1. La Storia della letteratura italiana di De Sanctis: manuale, saggio o romanzo?
Il primo ad aver parlato della Storia della letteratura italiana come di un romanzo sarebbe stato Giacomo Debenedetti: è quanto hanno sostenuto alcuni studiosi in diretto riferimento alla sua Commemorazione del De Sanctis, pubblicata nel 1934. In realtà, pur avendo riletto questo intervento più volte, non vi ho trovato traccia alcuna di un’esplicita definizione della Storia come romanzo.
Debenedetti, infatti, si limita a istituire un parallelo tra il manuale di De Sanctis e i Promessi Sposi, notando come le due opere siano accomunate dall’obiettivo di sviluppare «un mondo ideale in un mondo storico». Sostanzialmente, la felice formula dell’“ideale calato nel reale”, elaborata per Manzoni, viene piegata a illustrare la concezione filosofica sottesa alla Storia di De Sanctis, sempre alla ricerca di un’ideale perfezione artistica e spirituale e, in quest’anelito mai interamente soddisfatto, sempre costretto a misurarsi col limite della realtà. È come se il punto di vista da cui De Sanctis giudica fosse esterno alla storia e al reale, quasi aposterioristico; e una spia linguistica di questo atteggiamento mentale è da rilevare nella martellante ripetizione, nella scrittura della Storia, di stilemi quali: «manca a», «gli manca…», «ci è… ma non».
Se definisce De Sanctis critico estetico e storico dell’ideale, Debenedetti, però, dichiara: «non mi lascerò certo sedurre a fare del De Sanctis un poeta» (e, in tale contesto, la parola “poeta” va intesa in senso ampio, nell’accezione che sarà, poi, crociana). Pertanto, quando prende in esame quegli autori che rappresentano i controideali emergenti nella Storia desanctisiana (affermando, ad esempio: «ecco, più o meno, i Don Rodrighi e gli Innominati e i Don Abbondi della Storia della letteratura italiana»), non sono persuasa del fatto che debba essere preso alla lettera. Debenedetti afferma, infatti, che la Storia è «una di quelle titaniche creature, figliate in un momento di sapere quasi magico, e sopravvissuto solo nell’atteggiamento inimitabile del gesto creatore»; e commenta anche che De Sanctis «non riuscì a fare un libro di scuola. E nemmeno un libro che faccia scuola». Non sostiene, invece, in modo esplicito e inequivocabile, che questo libro appartenga al genere romanzesco.
Se, dunque, non è stato Debenedetti a definire la Storia un romanzo, resta aperto almeno un problema: se questa interpretazione possa avere un qualche fondamento.
Vittore Branca addirittura considera l’opera desanctisiana
il più bel romanzo storico italiano dopo i Promessi sposi: storia di una Lucia-Italia, bella, pura e celeste nel suo cerchio nativo, insidiata poi da don Rodrighi corruttori (principi, Spagna, Chiesa) ma salvata dai Cristofori e Federighi della nuova scienza e della nuova letteratura (da Galileo a Parini), e che approda infine alla pace dell’unità nazionale e giunge alle felici nozze col liberalismo cattolico, promosse dal Manzoni e benedette dalle “campane […] a distesa che annunziano l’entrata degli italiani a Roma” […] È il racconto […] tutto romantico e romanzesco, della caduta e della redenzione di una coscienza: della coscienza intellettuale e morale d’Italia, e del dramma spirituale della sua decadenza e del suo rinnovamento, attraverso contrastati progressi e alterne corruzioni.
In ogni caso – continuo a chiedermi –, ha veramente senso tale ipotesi di lettura?
È ben noto che la Storia nacque come manuale scolastico: Croce ne ricostruì la genesi in un intervento ancora valido, successivamente raccolto nel volume Una famiglia di patrioti. Da sottolineare solo che De Sanctis cominciò il lavoro nell’estate del 1868 e che, dalla corrispondenza epistolare con l’amico Marciano, risulta che fino alla metà del 1871 continuò a credere che l’opera fosse destinata agli studenti: a pochi mesi dalla fine del secondo e ultimo volume, però, egli confessò di essere, ormai, cosciente di non aver scritto un compendio per le scuole. Questa evoluzione sembra trovare riscontro nella Storia stessa: i primi tre capitoli appaiono, infatti, i meno costruiti e coerenti; i due sulla prosa e quello sul Trecento sembrano ispirati da un’intenzione prettamente informativa, propria di un manuale (laddove si parla di prosa, mi pare che De Sanctis sia generalmente più preciso nell’esposizione didattica e meno originale nell’interpretazione, il che potrebbe essere letto come una conferma della sua netta predilezione per la poesia); dal capitolo sulla Commedia, invece, si nota uno stacco e si susseguono una serie di vere e proprie monografie critiche, finché, negli ultimi due capitoli, il tono cambia e assume un prevalente taglio etico-politico.
Anche ammesso che tale dinamica interna sia effettivamente riscontrabile e condivisibile, sono convinta del fatto che non si debba giudicare la Storia, in quanto manuale, facendo riferimento a parametri attuali, altrimenti essa parrà inevitabilmente un’opera parziale e poco “scientifica”: il lavoro di De Sanctis va, invece, contestualizzato ed esaminato alla luce delle esperienze storiografiche coeve e, soprattutto, precedenti.
A tale proposito, risulta di grande utilità la consultazione della classica Storia delle storie letterarie di Giovanni Getto, attenta a valorizzare l’impianto estetico che è alla base dell’opera desanctisiana, seppur nella consapevolezza che la sua asistematicità e l’ambiguità delle sue oscillazioni terminologiche non consentano di considerarne l’autore propriamente un filosofo. L’importanza del “manuale” desanctisiano consiste, invece, secondo Getto, nell’aver proposto un modello storiografico nuovo ed efficace, che riesce a conciliare insieme la preoccupazione di tracciare un’unitaria linea di svolgimento storico della letteratura e la coscienza del valore assoluto dell’arte. L’opera si presenterebbe, dunque, come una «storia della cultura, della cultura letteraria, del fatto espressivo in cui si sensibilizza e si palesa la vita di un’intera civiltà».
Affermando l’autonomia dell’arte in quanto arte e, contemporanea-
mente, la sua dipendenza dalla vita spirituale tutta, De Sanctis tracciava, dunque, una storia letteraria in cui confluivano – giobertianamente – la civiltà e la cultura di una nazione; e – aggiungerei – accortamente glissava sul dilemma tra autonomia ed eteronomia dell’arte. Parlando dell’ideale desanctisiano di un armonioso connubio tra scrittore e cittadino, Getto cerca di giustificare il ricorrente prevaricare, nella Storia, dell’ottica civile su quella estetica, giungendo alla conclusione che l’interpretazione etico-estetica della storia letteraria sia dovuta all’esperienza del De Sanctis critico militante che, “naturalmente”, giudica in base al proprio gusto e a qu...