Un gran mucchio di romanzacci
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Un gran mucchio di romanzacci

Franco Lucentini einaudiano (Parigi, 1949-1957)

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Un gran mucchio di romanzacci

Franco Lucentini einaudiano (Parigi, 1949-1957)

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Traduttore d'eccezione, corrispondente infaticabile, lettore dai giudizi fulminanti e severi: alla figura di Franco Lucentini e alla sua esperienza di collaboratore per Einaudi, Giacomo Micheletti dedica una ricostruzione condotta su materiali d'archivio in gran parte inediti, nel tentativo di illuminare la «preistoria» di uno dei protagonisti dell'editoria (e della letteratura) del secondo Novecento italiano. Giacomo Micheletti è dottorando in Filologia Moderna e cultore della materia presso l'Università degli Studi di Pavia. Si interessa prevalentemente di storia della lingua letteraria e narrativa italiana del Novecento. Ha pubblicato articoli e saggi su Franco Lucentini, F. & L., Gianni Celati traduttore.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788869954733

1. L’HOMME À L’AFFÛT

C’è una vanitas che porta all’accidia assoluta e ce n’è un’altra che induce al lavoro come liberazione dalle sciocchezze2.
Carlo Fruttero
Pochi mesi prima di scegliere il silenzio, Franco Lucentini si concesse un’ultima professione di scetticismo sulla realtà esterna, come se, nonostante tutto, il miraggio dei sensi ancora osasse provocarlo crollando in cenere. Fin troppo educato per reagire all’ennesima insolenza, Lucentini preferiva glissare, centellinando una linfa che, filtrata dai millenni, zampillava dall’antica fonte eleatica: «Il mondo è la causa di me, che sono la causa del mondo», tra una sigaretta e l’altra3.
Un paradosso sornione, fondato sul principio della «causalità reciproca», che pure nella sua concinnitas – coltivava Lucentini una passione per le epigrafi romane, specie le più rustiche e sgrammaticate – reca ancora la traccia mai abbastanza levigata di un attrito, un conto in sospeso con quell’universo di cui un pomeriggio, tra i ruderi di Luni, aveva sillabato l’imprevista origine4.
Lucentini era nato a Roma la notte di Natale del 1920; come avrebbe raccontato a Giovanni Tesio5, della sua infanzia ricordava soprattutto i vagabondaggi tra Piazza del Pantheon e Trastevere, le penombre caravaggesche nel rione Sant’Eustachio. Aveva imparato il francese su una panchina di Villa Borghese, sfogliando la cronaca de «L’Écho de Paris»6; degli anni sui banchi del liceo Tasso si conservano alcuni versi crepuscolari, in cui le arterie umbertine del Castro Pretorio si perdono in uno squallore brado, e un tram sferraglia nostalgico verso la stazione Termini: «[…] c’era / una miseria di giardini / uno sfacelo umido di case»7.
Dopo la maturità gli studi universitari in filosofia, interrotti, tra il settembre del ’41 e il gennaio dell’anno seguente, dall’incarcerazione a Regina Coeli per avere sconsacrato insieme a tre amici (tra cui Antonio Giolitti) e a un kit del «Piccolo Tipografo» un’adunata patriottica degli studenti del Guf8. In prigione Lucentini trascorre le giornate studiando il tedesco e leggendo il Tao Tê Ching, scoperto durante le lezioni dell’orientalista Giuseppe Tucci. Sono le prime avvisaglie di un inesorabile talento poliglotta, che assumerà contorni favolosi. Decenni più tardi, nel corso di una gaia pièce da salotto, confesserà uno dei molti peccati di gola: «Ne “L’Illustrazione Italiana” di quei mesi c’era una storia che usciva a puntate, di Campanile. Io ne lessi una, e lo trovai stupendo»9. Alla cella segue la chiamata alle armi, il centro di addestramento reclute e il corso per sottoufficiali, durante il quale, usufruendo di una licenza, si laurea a pieni voti discutendo una tesi su L’Unico e la sua proprietà di Max Stirner. Incaricato di contrastare l’avanzata delle truppe angloamericane sbarcate in Sicilia, il plotone guidato da Lucentini viene malamente dirottato sull’isola di Procida: è l’estate del 1943, e l’8 settembre, annunciato da una motovedetta alleata, sorprende il sergente intento a sbucciare arance sul bagnasciuga, mentre rimugina alcuni versi di Eliot.
A Napoli, si guadagna un impiego come interprete per il PWB (Psychological Warfare Branch) e redattore per la United Nations News, agenzia che fornisce le notizie alle testate italiane; con il ritorno a Roma dopo la fuga dei tedeschi, la carriera di giornalista si consolida tra la collaborazione alla rivista «Democrazia Internazionale» e il ruolo di caposervizio presso la Sezione Esteri dell’Ansa, fresca di fondazione10. Dopo la separazione e le difficoltà imposte dalla guerra, Franco e il fratello Mauro toccano per la prima volta il benessere.
Ma è questione di pochi anni: l’intolleranza verso certi umori nazionalisti del nuovo corso politico, i compromessi sul lavoro e un certo disagio interiore spingono Lucentini ad abbandonare l’Italia; grazie all’interessamento di un’amica racimola un posto di vicecorrispondente per l’Ona, un’agenzia di stampa ebraica, e nell’autunno del 1947 parte per Praga e Vienna, vivendo alla giornata e stendendo un velo di riserbo sulle proprie peregrinazioni mitteleuropee.
Di ritorno a Roma dopo pochi mesi, fedele a un copione già scritto da qualche tormentato spirito del secolo XIX, Lucentini prende in affitto una stanza in via Margutta e lì, riversandoci un senso di umanissima disfatta, stende tre racconti (uno dei quali incompiuto) destinati a segnare il trapasso dalla già satura temperie neorealista alle prime sperimentazioni di una nuova stagione. Il dattiloscritto finisce tra le mani dell’amico Bruno Fonzi, che dalla capitale collabora con la casa editrice Einaudi come consulente e traduttore e che, nel 1948, sta per entrare in redazione in pianta stabile; per suo tramite, nell’aprile dell’anno successivo il giovane Lucentini visita per la prima volta Torino, ne scopre i viali dalle prospettive ventose e bussa infine al civico 1 bis di via Biancamano, tempio dell’alta cultura italiana e salvifico approdo per un’intelligenza irrequieta e severa.
La Einaudi, nel frattempo, ha appena superato un periodo di riorganizzazione di cui Cesare Pavese, depositario del lascito morale di Leone Ginzburg e Giaime Pintor, affida un propositivo bilancio alla Antologia Einaudi 1948. Alle spalle vi sono i dissidi tra gli iconoclasmi politecnici di Elio Vittorini e l’intransigenza tutta piemontese di salvaguardare l’anima artigianale della Casa, «nata come eclettica officina di cultura»11: «due contrastanti idee di editoria e di cultura, cui si aggiungono differenze di temperamento, stile di lavoro, gusto»12, che Giulio Einaudi si sforza di conciliare con il suo temerario talento strategico, partecipando a quel diffuso slancio di unitarietà, di sintesi e compenetrazione di saperi che tanto appare caratteristico del biennio postbellico e delle sue utopie. Le incomprensioni tra la base torinese e il distaccamento di Milano, acuite dai rapporti non sempre distesi con il Pci e da una situazione finanziaria precaria, si risolvono nell’Antologia nella rivendicazione di un equilibrio, ancora allo stadio progettuale, tra continuità e confronto con le oscillanti coordinate del presente. L’innesto di Italo Calvino e Giulio Bollati, in un ambiente segnato da perplessità e ricordi funebri, rappresenta allora un balsamo per quella frattura generazionale che i senatori einaudiani sopportano con fosca discrezione, e anzi inaugura un ricambio fattosi ormai necessario, nel segno di un discepolato vissuto come maturazione e dibattito da entrambe le parti.
Con la ridefinizione e il riassestamento delle collane tradizionali e della stessa casa editrice, che manifesta i primi sintomi del passaggio da un assetto protoindustriale a uno più marcatamente capitalistico, la primavera del 1949 vede il direttore Pavese sempre più defilato, impegnato a curare la neonata «Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici», mentre il settore della narrativa viene delegato a Natalia Ginzburg e Bruno Fonzi. Da Milano, da dove per due anni ha diretto il suo «Politecnico», uno degli azzardi più felici nella storia dello Struzzo, Vittorini monitora il lavoro dei colleghi, registrando come un sismografo ogni minimo segnale di novità in vista di un progetto cui pensa da tempo: una collana di letteratura capace di proporre soluzioni alternative, per quanto ipotetiche, al solco del più inerte impressionismo; una collana (cui inizialmente si allude con il nome di «Opuscoli»13) in grado di coltivare quella polemica curiosità nei confronti dell’attualità che costituisce senza dubbio il retaggio più prezioso della sua rivista:
[…] quasi a ribadire che, se esiste la possibilità del riscatto, se agli uomini tocca rinnovare il codice espressivo per ricominciare il dialogo costruttivo e scongiurare il pericolo di una nuova apocalisse, questa opportunità va individuata in un ritorno allo stato di vitalità testimoniale e progettuale14.
Grazie alla mediazione di Fonzi, i racconti di Lucentini ricevono l’entusiastica accoglienza della Ginzburg e di Pavese, riemerso dalle proprie «nefandezze totemiche e ancestrali»15, che ne loda l’«indiavolata abilità nel raccontare»16, la secchezza feroce, scorgendo, sotto la scorza di quella lingua estratta a fatica dai detriti della Storia, i bagliori di una ricerca genuina. Franco, sorpreso, si compiace di un tale successo e ne scrive subito al fratello, salvo poi lasciare Torino e, fatti nuovamente i bagagli, partire su invito dell’amico Alessandro Forti per Montignac, Aquitania: «Aveva una fattoria, imparai a guidare il calesse, a fare il burro…»17. Poche settimane e le angosce erratiche paiono finalmente placarsi: a Parigi, «la capitale di tutti gli espatri»18, dove vivrà fino al 1957. Ma il seme einaudiano, trovando terreno fertile, ha già messo radici.
La Parigi che Franco Lucentini si trova davanti si è da poco risvegliata dall’occupazione nazista: è la città dei caffè esistenzialisti, delle vies en rose, quella còlta, in tutta la sua gamma di grigi, dall’obiettivo di Robert Doisneau; lo scrittore vi conduce una bohème morigerata, tra i fantasmi delle proprie letture. Vaga tra le bancarelle dei bouquinistes e, confuso tra gli avventori dei bistrots di Montmartre, ne imita posture e accento, ne invidia la ruvida disinvoltura.
Paris, per un giovane romantico, è una fantasmagoria palpitante (e un po’ scolorita) di miti e seduzioni, un’oleografia in cui la letteratura a volte si sovrappone alla realtà: i «jardins dietro il Palais Royal, Laforgue e il mondo dei pianoforti in Rue de Rome, le domeniche vuote, le periferie, la grande complainte, Mallarmé che accompagna Valéry alla stazione di Fontainebleau sotto le costellazioni che ispirano la prosa lirica di Un coup de dés jamais n’abolira le hasard»19. È bello credere che, dietro la sublime immagine dei due fumeurs obscurs, il vecchio Lucentini riassaporasse le dispute nottambule con Carlo Fruttero. Si sarebbero conosciuti nel 1953, a Montparnasse.
Frattanto il dattiloscritto (che deve il proprio titolo provvisorio, La fossa, al terzo racconto, abbozzo del futuro Notizie degli scavi) viene letto da Luciano Foà, titolare dell’Agenzia Letteraria Internazionale e scout per lo Struzzo assieme a Erich Linder: un lettore perspicace, Foà, sensibile a quell’intrinseca coerenza che deve governare un progetto editoriale disponendone i titoli come capitoli di una narrazione aperta eppure coesa, come i nodi di una struttura reticolare, a immagine della conoscenza stessa. È proprio lui a inoltrare a Vittorini la tanto osannata Fossa20. Vittorini legge e il 5 maggio scrive alla Ginzburg, suo principale referente torinese: l’autore è definito, «senza la minima riserva», «il migliore di tutti i giovani che si siano presentati finora alla porta di Casa Einaudi», scrittore dal «sentimento della realtà potentissimo e facile, felice», e I compagni sconosciuti, unico racconto giudicato degno di pubblicazione, la riprova della necessità di una sede che accolga e favorisca le proposte di una nuova generazione di narratori21: l’esordio letterario di Franco Lucentini si lega così alla storia dell’editoria italiana, destinato com’è a inaugurare «I gettoni», oasi sperimentale che fino al 1958 ospiterà alcuni tra i più grandi nomi del secondo Novecento, da Fenoglio a Sciascia e da Rigoni Stern a Testori, per le cure scrupolose e nient’affatto indulgenti di Vittorini22.
Pavese, Foà, Vittorini: una costellazione numinosa i cui influssi non tarderanno a rivelarsi nel giovane Lucentini. Il suo racconto verrà dato alle stampe soltanto nel marzo del ’51, al termine di una lunga discussione sulla linea da dare alla collezione in cantiere, con Calvino quasi insofferente che rincorre Vittorini sollecitandolo a sbrigarsi, a coniare un nome per la nuova collana, a scrivere quei “risguardi” che poi diventeranno i famosi risvolti di copertina.
Lucentini, nell’attesa, non perde tempo: partendo per la Francia è stato infatti incaricato di tradurre alcuni libri per la Casa; tra questi, una scelta dei Mithes romains del francese Georges Dumézil, un’opera proposta da Foà per la «collana viola» a cui Pavese tiene particolarmente23.
Il primo domicilio parigino di Franco Lucentini è l’Hôtel des Étrangers, un alberghetto della stretta Rue de Beaune, al limitare del quartiere di Saint-Thomas-d’Aquin, «dove veniva continuamente la polizia e io quasi ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Indice
  5. Premessa
  6. Nota
  7. 1. L’homme à l’affût
  8. 2. «Un gran mucchio di romanzacci»
  9. 3. Pareri di lettura di Franco Lucentini
  10. Appendice: Otto schede per Plon