– I profeti dell’apocalisse non hanno mai ragione. Lei sta trascorrendo troppo tempo con Alessandro, sta assimilando la sua propensione all’estremismo… quel ragazzo mi preoccupa.
Sara sorrise, si chiese cosa avrebbe pensato il professore delle urla di Alessandro la sera prima. Aveva trascorso tutta la giornata in una palazzina occupata abusivamente da un comitato che lottava per la ricostruzione della città. Alessandro in macchina le aveva spiegato che quell’edificio e gli altri che lo circondavano erano i padiglioni di un vecchio ospedale psichiatrico, a un passo dalla Basilica di Collemaggio, dove quell’altro pazzo di Celestino era stato fatto papa… se la ricordava la storia? Certo che se la ricordava. Sara si sentiva di nuovo a suo agio, e la macchina non sembrava la stessa che si era fatta così piccola la sera prima. Gli eventi notturni, alla luce del giorno, assumono spesso la consistenza dei sogni. Era bello sentirsi di nuovo tranquilla al fianco di Alessandro. Il suo sguardo si soffermò di nuovo sul rosone centrale della facciata. Le ultime volontà di sua nonna, l’impulsività di sua madre erano da aggiungere alla lista degli episodi sconcertanti legati a Collemaggio. Era davvero un posto straordinario.
La traduzione dei comunicati stampa di Alessandro le aveva preso poco tempo, e così era stata libera di dedicarsi alla lettura del Fiore del verso russo. Certi libri molto amati sono come delle piste aperte nella neve, quando uno parte si trova a seguire il percorso di chi ci è passato prima, le sue cadute, le esitazioni davanti a un bivio. E Alice aveva molto amato quel libro, si vedeva dalle sue cattive condizioni, l’aveva curato e strapazzato come un bambino il suo orsacchiotto di pezza. Con la trascuratezza che Jane le rimproverava sempre era riuscita persino a macchiare di caffè alcune pagine, aveva sottolineato dei passi, preso appunti ai margini. Era un libro voluminoso, impossibile percorrerlo tutto in un pomeriggio. Per orientarsi, Sara aveva chiesto a sua nonna di farle da guida. Si era soffermata dove lei si era soffermata, aveva preso in prestito i suoi occhi. I versi erano amplificati dall’eco dei pensieri di Alice, coagulatisi in appunti veloci. Sara era rimasta particolarmente colpita da quelli che portavano una data.
Ed io non so se dalla via
la sorte m’allontanerà,
ed io non so se là ci sia
il male o la felicità.
Vicino, un punto interrogativo e una nota che diceva “In volo, 12 febbraio 1958”. Alice aveva cominciato a leggere la raccolta già in aereo. Mentre se ne andava, riscontrava nei versi di Blok la sua stessa domanda.
Forse Sara pensava a quel libro come una pista aperta nella neve (e nella sua mente Una si rialzava dopo aver controllato gli attacchi degli sci e le chiedeva se era pronta) perché nel pomeriggio aveva preso a nevicare. Fiocchi densi e soffici avevano imbiancato l’aria e siccome nella stanza faceva freddo lei si era avvicinata di più alla stufa, mentre dalla finestra guardava il paesaggio che si trasformava. È questo allora, aveva pensato, sorprendendosi subito della mancanza di logica dell’osservazione. Però adesso, seduta col professore in quello che potevano ormai definire il loro bar, guardando la piazza dove il bianco curava ogni cosa, si trovava a pensare la stessa cosa. È questo.
– Professore, perché è partita mia nonna?
Il cioccolato era talmente denso (lo facevano apposta per il professore, niente polverine) che bisognava mangiarlo con il cucchiaino più che berlo. Il professore tossì alla domanda che lo strappava dal suo goloso benessere.
– Come, scusi…?
– Sì… L’altro giorno lei ha detto addirittura che era scappata… Perché è andata via così?
– Lo sa meglio di me, no? – fece il professore quasi infastidito. – Ha incontrato Gérard Phili… no, James Dean su un cavallo bianco, lui le ha detto “Sali bionda” e lei si è confusa.
Sara rise. Impossibile ergersi a paladina dell’onore famigliare, mettere ordine in quel guazzabuglio alimentato da mezzo secolo di nostalgie e risentimenti.
– Lo sa meglio di me, quella è la… cronaca – disse invece. – Ma io vorrei sapere perché ha fatto quel colpo di testa. Non era una decisione comune all’epoca, mi sembra di capire, e il rischio di non tornare più, come in effetti è stato, era grande.
Il professore sembrava imbarazzato. Sara decise di insistere.
– Lei è l’unico che la conosceva bene. A lei non ha mai detto perché l’ha fatto?
Il professore si sistemò meglio sulla sedia.
– Qualche giorno fa mi ha chiesto se ci siamo scritti. Be’, io le ho scritto diverse volte quando ho saputo che era rimasta vedova, o quello che era… E una volta mi ha scritto anche lei.
Trasse dalla tasca un sacchetto di plastica, da quella una busta e infine un foglio che spiegò con cura prima di porgerlo a Sara.
Indimenticato Osia,
ti ringrazio delle lettere e della tua sollecitudine nei miei riguardi. Ti scrivo soprattutto per farti sapere che sto bene e che, dopo un primo impatto piuttosto brutale, mi vado abituando alla vita americana. Non voglio annoiarti riferendoti nei dettagli le complicazioni burocratiche legate alla procedura d’immigrazione. La famiglia di quello che avrebbe dovuto essere mio marito, preoccupata all’idea che io porti via Jane, si è prodigata e ha trovato i canali giusti per farmi restare. Così, come quel tale che era nato veneziano e morto italiano, io comincio a pensare che, nata italiana, morirò però americana.
L’altra notizia importante è che non faccio più la cassiera! Ho dovuto farlo i primi tempi per dare da mangiare a me e a Jane, perché l’inglese qui è altro dal nostro “life’s but a walking shadow” e senza impararlo non potevo sperare di sottrarmi al supermercato. Ma da due mesi lavoro… in una biblioteca! So che capirai la mia gioia. Le biblioteche pubbliche qui sono molto diverse dalle nostre, la gente va da sola tra gli scaffali, qualcuno legge seduto a terra, altri ai tavolini che abbiamo sparpagliato un po’ dappertutto (i locali sono troppo piccoli per avere una sala di lettura vera e propria), c’è chi prende appunti, chi discute. Niente contro la nostra Tommasiana, per carità, ma quella è una biblioteca per studiosi, questa è per tutti. La sezione di italiano è pressoché inesistente, e allora ho organizzato una raccolta di fondi con la comunità italiana. È gente incredibile, ha costruito i grattacieli con pane e cipolla, dovevo venire in America per scoprire che grandi lavoratori siano gli Italiani. Ma divago, scusami. Insomma, dicevo che gli immigrati hanno posto come condizione per le loro donazioni alla biblioteca che venga organizzato un corso di italiano, e indovina chi sarà l’insegnante…?!
Uno dei vantaggi di lavorare in biblioteca è che potrò imparare altre lingue. C...