1. E oltre (a mo’ d’introduzione)
L’abbondante fioritura di scrittori di origine siciliana nella storia letteraria dell’Otto-Novecento ha consentito a molti studiosi di parlare propriamente di una ‘letteratura siciliana’, ad altri di precisare che piuttosto si tratterebbe di una ‘letteratura in Sicilia’, e un po’ a tutti di sottolinearne l’eccellenza, che pochissime altre regioni italiane potrebbero eguagliare. Non si tratta, naturalmente, di stabilire discutibili primati (che sarebbero comunque compensati da ben altri, e tragici, primati di segno contrario) o, ancor peggio, di gloriarsene ma piuttosto di ragionare e distinguere.
Distinguere tra scrittori che hanno coltivato un’ostinata ‘isolitudine’ (così la chiamava Gesualdo Bufalino, che se ne intendeva) e altri che non hanno esitato a raggiungere i centri culturali dell’Italia (talvolta recandosi ben più a nord), scontrosamente custodendo un sentimento ambiguo che Leonardo Sciascia amava riassumere con il verso «vuote le mani, ma pieni gli occhi del ricordo di lei» del poeta arabo-siculo (o siculo-arabo) Ibn Hamdis: talvolta continuando, anche da lontano, a fare della Sicilia il centro della propria espressione letteraria (penso soprattutto a Vincenzo Consolo e a Giuseppe Bonaviri), talaltra optando per orizzonti culturali assai diversi ma non meno centripeti (penso alla Praga elettiva del palermitano Angelo Maria Ripellino, o alla Spagna dell’altro palermitano Carmelo Samonà). Ma distinguere anche, per esempio, tra chi ha provato, con slancio utopico e commovente fiducia nel potere dell’espressione romanzesca, a creare con materiali siciliani un’‘opera mondo’ (mi riferisco, ovviamente, a Stefano D’Arrigo ma anche – perché no? – a Federico De Roberto) e chi, d’altro canto, ha cesellato microcosmi scritti capaci (o quasi) di compensare vertigini e spaesamenti ben poco legati alla realtà circostante (penso a un Lucio Piccolo, a un Angelo Fiore, a un Antonio Castelli).
E, dopo aver distinto, ragionare anche sull’oggi, sulla sopravvivenza eventuale – nel XXI secolo – di quel ch’è stato, provando però a capire anche quel che di nuovo sta accadendo nelle sicule scritture (o nelle scritture in Sicilia). Per non cedere alla tentazione di celebrare l’ennesima ‘fine’ (in questo caso, di una tradizione gloriosa).
Si può cominciare, magari, con il confronto tra due incipit.
«Partivamo quando l’aurora nasceva con un color di rosa fra i fichidindia. Come in tutti i contadi, il paese era sveglio, e le campane già vi suonavano perdendosi per anfratti e grotte, o nei piccoli corsi d’acqua che ne tremavano». È l’inizio de Il vicolo blu (2003), penultimo romanzo di un già settantanovenne Bonaviri, morto poi nel 2009.
«Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa. Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue». Così comincia Cuore cavo, secondo romanzo, edito nel 2013, di Viola Di Grado, classe 1988.
Cosa possono avere in comune due scritture di questo tipo? Nelle poche righe di Bonaviri è avvertibile, con chiarezza, una dichiarazione di fedeltà a se stesso, ai propri esordi (si pensi a Il sarto della strada lunga, ‘gettone’ vittoriniano del 1954), ma anche a una tradizione narrativa siciliana che ha finito per coincidere – grazie all’apporto di Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Vittorini, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, D’Arrigo, Consolo, Bufalino – con quel ‘cronotopo Sicilia’ che ha costituito per il lettore colto la versione ‘alta’ e nobilmente problematica di quell’immagine, invece degradata e stereotipata (grondante delitti d’onore, scacciapensieri e fichidindia), della Sicilia che il melodramma, la letteratura e il cinema popolare hanno contribuito a fissare. Ma niente di tutto questo, mi sembra, è rinvenibile nella prosa della Di Grado, e non soltanto per ragioni di aggiornamento lessicale: basterebbe confrontare, nelle poche righe citate di entrambi i romanzi, la frequenza del pronome personale di prima persona in Cuore cavo con l’apertura plurale (e dunque ‘comunitaria’) del testo di Bonaviri.
Ma come riassumere i connotati tipici di questa famosa tradizione letteraria siciliana, al di là degli stereotipi e delle apparenze contenutistiche? All’incirca così, molto schematicamente: coscienza scontrosa di un’alterità antropologica, che consente allo scrittore di farsi testimone e giudice del passato e dell’oggi; antistoricismo tenace, quasi sempre di matrice materialistica, talvolta proteso all’interrogativo metafisico; proiezione verso la grande cultura europea, che convive agevolmente con la scelta dell’isola e degli isolani come oggetto d’analisi; tentazione frequente del romanzo–cattedrale, affresco sociale o saga familiare, perfino epos reinventato; scrittura che procede sui sentieri sinuosi della prosa lirica e perfin barocca o su quelli, non meno sinuosi, del ragionamento analitico in stile scabro ed essenziale. Un quadro che a ragione è stato rubricato all’insegna della ‘modernità infelice’.
La domanda che ci poniamo è questa: contano ancora, per i narratori siciliani di oggi, le ‘genealogie’? C’è in essi il riconoscimento di una discendenza dalla linea ‘lirica’ Verga-Vittorini-D’Arrigo-Bonaviri-Consolo o da quella ‘prosastica’ De Roberto-Pirandello-Borgese-Brancati-Sciascia? Nascono ancora grandi eccentrici o grandi incompresi come, in passato, Tomasi di Lampedusa, Fiore, Samonà, Bufalino?
È ben lecito dubitarne, alla luce di quel che si dirà fra poco. Ed è possibile, insomma, che il ‘silenzio’ narrativo degli ultimi anni di Consolo (che pubblica l’ultimo romanzo nel 1998 e muore nel 2012) sia anche l’emblema della fine di una tradizione che in questo suo estremo esponente aveva cristallizzato tanto la capacità di confrontarsi mitopoieticamente con la storia quanto la ricerca d’un codice linguistico maturo e originale, frutto di sperimentazioni graduali e riflessioni profonde. Il ‘silenzio’ di Consolo potrebbe essere stato, in altre parole, il segno più evidente di quell’«estinguersi di un’utopia per più di un secolo opposta all’omologazione».
Ed è possibile, d’altra parte, che lo straordinario successo dei romanzi di Andrea Camilleri (classe 1925) si spieghi con la sua capacità di entrare in perfetta sintonia con un orizzonte d’attesa aduso a modelli narrativi internazionali più che italiani (e siciliani): di un pubblico italiano, insomma, che legge Banana Yoshimoto e non Gianni Celati, o preferisce Carlos Ruiz Zafón ad Alberto Ongaro. Perché, in fondo, l’immagine stereotipata dei siciliani funziona, in taluni libri di Camilleri, quanto la sua spensierata intuizione-invenzione di un linguaggio fittizio e geneticamente seriale, facilmente riducibile a cliché e dunque riproducibile e (paradossalmente) traducibile quanto la prosa di un Baricco. Insomma, mi pare che Camilleri abbia registrato lucidamente la fine della tradizione bisecolare della grande narrativa siciliana e ne abbia intelligentemente riusato la scorza, a scopo ludico ed evitando di accostarsi al nocciolo più profondo di essa.
Non meno internazionali, non meno lontani dalla Sicilia, sono i ben diversi punti di riferimento di un’autrice come Viola Di Grado, di sessantatre anni più giovane di Camilleri, o di altri autori siciliani d’età compresa fra i quaranta e i cinquant’anni, come Nino Vetri o Giorgio Vasta o Evelina Santangelo. Insomm...