PETER
L’aeroporto pullula di gente alle otto e mezza del mattino.
Peter sta aspettando all’uscita. L’aria è pungente, vagamente permeata dall’odore di nafta e vernice, ma non importa. Tutto quel flusso magmatico ed eterogeneo di persone lo spaventa. Preferisce sostare lì, davanti le porte del Terminal 5, e fingere indifferenza davanti a tutta quella frenesia; trolley che raschiano il cemento, voci concitate di guide turistiche, gruppi di stranieri eccitati, taxi che si riempiono e si svuotano… Gli sembra tutto così convulso, sincronico, artificiale.
Ha appena dato un’occhiata al monitor.
Il volo Northwest Airlines delle ore 06:32 proveniente da Detroit Mi Wayne County è in arrivo all’aeroporto Washington DC Ronald Reagan con un sensibile ritardo.
Peter fuma un’altra sigaretta, mastica una gomma alla menta e poi si decide ad entrare.
Dall’ospedaliero corridoio bianco, indicato dall’insegna “Arrivals”, stanno sfociando gruppi di passeggeri con un’emblematica espressione di stupore. Una decina di giapponesi esibisce sorrisi convenzionali e si appresta ad immortale l’approdo a Washington con immancabili scatti fotografici. Altre coppie di turisti gettano occhiate diffidenti alle persone assiepate davanti il corridoio con cartelli e targhe di riconoscimento, e si dileguando con discrezione prima che la massa umana possa inghiottirli.
I suoi genitori sono gli ultimi a sbarcare. George e Judith Dover percorrono gli ultimi metri del corridoio con lentezza estenuante e poi si fermano, spaesati, nel disperato tentativo di localizzare la presenza rassicurante del figlio.
Peter non ha voglia di chiamarli, né di avvicinarsi troppo, ma sa bene che entrambi non hanno una vista particolarmente acuta, così comincia a sbracciarsi vistosamente nella speranza che uno dei due riesca a vederlo.
Alla fine Judith guarda nella sua direzione e fa segno al marito che si tratta di Peter. Quindi prendono i bagagli e arrancano felicemente verso di lui.
«Oh, Peter!»
Sua madre lascia cadere la borsa a terra e lo bacia su entrambe le guance. Nel contatto Peter si sorprende che porti addosso un profumo così eroticamente inebriante, che la sua pelle sia ancora così vellutata (l’assenza di rughe è frutto di un prodigioso trattamento naturale) e che il suo volto sia rimasto biologicamente immutato negli ultimi venticinque anni.
Il suo energico stato di salute compensa però la graduale degenerazione fisica e mentale di suo padre. Quando lo vede infatti, si limita a rivolgergli uno sguardo stupito, quasi non lo riconosca più, quasi non sappia che quell’uomo sia suo figlio.
La sua forma di Alzheimer non è particolarmente aggressiva, eppure le allucinazioni sono abbastanza frequenti e il declino psichico, compresi i deficit cognitivi, è piuttosto evidente.
«Bene, datemi le valigie. La macchina è qui fuori.» Peter si sforza di sorridere, si sforza di credere che sia tutto a posto, che quella sia soltanto la normale riunione di una normale famiglia americana e che il fatto che lui sia ancora single, terribilmente ossessionato dalla sua attività teatrale e sull’orlo della depressione, sua madre invece sia così straordinariamente vigorosa e giovanile e suo padre si sia rifugiato in un apparente mutismo e mostri i segni sempre più tangibili della sua orribile malattia rientri perfettamente nella norma. Così entra in macchina e mette in moto, facendo finta di nulla.
«Com’è andato il viaggio?» domanda.
«Oh, bene, tesoro. Giusto un po’ di turbolenza mentre passavamo l’Ohio, ma niente di preoccupante, non è vero, George?»
Suo padre annuisce in silenzio senza comunicare alcuna emozione.
«C’è puzza di fumo qui dentro» osserva poi.
«Oh, è Charlie» risponde prontamente Peter. «Uno della compagnia. Ieri sera l’ho riaccompagnato a casa dopo le prove e ha fumato un paio di sigarette in macchina.»
Sua madre è estremamente diffidente, ma dopotutto la scusa è credibile, anche se in realtà Charlie Granger non fuma e non gli ha mai chiesto un passaggio. Ma sua madre è rigorosamente contraria al fumo, droga e alcool e a tutto ciò che implica le parole cool e tecnologia, perciò confessarle che in verità suo figlio ha iniziato a fumare non sarebbe un’ottima idea. Quando arrivano a Lamond Riggs, Judith si guarda intorno nel disperato tentativo di ricostruire l’evoluzione topografica di quel quartiere dall’ultima volta che ci ha messo piede ma, nonostante abbia un’inossidabile memoria fotografica, non può far altro che ammettere di non riconoscere più quel posto; lentamente la sua bocca formula in un sussurro nostalgico la frase: “È tutto cambiato”.
Una volta arrivati a casa, Peter porta dentro i bagagli e si accerta che le finestre siano ancora aperte: il timore che sua madre possa sorprendere nuovamente la puzza di fumo è ormai costante. Poi va in cucina e controlla il frigorifero che, visibilmente vuoto, gli comunica un senso di profonda colpevolezza; si è dimenticato di fare la spesa per i suoi genitori. A pranzo e a cena gli toccherà inevitabilmente ordinare qualcosa da mangiare.
«Volete che vi prepari un tè?» È l’unica cosa “commestibile” che gli è rimasta; sua madre lo sa, sa perfettamente che in quella sua offerta c’è qualcosa di poco convincente, di inspiegabilmente premuroso, e che suo figlio sta disperatamente cercando di farli sentire a proprio agio.
«Okay. È una splendida idea. Vuoi che ti aiuti?»
«No, non ti preoccupare. Aspettami di là in salone con papà.»
Sua madre annuisce con condiscendenza e svanisce nella penombra del salone.
Sono le nove e venti di un sabato mattina e Peter sta preparando un tè per i suoi genitori. Tutto questo gli sembra terribilmente irreale, incoerente. Si chiede perché lo stia facendo, perché stia obbedendo a quel viscerale, istintivo desiderio di sentirsi nuovamente parte della famiglia e abbandonare per un momento il suo coriaceo cinismo; e allo stesso tempo si domanda perché il tempo sia stato così inclemente con lui da inaridire tutto l’affetto verso i suoi genitori. Tutto ciò che adesso prova nei loro confronti è semplice devozione, una legittima deferenza, qualcosa che prescinde dall’amore familiare. In qualche modo sente come se la sua intimità fosse stata violata dal brusco ingresso dei suoi genitori, come se un evento così inaspettato abbia turbato la sua ordinaria esistenza, infrangendo l’equilibrio preesistente in modo irreversibile.
Dopo aver sistemato le tazze con il tè su un vassoio, entra nel salone con un’espressione rassicurante.
Sua madre è seduta sulla poltrona davanti al camino, suo padre invece su una sedia da ufficio in un angolo della stanza. Sta guardando fuori dalla finestra con lo sguardo assorto. Non sembra interessato a nessun’altra cosa.
«Papà non…»
«No, caro, lui non beve tè.»
Sua madre le sorride affettuosamente e lui si sforza di fare altrettanto. Poi posa il vassoio sul tavolo e le porge una delle tre tazze.
«Come va il pianoforte?» gli chiede indicando il monumentale Bosendorfer a coda in legno nero che torreggia al centro del salone.
«Oh, bene. Lo suono quasi ogni giorno. Adesso mi sto dedicando ai pezzi di Gershwin.»
Sta mentendo.
In realtà ha smesso sei anni fa, ma non ha il coraggio di dirglielo. Per sua madre il fatto che lui suoni il pianoforte è imprescindibile tanto quanto il mangiare. Non oserebbe mai pensare che suo figlio – il suo unico, geniale, talentuoso figlio – abbia smesso di suonare. Sarebbe un’onta irreparabile per lei.
All’età di quattro anni lo iniziò allo studio del pianoforte con un maestro privato e da allora ha sempre voluto, anzi si è sempre rigorosamente imposta, che il figlio coltivasse quella passione (innata?) per la musica.
«Bene. Sono contenta.» dichiara soddisfatta.
Peter la guarda e per un momento si pente di averle mentito.
«Papà… Che gli è successo?» chiede poi abbassando la voce.
Suo padre, George Dover, è appollaiato sulla sedia davanti la finestra: una figura evanescente, meditativa, inquietante. Peter non l’ha mai visto così, ammantato di quel riserbo quasi profetico, con quel corpo scheletrico, diafano (peserà a stento cinquanta chili) che, invece di comunicare debolezza, lascia trasparire un’ermetica sicurezza, qualcosa di spaventosamente impenetrabile. Non è mai stato un tipo molto loquace, ma quel silenzio in cui si è rifugiato risponde a una precisa e imperscrutabile volontà interiore.
«Sta bene» dice sua madre. «È solo un po’ stanco.»
«Non credo» obietta Peter, accigliato.
«È il suo carattere, tesoro…»
«Non mi ha nemmeno riconosciuto all’aeroporto!» ribatte con veemenza.
«Ti rendi conto? Non mi ha nemmeno salutato. Come se fossimo perfetti sconosciuti!»
La sua rabbia è impietosa: sono esattamente tre mesi che non si vedono e tutto ciò che Peter ha in serbo per lei sono degli aspri rimproveri (per cosa? Per essersi presa cura di suo padre per sette lunghi anni? Per aver lasciato che suo padre sprofondasse in quella sorta di inspiegabile apatia?).
«Papà è cambiato, mamma…» dice.
Sua madre è lì, di fronte a lui, che annuisce con sorprendente fermezza, con un atteggiamento quasi indifferenza, come se volesse dire “Sì, lo so, lo so”, mentre dal suo volto traspare innegabile la sua rassegnazione. Si è rassegnata. Judith Dover ha gettato la spugna, ha messo da parte la sua soffocante, ossessiva sollecitudine e ha lasciato che suo marito esplorasse i recessi più remoti della sua mente e prendesse la sua decisione.
E adesso si sente un mostro, si sente terribilmente colpevole di ciò che George è diventato, di aver lasciato suo marito in balia di un destino inclemente e di aver assistito impotente al suo inevitabile declino. Eppure non piange. No, un primordiale, vibrante moto di orgoglio le impedisce di piangere e alimenta invece, costantemente e senza interruzione la convinzione di aver fatto la cosa giusta, di averlo fatto soltanto per il suo bene (è ancora fermamente convinta che senza di lei la precaria struttura familiare crollerebbe in un attimo e che ogni suo minimo gesto sia essenziale ed efficace a suo modo).
«Da quand’è che non parla?» chiede Peter.
Ha un desiderio irrefrenabile di fumare, ma non può. Almeno non davanti a sua madre.
«Non lo so…»
«Da quand’è che non parla?» ripete Peter.
Sua madre abbassa lo sguardo rivelando la sua complicità; agli occhi di Peter quel suo patetico tentativo di difendere suo padre assume la forma di un tradimento. «Cinque. Cinque settimane» dice alla fine.
«Cinque settimane?!? Cazzo, mamma, ti rendi conto?»
«Ti prego, non usare quel linguaggio volgare davanti a me.»
«L’hai portato da qualcuno?»
«No. Sai, com’è tuo padre, no? È riluttante a farsi vedere da chiunque.»
«Ma non parla da cinque settimane, mamma! Sai cosa vuol dire questo?»
Ha inavvertitamente alzato il tono di voce.
Probabilmente adesso anche suo padre sta ascoltando le sue parole, ma a lui non importa molto.
«Sì, lo so, tesoro, ma cosa posso farci? È stata una sua scelta.»
«Una sua scelta?!? Ti sembra una scelta ragionevole ricorrere al mutismo più totale?»
«Tuo padre è abbastanza grande da prendere le sue decisioni.»
«Mio padre non è abbastanza lucido ...