Salvatore Savoia
Giuseppe Tomasi
di Lampedusa
FLACCOVIO EDITORE
A Gioacchino e Nicoletta Lanza Tomasi,
che hanno accolto affettuosamente un nuovo amico di Giuseppe.
Ad Anne-Clémence e Stefania, che mi sono state vicine sempre.
A Casimiro, soave e multiforme presenza.
Proprietà artistica e letteraria riservata all’Editore a norma della legge 22 aprile 1941 n. 633. È vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, anche per mezzo di fotoriproduzione, sia del testo che delle illustrazioni.
ISBN 9788878043367
© 2010 copyright by S. F. Flaccovio s.a.s. - Palermo - via Ruggero Settimo, 37
Stampato in Italia - Printed in Italy
Premessa
La chair est triste, hélas! et j’ai lu tous les livres.
Fuir! là-bas fuir! Je sens que des oiseaux sont ivres
d’être parmi l’écume inconnue et les cieux.
Stéphane Mallarmé, Brise marine (1865)
Pochi fra gli autori della letteratura siciliana, ma forse pochi autori in assoluto, almeno fra quanti sono stati consegnati al pubblico attraverso la diffusione parallela della vicenda umana e di quella della loro opera, hanno toccato l’immaginario e la fantasia collettive in modo così intenso e diretto come Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Anche allargando geograficamente tale riflessione all’intero scenario italiano, sono pochissimi gli autori – in letteratura, certo, ma solo per l’influenza fino ad oggi prevalente delle arti letterarie rispetto ad altre forme d’arte – che nel Novecento sono stati così visceralmente sentiti ed amati. Il riferimento a pulsioni viscerali ed emotive non vuole temperare l’intensità del concetto ma circoscriverne l’ambito ai comparti dell’irrazionale, persino a discapito della possibilità o della voglia di sviluppare analisi critiche, scientifiche o storiche o del semplice lasciare al lettore la possibilità di trarre godimento o diletto dalla lettura della “sua” opera.
Lo si è amato e basta. Che lo si sia capito, sarebbe azzardato dirlo.
Generazioni di siciliani hanno voluto costruire, di Lampedusa e del suo romanzo – il che, nella fattispecie, è la stessa cosa –, un’immagine personale dalle caratteristiche persino abusive, una visione talmente deformata da lasciar dubbi circa la stessa possibilità di affermare con certezza che Lampedusa sia mai stato letto.
In Sicilia, nell’ultimo secolo, solo Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, e forse, ma in misura minore, Vitaliano Brancati, hanno raggiunto vetrine di eguale notorietà, mai di popolarità comparabile, e ciò ovviamente a prescindere da ogni valutazione o analisi di merito delle opere o degli autori, del tutto fuori luogo in questa sede.
Lampedusa, quindi, grande siciliano. Ma anche grande simbolo della Sicilia eterna e dolente. Con un dubbio: che ancora una volta ci si sia imbattuti nella insopprimibile sindrome da monarchi in esilio covata dai siciliani. Che sia stato, cioè, ancora una volta riesumato l’asfissiante mito della Sicilia che contempla, quasi godendone, la propria sconfitta secolare.
Ma qual è l’idea di Sicilia di Lampedusa, al di là delle semplificazioni e delle distorsioni intervenute nella decifrazione del cosiddetto “messaggio” lasciato dallo scrittore?
Tutto ha origine dalle pagine peggio lette dell’intero Gattopardo: quel discorso fatto al cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo (quanto si divertiva Lampedusa nel forgiare i nomi dei suoi personaggi!) nel quale il principe sconfitto ed invecchiato, esattamente come il suo autore, dichiarava di non credere ad una redimibilità della sua terra. Consapevole, cioè, di quanto essa fosse arretrata, era insieme troppo intelligente e sensibile per non comprendere che la nuova piega assunta dagli eventi sarebbe stata insufficiente a risolvere piaghe incancrenite, senza per questo rifugiarsi – come qualcuno degli Uzeda dei Viceré – nel borbonismo reazionario né al contrario cavalcare tout court la smania savoiarda di moda o di comodo.
Né Tancredi, quindi, con la sua fascinosa spregiudicatezza, né Sedara né Ciccio Tumeo riescono a trascinare Salina/Lampedusa completamente e del tutto dalla propria parte. La soluzione, la salvezza, infatti, non è nemmeno nell’esasperata fedeltà di Ciccio Tumeo, buono, leale, conservatore per istinto e per cultura “animalesca”. Inutile negarlo: l’ultimo Gattopardo sarebbe stato lui.
E per la terra di Sicilia, non c’era proprio niente da fare, se non contemplare dai vetri impolverati di una carrozza i paesaggi annientati dalla calura, aspettando di scorgere «gli alberi, gli alberi»?
«Non nego» – dice Salina/Lampedusa all’emissario di Torino – che sfuggendo da giovani, prima che si sia formata la crosta, qualcosa si possa fare per salvare un siciliano da se stesso. Ma non negare non significa affermare.
Pur non aderendo, evidentemente, alla soluzione proposta, quella di guardare al modello Crispi, che il piemontese gli sottopone quale esempio di una sicilianità tutt’altro che dormiente, il principe al più si limita ad osservare quei piccoli doni, quei miglioramenti lenti, sonnacchiosi e costosi che alla Sicilia sarebbero venuti dall’Unità.
Per il resto, le illusioni di redenzione miracolosa si sarebbero tradotte in fallimenti o sarebbero state sminuite dalla Storia fino a rendersi illeggibili. E la Sicilia, astorica lungo tutta la sua storia, plaudente per secoli verso il dominatore di turno, fondamentalmente scettica ed insieme pronta mille volte ad inventarsi nuove illusioni, sarebbe rimasta immobile, appunto irredimibile. Da sempre, forse per sempre. Fino ad oggi, comunque.
Nessun movimento politico in Italia ha avuto origine sotto il vulcano: forse solo i Fasci Siciliani di fine Ottocento, mortificati e schiacciati però in maniera così drastica da impedire la benché minima costruzione di radici.
Il fascismo, il comunismo, per limitarci alle grandi illusioni di massa del Novecento, se ebbero – e ne ebbero – qualche momento di popolarità anche nell’isola, non fu certo per coinvolgimenti emotivi o ideologici. E persino le masse del dopoguerra che per un attimo sembrarono far proprio il miraggio delle bandiere rosse, erano alla ricerca, piuttosto, di pane, di case, di terre, di sopravvivere.
Non troppo diverso, tutto ciò, da quanto era avvenuto con il flusso di seguaci di camicie altrettanto rosse, un secolo prima.
È un’immagine, quella dell’alternarsi delle illusioni sui colori delle bandiere dei diversi liberatori, che Lampedusa affida alle parole del più improbabile tra i pensatori, il colonnello Pallavicino, presentato come personaggio talmente tronfio e greve da far pensare che le sue parole attengano più alla farneticazione, sia pure profetica, che ad una affermazione razionale. «Che gran rompiscatole» sussurra Salina lasciando il suo tavolo nel corso del celebre ballo viscontiano.
La Sicilia sarebbe rimasta sconfitta, anche in quella che ai più sembrò una accettabile e decorosa pagina di compromesso. Il dibattito sul valore delle pagine del Risorgimento, d’altra parte, si apre ancor oggi a mille rivoli di analisi. Un dibattito doloroso, a tratti feroce, rancoroso, sull’ultima occasione perduta.
A voler essere come Lampedusa – e nessuno oggi può dire di poterlo essere pienamente – si potrebbe affermare che è stato fatto quanto si poteva, che la strategia ed il risultato complessivo non furono dissimili da quanto il “Cavour di Donnafugata”, Calogero Sedara, seppe fare con la miserabile alterazione del risultato elettorale, ma anche da quanto fece Tancredi Falconeri garantendosi un futuro da principe ricco attraverso la conquista di Angelica.
«Non si può negare che sia un tantino ignobile» fa dire Visconti a Burt Lancaster scrutando dietro le tende il nipote che si incammina verso la casa di Angelica.
Lampedusa (l’autore o il protagonista del suo romanzo, secondo un criterio di divulgazione e di diffusione che proprio in queste pagine appare impressionante) è da almeno due generazioni lettura obbligata nelle scuole, modello di buona scrittura per gli amanti delle lettere ma anche simbolo ineguagliabile della sicilianità incompresa; ha superato i filtri pesanti e duri di vere e proprie guerre ideologiche e politiche, che lambivano territori complessi quali la quest...