1. Introduzione
1.1 Un’utopia plurale
Parrebbe essere una storia dimenticata, o, ancor meglio, da dimenticare, quella del romanzo sperimentale italiano. Sconfitto nei fatti dal corso successivo della narrativa, che ha recuperato tutti quei caratteri propri della fiction che erano stati faticosamente, e da più prospettive, messi in discussione, esso ha d’altro canto subito una sostanziale rimozione dal canone letterario contemporaneo. Se infatti almeno ai nomi più notevoli (come quelli di Sanguineti, Arbasino, Manganelli, Malerba, Balestrini) non vengono negati riconoscimenti o menzioni, il corpus antinarrativo prodotto intorno agli anni Sessanta è perlopiù lasciato cadere nel dimenticatoio come indigeribile e a ogni modo non riproponibile esperienza marginale, come un generico insieme di testi illeggibili, esercitazioni da laboratorio difettose di quella linfa vitale che sarebbe propria del sistema romanzesco. A dispetto dell’ormai storico auspicio “cinico” espresso da Edoardo Sanguineti – che lo riprendeva da Cézanne –, di «fare dell’avanguardia un’arte da museo», «non c’è stata – ha scritto Luigi Weber – né museificazione né canonizzazione della nuova avanguardia […]. L’avanguardia ha ricevuto attenzioni in sede di sociologia della letteratura, o di teoria estetica. I testi sono rimasti pressoché ignorati, salvo pochi esempi che passavano di mano in mano, comodi a citarsi». Una «damnatio memoriae» che molto dice del sistema letterario contemporaneo, che non può che percepire come insidiosa alterità quel modello di prosa del dissesto testimoniato dagli antiromanzi apparsi lungo un decennio (con ovvie anticipazioni e altrettante prosecuzioni). Poiché proprio sul terreno del romanzo si gioca il conflitto maggiore, nell’età moderna, tra le diverse economie del racconto, ovvero sui modi, le strategie, gli strumenti coi quali una determinata cultura descrive se stessa, si rappresenta e quindi si proietta nello scambio sociale e nel mercato delle ideologie. Pertanto, è essenziale al nostro discorso rilevare la specifica «critica dell’economia narrativa» esercitata dal romanzo sperimentale italiano, la sua posizione conflittuale sia rispetto alla tradizione, sia nei confronti della concorrenza contemporanea, secondo una carica primieramente (ma pure non esclusivamente) negativa e distruttrice; e identificare altresì quel paradigma dell’antitesi, che ancora qualche anno fa, rispondendo a un’intervista di Guido Mazzoni, Sanguineti ribadiva come «il momento centrale dell’attività artistica e critica».
Una volta impostato il discorso da tale prospettiva, non ci si dilungherà più del minimo indispensabile sulla cronistoria del fenomeno del romanzo sperimentale degli anni Sessanta, poiché non si vuole scrivere qui un capitolo di storia letteraria. Tale impresa è stata del resto già ampiamente svolta, e bene, da più di un critico, e pare quindi inutile tornare a calcare gli stessi passi. Si tenterà piuttosto di costruire una costellazione critica, attraverso la quale rileggere una serie di romanzi iscritti nella settima decade del Novecento, per registrare e verificare quale “contenuto di verità”, direbbe Benjamin, siano essi in grado di trasmetterci oggi. Verrà privilegiato un percorso articolato in un continuo rimando tra sollecitazione testuale ed elaborazione teorico-critica, secondo una struttura che all’esposizione per autori o per opere sostituirà una dislocazione per problemi, per tagli trasversali, per snodi decisivi all’identificazione formale dell’antiromanzo. In questo modo credo potranno essere messe in luce certe caratteristiche immanenti alle singole opere trattate in grado di tracciare il profilo di una macro-opera intimamente critica, disforica, oppositiva, ovvero, pienamente d’avanguardia. Mi vorrei così anche confrontare con la koinè postmodernista, alla quale viene spesso associato, e non senza conferme da parte di alcuni dei suoi stessi protagonisti, il romanzo sperimentale; tuttavia cercherò di mostrare come esso si sottragga, per le proprie strategie testuali e per i risultati cui queste approdano, a tale destinazione. Non già quindi di «una storia postmoderna», come l’ha definita Matteo Di Gesù, si tratta qui, dal mio punto di vista; bensì di un tentativo collettivo di mettere in crisi la parola narrativa, secondo modi riconducibili al sostanziale spirito di contraddizione dell’avanguardia.
E proprio sul valore della collettività, vorrei preliminarmente soffermarmi. Uno degli assiomi fondamentali della sensibilità artistica moderna, quello dell’autore-creatore, viene infatti a più riprese demolito dagli scrittori della neoavanguardia. La sua centralità è coscientemente sottoposta a critica nel momento in cui si constata l’avvenuta espropriazione della soggettività, e quindi dell’individualità, nella condizione storico-sociale contemporanea. Il feticcio del creatore monadico è rifiutato consapevolmente in favore di una figura aperta e relazionale di autore. Questa esigenza ha preso forma, com’è noto, nel metodo di lavoro collegiale e seminariale – già proprio della tedesca Gruppe 47 – adottato dal Gruppo 63 a partire dalla fondazione e fino almeno all’ultimo convegno, quello di Fano del 1967, ma che in verità si ritrova anche prima e dopo (perlomeno fino all’esperienza di «Quindici»), in ogni momento e luogo dell’organizzazione culturale. È proprio questo aspetto corollario (ma, vedremo, capitale) dell’attività della neoavanguardia che le ha attirato le accuse di un soggiacente e tutto omologato desiderio di occupazione dei centri del potere intellettuale. Se si accogliesse questa imputazione, tuttavia, non si comprenderebbe l’importanza teorica e pratica del lavoro svolto dalla neoavanguardia nel suo complesso, giacché l’obbiettivo strategico primo e più cogente, nell’Italia di quegli anni – da una parte travolta da un boom tanto folgorante quanto fantasmagorico e sfuggente, dall’altra, sul piano artistico, ancora ferma su posizioni neorealiste, in narrativa, di ascendenza ermetica, i...