Felicia Buonomo
Pasolini profeta
Riflessioni
liberamente ispirate da
“Le belle bandiere”
raccolta di scritti di P.P.P.
su le Vie Nuove
(anni ’60-’65)
Mucchi Editore
ISBN 978-88-7000-563-9
In copertina
Pier Paolo Pasolini sul set de Il Vangelo secondo Matteo (1964), foto di Angelo Novi, ©Cineteca di Bologna. Un particolare ringraziamento, per l’impegno profuso nella ricerca dell’immagine, va a Loris Lepri (Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna).
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associata: confindustria, aie, uspi Ia edizione, pubblicata in Modena nel febbraio del 2012
Prefazione
Provo un forte sentimento di coinvolgimento affrontando questa prefazione per un libro deciso, che cade al momento opportuno per un’ormai estesa e malarica parte di italiani, tuttavia guaribile, anche se assoggettata da tempo a una terapia del sonno sovra dosata: talmente abbondante anche nella varietà di quegli impieghi tecnologici della conservazione a freddo che loro malgrado verranno rinvenuti, chissà quando, come i mammut della Siberia ancora con lo stomaco pieno di cibarie “fresche”. Gli scienziati cercheranno allora di comprendere quali pensieri cinobalanici guizzavano nei loro cervelli in quest’ultimo momento di consapevolezza e di pasto.
Provo un deciso sentimento di determinazione, scrivendo, poiché la lettura preventiva di questo libro mi libera dalla quiescenza, o meglio da quella attiva paralisi in cui mi sono salvaguardato e che mi spiegò un caro professore di filosofia a Milano; un sentimento che mi ricolloca, ora, attivamente, in un pensiero progettuale dove ciò che ricordo va a reggere, facendosi finalmente supporto, un movimento d’animo verso ciò che a da venire, che deve esser fatto e che oggi è in atto come assente: la democrazia entro la quale tutti avremmo il bene del nostro essere.
Ho quasi timore a nominare Pier Paolo Pasolini perché troppi lo hanno già fatto indugiando con posture intellettualistiche, mesoparassitarie, e mi preme molto non essere confuso con loro così come pretendo che con questi non venga amalgamata l’Autrice che in modo raffinatamente rastremato si fa carico culturale e sociale, e dunque politico se ancora si può dire in questi tempi, di gestire e riposizionare in luce la verità che quest’uomo sapeva capire in anticipo, ponendola in chiaro con la consapevolezza che egli stesso incessantemente richiamava in modo inequivoco.
Infatti dalle pagine di questo libro che mostra attraverso la parola di Pasolini il recidivo affacciarsi sulla scena umana della soppressione, l’osceno e oscuro ripresentarsi dell’arbitrio e dell’inganno sui diritti di una umanità in perenne svantaggio da chi sa impiegare deliberatamente solo l’esoscheletro dei linguaggi nella comunicazione e dunque nella costruzione superficiale della realtà, non della verità, da queste pagine si impenna la questione inalienabile, sempre presente e che mai deve essere dissimulata, della comprensione: del capire e del saper-capire. E di conseguenza del come saper-capire.
Si tratta di un aspetto primario e cruciale che attraversa tutti i capitoli del libro, con le fattezze di una filigrana di autenticità che riflette e attualizza appunto questo come di cui Pasolini si è fatto guida, visitando il fondo del linguaggio stesso e della società con la parola alfabetica, dalla poesia al romanzo alla cronaca, e con le immagini visive del racconto filmico, facendosi obiettore d’urto dei meccanismi e delle economie che sono alla base di ogni proposizione borghese: e ciò montando con sensibilità simbolica, cioè mettendo insieme i ritagli della realtà su itinerari semantici e di senso che portano al vero. Proprio quel vero che ciclicamente viene frantumato e obliato dalla forma, e che il poeta ha il compito di ricomporre cavandolo dall’oscurità per esporlo in evidenza. Cioè liberarlo dall’esercizio dispotico e totalitario, globalitario, della scrittura pianificata.
Ma il come-saper-capire, che in Pasolini assume il valore esemplare di prolessi, di anticipazione pedagogica, pone un’ulteriore riflessione sul linguaggio stesso nel suo stabilizzarsi nella scrittura che è di fatto la forma entro la quale il sapere incontra e si scontra con possibili “economie”, prospettive, scopi e finalità.
Potremmo stare tutti bene, dice sovente un mio amico e collega. Io aggiungo che ciò sarebbe vero, auspicabile, forse non così difficile come si crede ora in questo stato di spossatezza, se ci fosse una maggiore consapevolezza, una più incisiva capacità di penetrare e di entrare nel senso delle cose, conoscerle nella loro affliggente realtà; non fosse altro che il sapere e la scrittura che lo gestisce, tuttavia garantendo solo una parte di esso e di questa parte solo la superficie omogeinizzata e apparente più commestibile, pongono un giudizio. La scrittura del sapere pone un’ambiguità “esclusiva”: da un lato c’è chi è il soggetto del sapere, dall’altro chi è soggetto al sapere: l’autorità e l’assoggettato, così come è espresso nel capitolo I nuovi non-residenti romani d’Italia dove la condizione del disadattamento è vittoriosamente disposta da un gesto scrittografico tipico dei sistemi totalitari.
Ma chi è l’autorità in questo caso, così come in tutti gli altri? L’autorità è incarnata da chi sa come-non far-conoscere, ossia non far capire, che è l’altro lato criptico, umbratile, coscaiolo della realtà.
Quale evento attribuisce l’autorità a qualcuno o a qualcosa, il divenire cioè il soggetto del sapere? E come avviene questa perversione dell’uomo? Va detto subito: nessuno dà a qualcun altro questa prerogativa in modo attivo e consapevole, con cognizione, tutt’al più la accorda seguendola in stato ipnotico o per opportunismo; semplicemente perché essa autorità è autoreferenziale, è assunta in via autonoma, è autoproclamata per mezzo del saper-nascondere e della complicità di un’altra assenza: quella della memoria o di un ricordo stremato dalla rapidità di flusso in superficie, ossia nel luogo in cui esso stesso è afferrato in quanto immagine. E qui Pasolini pratica l’obiezione camminando il piano dell’autocensura, esercitando la propria prerogativa, che è poi prerogativa di tutti, di non essere il soggetto del sapere e tanto meno soggetto al sapere.
L’omologazione dell’immagine che non può dare cultur...