The dancer
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Ben Mbasa è "The Dancer". Talento naturale. Pugile per caso. Partito dal Senegal e giunto nel Salento, terra magica e ricca d'energia, dove i destini di uomini provenienti da luoghi diversi s'intrecciano per dare vita a una storia "d'amore e di pugni".
Un racconto in 12 round che, attraverso uno sport antico e nobile come la boxe, parla d'amore in tutte le sue sfaccettature.
La tormentata passione di Ben per Lara, la sua donna italiana. L'affetto e la stima per Rocco Di Santo, manager e scopritore di talenti. L'amicizia e il tradimento.
Infine la chance inaspettata del match per il titolo mondiale al fianco del suo allenatore, da sempre convinto che proprio Ben sia il "miracolo" atteso da anni, colui che possiede "il graffio di Dio".
Parlare di boxe, con un linguaggio accattivante e un taglio cinematografico, per raccontare l'incontro-scontro di due culture apparentemente distanti ma in realtà sorprendentemente simili, come spesso accade per tutti i sud del mondo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788873817246

1° Round

Era la prima volta che metteva piede in una palestra di boxe. Si guardò intorno. La sua attenzione fu subito attratta dal vecchio punching ball che penzolava in un angolo. La mano si allungò per sfiorarlo, percependone la potente consistenza; una piccola spinta con il palmo... e il sacco nero sospeso al gancio oscillò nel vuoto. Il ragazzo fissava rapito il lento dondolio della pera consunta, accompagnato da un cigolio lamentoso. Sembra quasi di fatica...
“Ben!”
La voce imperiosa di Rocco lo distolse dai suoi pensieri. “Ti presento il mio socio Mazzancolla, grande pescatore, grande sparring partner, grande allenatore, grande amico.”
Il ragazzo guardò gli occhi azzurri e penetranti dell’anziano uomo di mare e immediatamente avvertì la sua grande saggezza. Gli venne in mente il Vecchio Marinaio di Coleridge, un autore che Don Bruno lo aveva spinto a leggere, tra i tanti altri che gli aveva consigliato, affermando che sforzarsi di leggere in italiano era il modo migliore per impararlo. Cercò di scandire bene le parole per non prendere papere con quel difficile cognome.
“È un grande onore conoscerti signor Ma...zancolla.”
Il vecchio lo valutò con un rapido sguardo, prima di assestargli un’energica pacca sulla spalla. Giacomo e Zeviv dal ring gli mandarono un saluto con il guantone, senza smettere di boxare. Ben rimase a osservare incuriosito suo cugino all’opera. Era sempre in movimento, tenendosi fuori della linea diretta dei colpi, molto differente da Giacomo che avanzava freddo, metodico, capace di guizzi imprevedibili. Nella sua mente si sovrappose un’altra immagine...
...Un ampio cerchio solcato nella sabbia. Le braccia di Hamud ondeggiano a mezz’aria, come serpenti in attesa di attaccare il nemico, gli occhi fissi sull’avversario studiano ogni possibile mossa, tutti i muscoli del corpo, adorno solo di un panno avvolto intorno all’inguine, si preparano a scattare... Tutt’intorno, i poeti griot recitano versi propiziatori suonando i tamburi, tra le benedizioni dei marabout e i canti d’incoraggiamento del pubblico presente.
Un ragazzino in piedi ai bordi del ring sabbioso, osserva attentamente ogni movimento di suo fratello maggiore, ripetendolo alla perfezione.
I due lottatori si avvinghiano a mani nude in un abbraccio d’acciaio, vince chi riesce a mettere a terra per primo l’avversario...
“Come te la cavi con le piccole riparazioni?”
Rocco gli fece cenno di seguirlo verso lo spogliatoio attiguo, riportandolo al presente.
C’era la doccia da riparare, una mensola da attaccare, i muri da imbiancare. Di Santo gli mostrò un armadietto pieno di ferri, alcuni arrugginiti, sparpagliati tra barattoli di vernice, tutto sommerso da un eloquente strato di polvere.
“Se hai bisogno di qualcosa, sono di là” disse lasciandolo solo.
Di là, i ragazzi continuavano ad allenarsi sul quadrato sotto lo sguardo attento di Mazzancolla.
“Forza Giacomì... alti quei guantoni! Ma che tieni oggi?”
Erano già tre anni che Giacomo Nardi si allenava alla Di Santo Boxe e finalmente aveva raggiunto l’agognato rango di peso medio più promettente del Team Pugilistico Di Santo. Aveva vinto tutti gli incontri locali e regionali e da professionista stava scalando velocemente la classifica italiana. Rocco lanciò un’occhiata alla sua bella foto in bianco e nero in tenuta da boxeur che troneggiava in palestra.
“Mi basterebbe che tu arrivassi dove non sono riuscito ad arrivare io...”
“Già... per colpa di una testata in piena faccia!” rispose Giacomo, che nutriva molta ammirazione e affetto per il suo maestro. Con suo padre aveva sempre avuto un rapporto faticoso. Il signor Nardi, titolare della storica officina “Nardi&Nardi”, non aveva mai digerito la folle scelta del figlio di lasciare un lavoro sicuro per fare a cazzotti su un ring. Non aveva mai creduto in lui, ecco tutto.
“Potrebbe capitare anche a me, maestro!”
“No Giacomo, tu te la devi aspettare e devi proteggerti sempre! Ricordati: una testata non è mai involontaria.” Nello spogliatoio attiguo, l’ultima frase arrivò all’orecchio di Ben che la ripeté a voce alta provando il suo esotico italiano: “Una testata non è mai involontaria”.
Giugno era arrivato scalzando con un’esplosione di colori e odori l’ormai vecchia primavera. Le labiate sprigionavano essenze inebrianti che riuscivano a penetrare nella palestra, aromi di timo, lavanda, rosmarino e menta riuscivano ad avere la meglio sull’odore di sudore e vernice fresca. Ben si guardò intorno soddisfatto. Con le riparazioni e qualche modifica funzionale, lo spogliatoio aveva assunto un aspetto diverso. Anche lui era cambiato. I capelli erano più lunghi, un accenno di barbetta gli incorniciava il mento e l’espressione dei suoi occhi era più quieta, anche se permanevano ombre nel suo sguardo.
Canticchiando un motivetto di successo italiano, ripose i suoi arnesi nella cassetta dei ferri e uscì dallo spogliatoio. La palestra era deserta, come al solito Giacomo e Mattia avevano lasciato guantoni e caschetto ai bordi del ring. Scavalcò la corda ed entrò nel quadrato. Raccolse un guantone e lo strinse tra le mani... Era sul punto di cedere all’impulso di infilarseli, quando Zeviv si affacciò all’entrata.
“Ah ah! Lo sapevo che ti avrei beccato ancora qui! Basta lavorare fratello, è sabato sera! Esci anche tu, da quando sei qui non ti sei mai mosso. Viene anche Monica...”
Come ultimo tocco, una spruzzata di profumo. Si rimirò allo specchio del suo armadio antico a due ante, ridotto a un caos di vestiti tirati giù dalle stampelle per essere provati e poi ributtati dentro alla rinfusa. Alla fine aveva scelto un abitino aderente stile sottoveste che le lasciava scoperte le gambe tornite e abbronzate. I capelli mori le arrivavano quasi alla vita, spazzolati all’indietro e trattenuti da una semplice fascia. Sapeva che le bastava poco per diventare bella. Col tempo aveva imparato a non sembrarlo, non a prima vista, perlomeno. Abiti larghi, capelli legati, niente trucco o vezzosità del genere, sguardo perennemente sotto controllo, in stile lievemente sottomesso che sembrava si addicesse alle donne del continente. Doveva smetterla di pensare a loro come a qualcosa di diverso da lei, su questo doveva ancora lavorarci parecchio, siamo italiane, si ripeteva, donne italiane, sarde comprese. Le donne pugliesi però, erano diverse. “Atavicamente fuori norma”, come le aveva spiegato la signora Elide raccontandole che il ruolo delle donne non era stato identico in ogni regione del Regno di Napoli. In tutte le regioni del sud tradizionalmente i figli maschi ereditavano i beni e il nome di famiglia, le figlie femmine venivano “sposate” o “monacate”. Nella casa pugliese, dove gli uomini erano già allora abituati a spostarsi per lavoro lasciando per lunghi periodi la casa, la linea di continuità familiare era femminile: non solo, fino all’inizio dell’Ottocento le donne mantennero in Puglia il diritto a ereditare che Federico II aveva riconosciuto dal 1200, e tradizionalmente la famiglia che si formava con il matrimonio andava ad abitare presso i parenti della moglie. Nonostante la storia successiva abbia ridisegnato confini costieri e omologato identità culturali multietniche in nome di quell’italianità unitaria fondata sullo sviluppo economico a discapito del patrimonio italico, soprattutto meridionale, le donne pugliesi avevano conservato nei secoli un loro modo autonomamente responsabile di affrontare la vita.
Quanto le piaceva ascoltare queste storie. Non poteva non essere grata alla signora Elide che desiderava più di lei che continuasse a studiare per non rendere vano il suo diploma di magistrali conseguito all’Istituto delle suore. “La concorrenza dei laureati disoccupati è troppa, il diploma non basta, devi specializzarti, che farai quando andrai via da qui?” le diceva a volte, con uno sguardo afflitto, come se serbasse chissà quali visioni nefaste. Ma lei scrollava le spalle e rideva del futuro. Non aveva proprio intenzione di andare via da lì. Si stava così bene, perché cambiare? Lei odiava i cambiamenti. Odiava parecchie cose, forse troppe, buon sangue sardo non mente, ma una l’amava, ne era certa. Amava la masseria. Amava imparare da Elide e Rocco a mandarla avanti, ci voleva molto impegno, senso estetico e cultura, bisognava essere svegli e sensibili, voler bene alla natura e tutto ciò che germoglia con le proprie cure. “Proprio come un figlio” sospirava a volte Elide, nascondendo un luccichio negli occhi. “Non ci pensi mai? Pensaci, dammi retta!” Monica sorrise tra sé. L’unica donna che poteva parlare di figli senza soffermarsi sul problema marito, era proprio la signora Elide. Un giorno le aveva consegnato con aria solenne il dvd di un film “meraviglioso, imperdibile” disse, “ti cambierà il modo di vedere l’esistenza femminile”. Si intitolava “L’albero di Antonia”, di una regista olandese che con questo film aveva vinto l’Oscar, un affresco di una piccola comunità rurale sull’arco di quattro generazioni, dal 1945 alla fine del secolo. L’albero di Antonia è quello genealogico, e la linea di ascendenzadiscendenza risulta tutta femminile: la madre di Antonia, Antonia, la figlia di Antonia, la figlia della figlia di Antonia. Il dvd era lì sulla mensola, ma ancora non l’aveva visto, non si sentiva pronta, anzi ne aveva anche un po’ paura. Il problema era tutto in quella parola: cambierà. Afferrò la borsetta, cercò le chiavi del motorino occultate in quel molle disordine tutto femminile, spense la luce e uscì a passo leggero sui sandaletti argentati col tacco.
Nella notte di luna piena, Ben si accingeva a chiudere la saracinesca della palestra, quando la vide arrivare in motorino.
“Allora che fai? La solita corsetta anche stasera?” lo apostrofò lei con ostentata ironia.
Lui l’avvolse in una lunga occhiata ammirata, stupendosi per la trasformazione.
“Non è bello che una ragazza se ne vada in giro da sola a quest’ora, soprattutto vestita così. Ti accompagno. Dammi un minuto per chiudere.”
Monica spense il motore ma restò in sella. Approfittò per accendersi una sigaretta mentre lo osservava muoversi con grazia e agilità innate.
“Somigli molto a Zeviv, sembrate fratelli.”
“È quello che lui vorrebbe, credo.”
“Lo so, è innamorato di tua sorella... Come si chiama?
Ha un nome bellissimo...”
“Livhà” rispose con una stretta allo stomaco.
“Ti manca molto, vero?”
“Mi mancano tutti. Dai, spostati che guido io. E butta quella cicca, non voglio il tuo fumo passivo nelle mie narici.”
Appena li vide arrivare, smarmittando lungo la strada in discesa, il solito sorriso a tutta bocca illuminò la faccia di Zeviv. Non riusciva davvero a nascondere quanto l’arrivo del cugino avesse reso la sua vita più felice. Passavano parecchio tempo insieme, specialmente la sera, quando Ben restava fino a tardi a fare i lavoretti in palestra, parlando di tutto ma soprattutto del loro Paese. Il Senegal era un’eccezione nell’Africa nordoccidentale. Nei suoi oltre cinquant’anni d’indipendenza non c’era mai stato un colpo di stato ed era considerato uno dei paesi dalle istituzioni democratiche più solide. La popolazione era sempre stata fiera dei suoi risultati di stabilità e democrazia, anche se Ben guardava con crescente preoccupazione al divario economico sempre più profondo tra i nuovi arricchiti dai fondi internazionali e investimenti stranieri e la popolazione sempre più impoverita e lasciata in condizione di arretratezza. Zeviv gli aveva risposto che gli sembrava che la stessa cosa stesse accadendo in Italia, in Europa, in America...
“Finirà che dovremo emigrare tutti in Cina fratello, rassegnati” gli aveva gridato Ben, preparandosi a subire l’attacco furioso del cugino come reazione al solo pensiero, ben sapendo che lui odiava i cinesi. Non gli asiatici in generale, solo i cinesi.
“E così il caimano è sbucato dalla tana!”
Zeviv si avvicinò battendosi la mano sul petto e guardandolo al di sopra degli occhiali specchiati.
“Dai, andiamoci a bere una birretta...”
“Grazie, ma preferisco fare una bella corsa sul lungomare, ho bisogno di sgranchirmi.”
Monica fissò la catena del motorino al lampione in stile barocco, ma sotto lo sguardo severo di Ben si affrettò a scioglierla. Con una scrollata di spalle, rimise la catena sotto la sella e amen, lo avrebbe lasciato lì slegato, tanto si conoscevano tutti, si poteva star tranquilli. Zeviv notò il cronometro appeso al collo di Ben.
“Ma è ancora quello...”
“Che mi regalò Don Bruno, sì.”
I cugini si scambiarono uno sguardo, Zeviv cercò di allontanarsi in fretta dal ricordo di qualcosa che faceva male a entrambi.
“Come sono i tempi?”
“Te lo dico domattina. Divertitevi, ragazzi. E togliti quegli occhiali da sole, non servono.”
“Riflettono la luce del suo abbagliante sorriso, è tutto studiato” disse Monica con ironia.
“Già. Con te ha funzionato” rise Zeviv prendendola per mano.
Ben sollevò sulla testa il cappuccio della felpa, schiacciò il pulsante del cronometro e schizzò via a passo sostenuto. Mano nella mano, Zeviv e Monica si stavano avviando verso l’entrata della discoteca, quando improvvisamente, annunciati da risate e sghignazzi, dal vicolo buio sbucarono tre balordi, teste rasate e piercing sparsi, che senza nessun preavviso li assalirono strappando Monica dalle braccia del ragazzo.
“Schifoso negro!”
Colpito selvaggiamente alla schiena e alle gambe, Zeviv non trovò neanche il tempo di reagire.
“Scappa Monica... Scappa!” fu l’unica cosa che riuscì a urlare prima che un calcio sferrato con tutta la forza si abbattesse sulla faccia.
“Basta! Così lo ammazzate!”
Istintivamente si era slanciata verso l’amico ferito, ma un braccio completamente ricoperto da una catena tatuata la bloccò.
“Un faccino così beddrhu e così scugnato! Che sei la sua zzita? Ti piace il niuru, eh?”
La risata stridula del balordo riecheggiò nella strada deserta.
Tutto poteva aspettarsi da se stessa ma non quello. Poteva piangere, supplicare, fare la carina, rinnegare Zeviv, per uscire incolume da quella situazione e invece...

Indice dei contenuti

  1. The dancer
  2. Copyright
  3. Titolo
  4. Indice
  5. Due anni prima
  6. 1° Round
  7. 2° Round
  8. 3° Round
  9. 4° Round
  10. 5° Round
  11. 6° Round
  12. 7° Round
  13. 8° Round
  14. 9° Round
  15. 10° Round
  16. 11° Round
  17. 12° Round