1. Il posto della pragmatica nella analisi semiotica
La pragmatica giuridica è l’analisi del linguaggio giuridico sulla base delle sue relazioni con i suoi utenti e usi tipici. Considera le situazioni tipiche di uso del linguaggio, ivi inclusa la influenza della presenza di altri testi. Si tratterà dunque non delle relazioni occasionali, che sono oggetto di studio della sociologia, della storia e della psicologia, ma delle relazioni che contribuiscono a determinare e spiegare la struttura semantica e sintattica del linguaggio. In altre parole, si spiega che un certo tipo di linguaggio è fatto in un certo modo perché svolge certe funzioni.
L’aspetto pragmatico della semiotica giuridica viene spesso ignorato e in tal caso si tende ad assimilare la sua pragmatica a quella del linguaggio ordinario: questo spiega gran parte delle teorie che affermano che “in realtà” il linguaggio giuridico non può funzionare nel modo in cui appare funzionare (ad esempio le teorie scettiche della interpretazione).
Ritengo dunque che il livello pragmatico di analisi linguistica sia il livello primario a cui si può operare la comparazione tra tipi di linguaggio diversi, che spiega l’approccio intuitivo con cui compariamo appunto tipi di linguaggio nel loro complesso, per esempio il linguaggio ordinario e il linguaggio delle scienze empiriche o quello della morale o del diritto. La (frequente) mancata considerazione del livello pragmatico come un necessario elemento della pratica linguistica spiega che questa comparazione semiotica talora si risolva in un riduzionismo, il tentativo di spiegare le differenze asserendo che un solo tipo di linguaggio sia il vero linguaggio e tutti gli altri vadano descritti e spiegati rapportandoli al primo.
Dal lato della pragmatica va ricordato che essa si è sviluppata studiando singoli e particolari tipi di situazione e contesto e questo ha assicurato agli studi pragmatici una impostazione empirica che ha dato molti frutti. Come vedremo, ci sono peraltro anche considerazioni pragmatiche di più ampio raggio che riguardano tipi di linguaggio nel loro complesso e che non devono essere trascurate. Per spiegare certe differenze e regole (pragmatiche) particolari che riguardano appunto considerazioni pragmatiche di ampia portata, non ci si può occupare solo dei singoli contesti, ma anche del contesto dei contesti. Per esempio, le caratteristiche differenziali tra linguaggi del diritto, il linguaggio ordinario e il linguaggio delle scienze. Questa triade è quella che incontriamo più spesso nelle discussioni sul linguaggio giuridico; per spiegarla ci troviamo di fronte ad altre distinzioni di incerta portata e fondamento, come le differenze tra linguaggi ordinari e tecnici, artificiali e naturali, formalizzati e non. Tutte queste e altre distinzioni rimangono incomprensibili finché non vengono rapportate alla pragmatica, alle funzioni e agli usi che hanno fatto dei linguaggi quello che sono e li mantengono tali.
Quello che si sente dire più spesso è che i discorsi giuridici sono svolti in un linguaggio solo parzialmente tecnico. Di rado però si cerca di precisare cosa si intende con questo termine. Sappiamo per certo che un linguaggio tecnico è quello usato dai tecnici, gente addestrata a progettare, costruire o usare oggetti e strumenti complessi: per esempio macchine, edifici, sostanze chimiche. Quando diciamo che i giuristi usano un linguaggio tecnico però non intendiamo certamente che il linguaggio giuridico sia tecnico perché esso riguardi la manipolazione di oggetti materiali complessi, sappiamo che è tecnico con riferimento al diritto, che non è oggetto materiale, quindi dobbiamo intendere qualcosa di diverso. La nostra attenzione in questo caso si appunta su aspetti lessicali e sintattici, la presenza di termini “tecnici” perché poco abituali e di costruzioni sintattiche complesse e anch’esse non abituali; insomma proprio la presenza di termini e costruzioni poco abituali è probabilmente sentita come tecnica da parte del laico. Tutto qui? C’è un problema: sono i giuristi che abitualmente distinguono tra il significato comune dei termini usati in diritto e il loro significato tecnico-giuridico e questo ci fa sospettare che forse la differenza importante risiede altrove che nel grado di difficoltà percepita. Se non altro per i giuristi il significato “tecnico” è quello a cui sono abituati e quindi non necessariamente difficile per loro.
Di fatto la proprietà di essere difficile è un punto di partenza per l’analisi, dato che le nostre intuizioni linguistiche sono importanti e non vanno ignorate. La tesi di questo scritto è che il nocciolo della distinzione risiede però altrove e non può essere spiegato in termini semantici e sintattici. Dobbiamo andare oltre all’attenzione per le singole parole o costruzioni sintattiche, che non sono i soli aspetti di un linguaggio. Il fatto che il linguaggio giuridico sia difficile credo sia un sintomo immediatamente percepibile di una peculiarità pragmatica del linguaggio. Certo quando cerchiamo un tale aspetto pragmatico dobbiamo essere preparati a tollerare un maggior grado di vaghezza e imprecisione: fattezze che caratterizzano un’area così ampia di espressioni avranno per forza delle definizioni piuttosto vaghe e molte eccezioni.
Per l’intanto si può dire che il linguaggio giuridico è composto in gran parte di termini appartenenti alla lingua naturale e in misura assai minore ad altri linguaggi comunemente considerati tecnici (ad esempio quello della medicina). Solo per una parte relativamente minore il diritto è composto anche di termini specificamente giuridici, che vengono chiamati appunto tecnico-giuridici. Questi termini possono essere anche parole di uso quotidiano, ma usate in senso tecnico-giuridico. Incidentalmente questo rende il discorso giuridico allo stesso tempo più e meno comprensibile per i profani di quanto non sia, per esempio, la fisica, dove ogni estraneo si rende conto a prima vista di non capire. Il laico capirà di più di una pagina di gergo giuridico, ma al prezzo di non rendersi conto che in realtà probabilmente non capisce molto.
Una maggior attenzione agli strumenti e ai problemi semiotico-pragmatici può dare una nuova dimensione a questi problemi tradizionali sulla tecnicità del diritto, una famiglia di termini che da un lato sembra chiarissima, ma dall’altro è assai difficile da definire.
In un tale quadro un problema semiotico fondamentale del giurista diviene quello di individuare i diversi sistemi semiotici che concorrono alla produzione e comprensione dei discorsi giuridici concreti: in primo luogo quelli delle norme giuridiche e quelli delle descrizioni delle norme giuridiche. Lo stesso diritto infatti, inteso come un complesso di regole o norme potrebbe essere considerato come un sistema semiotico, che concorre a regolare la produzione di discorsi giuridici. Dobbiamo chiederci dunque se il diritto può essere esso stesso considerato come una lingua, oltre che come un insieme di discorsi: dunque non solo come un complesso di istanze del linguaggio ordinario, quali ad esempio un romanzo o una conversazione tra amici, ma come un sistema cioè un potenziale generatore di infinite istanze linguistiche tutte comprensibili in base al riferimento al sistema.
A questa domanda non si può rispondere senza adeguati strumenti concettuali. Alcuni di tali strumenti sono forniti solo dalla riflessione sugli aspetti pragmatici del linguaggio giuridico. Molti problemi dell’analisi semiotica del diritto vanno infatti riportati alle diverse funzioni strutturali dei discorsi presi in considerazione; elementi appunto della loro pragmatica, costituiti da regole pragmatiche che i parlanti seguono e “sentono”, anche se spesso senza rendersene conto. Queste regole determinano in modo decisivo la struttura semiotica del linguaggio usato, e in particolare la sua struttura definitoria, per intenderci come sono usate le parole, spiegando così perché mai capiamo in modo relativamente concorde ciò che non dovremmo capire affatto se davvero ci limitassimo ad usare le sole regole semantiche e sintattiche.
Si è detto che la pragmatica giuridica è la parte dello studio del linguaggio giuridico che si focalizza sulle sue relazioni con gli utenti tipici e con le situazioni tipiche di uso; ivi inclusa la presenza di altri testi. Tali effetti sono anche chiamati ‘funzioni del linguaggio’ per sottolineare che in questo caso non ci si occupa di qualunque effetto dell’uso di un linguaggio, cosa che porterebbe ad occuparsi di tutti i fenomeni sociali; ma solo degli effetti strutturali, che possono essere attribuiti ad aspetti persistenti del linguaggio in questione e che a loro volta determinano alcuni di tali aspetti. Sono gli aspetti persistenti che vanno considerati quando cerchiamo di descrivere il linguaggio, di spiegare come mai è quello che è, e come mai riesce a “funzionare”. Gli aspetti occasionali sono ovviamente importanti, ma vengono studiati da scienze sociali diverse dalla semiotica, come la storia, la sociologia e la psicologia. La distinzione tra considerazioni pragmatiche e fattori socio-psicologici è tutt’altro che facile e netta; questo dei confini è un problema costante della pragmatica e bisogna dire che la ricerca di impossibili distinzioni nette può condurre a conclusioni scettiche sul significato. Il significato invero è influenzato da ogni tipo di facoltà e capacità umana e non può esistere in isolamento, tuttavia la pragmatica come disciplina semiotica non si occupa di ogni fatto che influenza il linguaggio, ma solo dei fatti che influenzano il linguaggio in modo strutturale, cioè determinando sue fattezze persistenti, i fatti necessari a spiegare come si configura il significato e la sintassi in situazioni tipiche; sono fatti che influenzano le altre regole semiotiche. Un linguaggio ha potenzialmente infiniti usi, ma una o poche funzioni, in questo senso. Le regole pragmatiche peraltro sono usate abilmente da utenti che non s...