Il fascino e il mistero
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Il fascino e il mistero

Sulle tracce di perdute storie a Bologna e dintorni

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Il fascino e il mistero

Sulle tracce di perdute storie a Bologna e dintorni

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Sette itinerari per Bologna e dintorni dove la curiosità e la sorpresa si fondono a tal punto da rendere arduo capire dove termina una e inizia l'altra. O viceversa. Nonostante i molteplici riferimenti a cose, luoghi e storie del passato non è un libro di storia locale, ma una sorta di quaderno di viaggio, anche se questo viaggiare, per chi risiede a Bologna, non porta in luoghi lontani.
La tesi di fondo è che non occorra allontanarsi troppo per provare l'emozione di trovare qualcosa di insolito, appartenuto a epoche trascorse, lontane o recenti che siano. Basta uscire dall'uscio di casa per imbattersi nelle testimonianze di vicende, cose o persone che la Storia ci ha lasciato in eredità. Il leitmotiv di queste pagine è la sorpresa di scoprire come queste testimonianze siano ancora lì, più o meno nello stesso posto dove il passato le ha viste nascere, morire o più semplicemente trascorrere il tempo che il caso o gli uomini hanno loro regalato. Sono ancora lì, sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno se ne accorga. O quasi.
Il libro si trasforma allora in una insolita guida con itinerari inconsueti, per lettori, o viaggiatori, curiosi alla ricerca di storie quasi dimenticate, ma non scomparse. A corredo di queste pagine alcune cartine illustrate indicano il percorso e offrono qualche consiglio a chi, oltre alla lettura, volesse intraprendere questi piccoli viaggi che possono richiedere mezz'ora o mezza giornata. Dipende dal tempo e dalla capacità di stupirsi che ognuno ha a disposizione.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788873816386
Categoria
Viaggi
Le briciole e le tracce
Tutto è cominciato sfogliando un piccolo libro con la copertina bianca. Consigliato a mia figlia ai tempi delle scuole medie, è una miscellanea di storie, fiabe e leggende ambientate nelle terre emiliane. C’è un po’ di tutto: vecchie favole in auge quando erano ancora tramandate oralmente e cadute in disuso proprio quando l’industria editoriale si era presa la briga di trascriverle in nero su bianco. E con illustrazioni a colori. L’antico detto per cui verba volant scripta manent non sembra aver avuto quel successo che secoli di saggezza davano ormai per certo. Tra le pagine incontriamo fantasmi all’interno di castelli e apparizioni en plein air del demonio che risulta regolarmente sconfitto dalla santità, o dalla furbizia, di qualcuno che ne sapeva, appunto, una più del diavolo. La mia lettura scorreva veloce, accompagnata da quel disincanto tipico dell’adulto di fronte alle cose ingenue dell’infanzia. È tra queste pagine che mi sono imbattuto per la prima volta nella storia d’amore di un nobile bolognese per una certa Lucia. Un incontro fugace, destinato a non lasciare traccia, se questa leggenda non l’avessi incontrata di nuovo nel corso di certe mie scorribande letterarie tra la storia medievale di Bologna. A questo punto la curiosità ha il sopravvento sul disincanto spingendomi a saperne di più. Navigazioni su internet, vecchi libri trovati sugli scaffali della libreria comunale o acquistati sulle bancarelle dell’usato. Un paio di settimane dopo ne sapevo quel tanto da avere le idee un po’ più chiare. Siamo di fronte ad una leggenda che ha origine nel XII secolo e si diffonde nei secoli successivi. Sembra una favola senza tempo più che una cronaca di altri tempi. Viene voglia di raccontarla ricorrendo al più classico tra gli incipit
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C’era una volta… una città medievale che conosceva un periodo di sviluppo così intenso che oggi, per definirlo, scomoderemmo la parola inglese boom. Spuntano torri arcigne, arriva la vivacità, accompagnata dai soldi, di studenti giunti da ogni dove per frequentare lo Studium, sorto non da molto, ma già celebre. C’è fame di case e così si ingrandiscono quelle che già ci sono con un’invenzione che proprio qui troverà la fortuna più sfacciata, nel senso di esibita: i portici. Anche le mura cittadine vanno strette e si deve pensare a edificarne una nuova cinta. Tutte cose che si possono vedere ancora oggi, a parte i canali che attraversavano l’abitato per dare energia all’industria di allora: mulini, filatoi e opifici vari. Tutto questo a fare da sfondo alla consueta vita di ogni giorno fatta di pratiche religiose, turbolenze con i centri vicini, conflitti tra fazioni in lotta per il pubblico potere e faide private. In una delle famiglie più in vista, i Chiari o Clarii, nasce Lucia, una bimba che al tempo della fanciullezza dicono già bella e virtuosa. Di lei si invaghisce il giovane rampollo di una famiglia nobile e ricca: Diatagora Fava, che tutti chiamano, chissà perché, Rolando. È bene ricordare che a quel tempo le ragazze non avevano certo la libertà di uscire, muoversi e magari fidanzarsi come oggi. Facile dunque pensare che i loro sguardi si siano incrociati per la prima volta in qualche chiesa durante le funzioni religiose. In amore, come nella vita, le cose seguono però labirinti che ti portano dove non vuoi arrivare: Rolando deve fare i conti con la vocazione religiosa di lei che sceglie di prendere i voti ed entrare nella congregazione delle suore camaldolesi. La destinazione è il convento di clausura di Santa Cristina situato ai confini del territorio bolognese in una località isolata e impervia che le antiche mappe designavano con il nome, non casuale, di Stifonte. Stava infatti ad indicare la presenza di sette sorgenti da cui sgorgava un’acqua limpida che oggi di sicuro farebbe la sua figura imbottigliata sugli scaffali dei supermercati o in qualche patinato spot televisivo. Sempre da quelle parti c’era poi un castello fortificato dai bolognesi dove una guarnigione militare sorvegliava quelle terre di confine e di passaggio.
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Rolando non si rassegna e arruolandosi si fa inviare proprio in quella zona. Il motivo è semplice: avrà l’occasione di passare tutti i giorni davanti al convento con la speranza di vederla. C’era un sentiero, e forse c’è ancora, che inerpicandosi sul crinale di colline e calanchi passava proprio davanti alla finestra della cella dove Lucia trascorreva il tempo della clausura. Con un pizzico di fantasia possiamo immaginare il quotidiano percorso di Rolando, alias Diatagora, che in sella al suo cavallo si inerpica su questo disagevole tratturo con l’unica soddisfazione di poter incrociare lo sguardo di Lucia dall’angusta finestra. La cosa andò avanti per un po’ di tempo, non sappiamo quanto. Poi successe qualcosa che narrazioni posteriori riportano con varianti diverse. C’è chi dice che questo continuo andirivieni di un cavaliere davanti alle mura del convento avesse insospettito qualcuno che brigò fino al punto di far murare la finestra.
Un’altra versione racconta invece di un incontro furtivo che dà modo a Lucia di affrontare il cavaliere. Nessuno saprà mai cosa si siano detti, ma visto che fu l’ultimo incontro si può immaginarne la tristezza e il senso di rassegnazione ad un destino che per loro aveva già scelto strade diverse. Lucia confessa a Rolando che la sua vocazione le riserva una vita di preghiera e contemplazione e non c’è spazio per altri e più mondani sentimenti. Un incontro che possiamo immaginare in mille modi diversi, ma che portano tutti a pronunciare quella parola che nelle storie d’amore ha il sa pore più amaro: addio. E di addio si tratta realmente, visto che di lì a poco troviamo Rolando intento a partire per la Terra Santa arruolato in una di quelle crociate cui molti bolognesi parteciparono con il sostegno della fede e la forza della spada. Nel frattempo a SetteFonti il tempo continua a scorrere con i ritmi di allora: preghiere, penitenze e lavori di cucito nella solitudine e nel silenzio della clausura. Lucia segue il percorso della sua vocazione, ma sale anche i gradini della gerarchia diventando Badessa. Amata e stimata morirà lasciando quanti la conobbero a rimpiangere la sua dedizione a Dio e alla Virtù. Qualcuno dice che al momento della sua morte le sette sorgenti smisero di zampillare.
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Ignaro della morte di Lucia il nostro cavaliere combatte valorosamente contro gli infedeli che occupano i luoghi santi, ma la Storia studiata sui banchi di scuola ci dice come andarono a finire quelle guerre di religione. Rolando viene fatto prigioniero e gettato in catene in una cella, forse non molto più scomoda di quelle destinate alla clausura religiosa. Si racconta che i nemici accortisi dell’alto lignaggio e del suo valore come guerriero gli abbiano proposto di convertirsi all’Islam come unica alternativa alla tortura e alla morte. Sono momenti non certo facili e si può ben capire come Rolando senta il bisogno di rivolgere una preghiera al suo primo e mai dimenticato amore. Quella notte stessa Lucia gli appare in sogno rivelandogli che lei non è più tra i vivi, ma farà di tutto affinché le sue preghiere siano esaudite. I sogni alle volte si avverano come i miracoli e a quei tempi i miracoli succedevano davvero, forse perché la gente aveva più fede, o ingenuità, di oggi.
L’indomani, al risveglio, Rolando ha la sorpresa di scoprirsi libero, con le catene in mano e l’incredulità sul volto. Si accorge poi di non essere più in una terra lontana, ma di trovarsi proprio a SetteFonti. Certe volte le sorprese sono come i guai: non finiscono mai. Di lì a poco Lucia gli appare in visione e lo invita a raggiungere la sua tomba presso il convento e depositare lì quelle oramai inutili catene. Il nostro cavaliere obbedisce e raggiunto il sepolcro vi depone quei ceppi che fino al giorno prima gli imprigionavano i polsi e l’anima. Qualcuno dice che in quel preciso istante le sette sorgenti ripresero a sgorgare.
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Questo è il racconto leggendario che fonti storiche attestano assai diffuso in epoca medievale. C’è da chiedersi come mai una storia così sia stata pressoché dimenticata. Ho provato a chiedere a qualche bolognese d.o.c. se mai avesse sentito parlare di questa vicenda, ma la risposta è stata sempre improntata ad un ironico diniego. Sul punto tornerò in seguito lasciandomi per ora cullare dall’idea di percorrere un itinerario alla ricerca di eventuali testimonianze. Come ho già accennato all’inizio ho fatto ricorso a guide e libri di storia locale trovati qua e là e alla navigazione, piuttosto estemporanea, su internet. Dopo aver raccolto e sistemato i dati rinvenuti mi sono creato sulla carta un itinerario che aveva bisogno di essere verificato sul campo. Decido dunque di partire coinvolgendo l’inconsapevole ispiratrice di questa avventura: mia figlia Francesca. L’entusiasmo non manca anche se un po’ mitigato dalla consapevolezza di porre in gioco non tanto la mia autorevolezza di “storico”, quanto la mia credibilità di genitore. Un pizzico di strano entusiasmo pervade anche Francesca, che con i suoi tredici anni ha già lasciato alle spalle l’età per credere alle favole, ma come giovane e promettente rappresentante del gentil sesso, non resta insensibile al fascino romantico di una storia d’amore.
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È una giornata di fine dicembre, ma il tempo sembra essersene scordato. Il freddo non è pungente e soprattutto c’è un cielo azzurro inondato di sole. Partiamo da piazza Maggiore verso via Indipendenza non senza prima aver raccomandato a mia figlia di ricordare soprattutto i nomi, delle persone, dei luoghi e delle cose, che compaiono nel racconto. A volte i nomi sembrano avere un destino che li accomuna ai ricordi: sopravvivono a cose, fatti o persone che non ci sono più. E saranno proprio i nomi ad essere la chiave di volta di questo itinerario che inizia quasi di fronte alla chiesa metropolitana di San Pietro. Un palazzo tradisce le sue passate origini nobiliari ed esibisce le sue credenziali di lusso e prestigio: l’Hotel Baglioni. A poca distanza dal lussuoso ingresso un cartello ovale illustra la storia dell’edificio e la famiglia Fava, quella di Rolando, figura tra gli antichi proprietari. Dunque questo casato esisteva veramente e che fosse ricco lo dimostra l’imponenza di questo immobile. Poco più avanti imboccando sulla sinistra via Manzoni si arriva davanti ad un portone e di nuovo un cartello indica il casato dei Fava. Ritorniamo adesso sui nostri passi per raggiungere piazza Galvani su cui si affaccia il retro di quella fabbrica infinita, nel senso di mai terminata: San Petronio. Da qui ci infiliamo in una stradina stretta chiamata via del Cane. Questa è una di quelle strade che il destino, o la dislocazione urbana, ha relegato fuori dalla portata delle passeggiate dei bolognesi. L’assenza di negozi e la presenza di divieti alla circolazione la rendono quasi deserta se pure centralissima. Proseguendo fino all’incrocio con via Marsili troviamo sulla destra un altro immobile dalle indubbie fattezze senatorie. Qui il solito cartello ovale non perde tempo a indicare il nome di chi lo possedeva: palazzo Fava. Per conoscere il passato di questi edifici non basterebbero giornate intere, ma il mio scopo è un altro: accertare la presenza di questa famiglia e la sua importanza a Bologna, in aderenza con quanto emerso nella nostra storia. Tutto questo senza correre il rischio di annoiare una ragazzina di tredici anni che al momento sembra ancora apprezzare l’attendibilità storica delle parole paterne.
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Adesso ci dirigiamo nella vicina zona universitaria per entrare nella chiesa di San Giacomo Maggiore. Raggiungiamo il deambulatorio dietro l’altare e in alto troviamo il cenotafio, cioè una tomba vuota, di un nobile bolognese. Si chiamava Alessandro e nessuno sa dove riposi il corpo di questo ragazzo ventenne che morì nella battaglia di Lepanto nella seconda metà del XVI secolo. Un bassorilievo riproduce curiosamente la scena di una battaglia navale, mentre una lapide ci dice che apparteneva al nobile casato dei Fava. Sembra che combattere per la Cristianità fosse una tradizione di famiglia!
Per restare in tema di casati proviamo ora a cercare cosa rimane dei Chiari, o Clari, cui apparteneva la nostra Lucia. Non ho trovato alcun palazzo che testimoniasse come nel caso dei Fava, la presenza e la ricchezza di questa antica famiglia; se però a imbocchiamo via Castiglione fino alle vetrine della libreria Minerva, dove spesso mi fermo per acquistare qualche libro e sfogliarne altri cento, sul lato opposto si apre una strada fiancheggiata da una fila di portici e di sembianze medievali: via dei Chiari! Da una guida storica delle strade di Bologna apprendiamo che la denominazione discende dal nome di una ricca famiglia che possedeva, proprio in questa zona, diversi immobili. Un altro punto segnato a favore della attendibilità di questo percorso e un altro sorriso sulle labbra di mia figlia. Ritorniamo per un attimo alla nostra storia ricordando come Lucia entri nella congregazione camaldolese, che ieri come oggi appartiene all’ordine dei benedettini. Francesca previene la mia retorica domanda sulla presenza di questi camaldolesi chiedendomi, quasi a bruciapelo, se oggi c’è ancora qualche traccia che attesti il loro passato insediamento. Le tracce ci sono ed una non è distante da qui.
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Percorriamo via Santo Stefano verso la porta. All’incrocio con via Dante giriamo a sinistra per imboccare via Fondazza, dove abitò il più quotato tra i pittori bolognesi: Giorgio Morandi. Avanziamo con passo svelto sotto l’immancabile portico fino ad arrivare ad uno slargo dedicato a questo artista tanto famoso oggi quanto schivo in vita. Qui possiamo vedere un enorme complesso che fino a non molti anni fa era adibito a caserma e che oggi ospita aule universitarie. Nel medioevo era la sede di un convento camaldolese. Sulla piazzetta si affaccia una chiesa imprigionata dal ferro delle impalcature, condannata alla cattività fino alla fine dei restauri. Una targa, leggibile solo da una certa distanza, ci informa che l’edificio religioso risale al XII secolo ed è dedicato a Santa Cristina. Lo stesso nome del convento dove Lucia spese il tempo della vita e della clausura. Evidentemente una martire cui le suore camaldolesi erano particolarmente devote. A questo punto constatiamo come fino ad ora i pezzi del nostro puzzle si incastrino assai bene nella mappa della Bologna storica, anche ai giorni d’oggi. Abbiamo accertato, con una breve e piacevole passeggiata, la presenza storica dei Fava, dei Chiari e della congregazione camaldolese. Mia figlia non dà segni di cedimento ed io colgo l’occasione per cambiare decisamente rotta al nostro itinerario indirizzandolo fuori porta, verso le colline sopra il ramo di levante della via Emilia per scoprire se di questa leggenda è rimasta qualche altra traccia. O almeno qualche briciola.
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Indice dei contenuti

  1. Il fascino e il mistero
  2. Titolo
  3. Copyright
  4. Indice degli itinerari
  5. ITINERARIO 1: Le briciole e le tracce
  6. ITINERARIO 2: Provvidenza e Previdenza
  7. ITINERARIO 3: Outsiders
  8. ITINERARIO 4: Le urla e il silenzio
  9. ITINERARIO 5: La curiosità alle porte
  10. ITINERARIO 6: Sempre caro mi fu…
  11. ITINERARIO 7: Il colore del silenzio