Cosa Nuova. Viaggio nei feudi della 'Ndrangheta con lo squadrone cacciatori
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Cosa Nuova. Pensavo e ripensavo. Così spaventosamente simile a Cosa Nostra, eppure così sideralmente lontana dai suoi modelli verticistici e stragisti. La 'Ndrangheta ha avuto una infinità di nomi nel corso del tempo, tutti molto indicativi del periodo che l'organizzazione attraversava: "Famiglia Montalbano", "Picciotteria", "Onorata Società", "La Santa", segnano momenti diversi di un filo criminale mai interrotto. E oggi Cosa Nuova è l'etichetta che riesce a contenerne molte altre: quella di una organizzazione trasversale nelle alleanze e negli affari, di una mafia globale proiettata nel futuro, di un Sistema perfetto e inattaccabile. Sarà pur vero che, come diceva George Orwell, per vedere quello che abbiamo davanti serve uno sforzo costante, eppure a me fu subito chiaro, e senza che mi sforzassi troppo nell'analisi, che quella che mi si era parata davanti fin dall'inizio del viaggio era davvero cosa nuova; anche se, prima che il Cacciatore M. me lo confessasse, quasi segretamente, non potevo immaginare che il nome coincidesse con la categoria mentale che ne avevo tratto. Già, il mio viaggio. Sembrava fosse finito. O forse no, un viaggio non finisce. Mai. Piuttosto, ne cominciano altri. Semplicemente, stavo dismettendo i panni del viaggiatore. No, un viaggio non finisce.

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788881018338

Gioia Tauro - La conquista

Quel giorno, decisi di rimanere in base. Almeno, queste erano le mie intenzioni iniziali. Era un venerdì pomeriggio abbastanza sonnolento, ed i giorni che l’avevano preceduto erano stati oltremodo intensi. La mia presenza accanto ai militari dello Squadrone andava defilandosi, a breve sarei rientrato in Puglia; iniziavo a sentirmi piombato di storie raccontate, eventi vissuti e luoghi visitati, ingordo di quel senso di onnivorismo che mi aveva guidato fin dal principio. In mattinata mi chiusi nella piccola biblioteca della base, a riordinare le idee, quei pensieri fugaci che dovevo catturare in qualche modo. Ero interrotto soltanto dal panciuto brigadiere di Vibo che si occupava della mensa, come di qualsiasi altra cosa. Affacciandosi quasi con timore, continuava a ripetermi: “Dottore, ‘uliti qualcosa?”. La sua premura era tutt’altro che fastidiosa, perché piacevolmente mi ricordava che ero diventato parte di un contesto impenetrabile, diffidente talvolta. E vi ero penetrato senza troppi meriti, soltanto osservando, condividendo amarezze che a fatica riuscivo a deglutire.
Avevo concordato con il comandante che quel pomeriggio saremmo andati assieme al poligono di tiro. Lo attendevo dunque, ma senza troppa fretta. Ero incantato dagli elicotteri dei carabinieri che sorvolavano la mia testa, quasi sfiorandola: il venerdì era il giorno delle esercitazioni di volo, e le pale degli elicotteri della base muovevano aria senza sosta, pregna del rumore pulsante ma ovattato dei loro motori. Con la proverbiale concezione di relatività del tempo, che in tutto il Meridione rende lentissimo lo scorrere dell’attimo, non mi accorsi neppure che il comandante aveva ampiamente sforato quel margine di ritardo che si concedeva spesso. Arrivò infine, trafelato. E sembrava avesse da dirmi qualcosa che avrebbe sconvolto i miei piani. “Al porto di Gioia Tauro hanno appena sequestrato 560 chili di cocaina purissima”. Rimanemmo immobili, l’uno di fronte all’altro. Non riuscivo a leggere i suoi pensieri nell’istante, ma neppure mi sforzai di farlo, preso com’ero dai miei.
Cinquecentosessanta chili di cocaina è una quantità abnorme, spropositata persino rispetto alla fame di percentuali crescenti di guadagno delle cosche più intraprendenti. Può coprire il fabbisogno di cocaina di una città come Milano per due anni interi, ma solo perché questo è il luogo dove se ne consuma di più in Europa. Altrimenti, per molto più tempo. Rappresenta la quantità sniffata o iniettata da un consumatore abituale in cinquemila anni, che può permettersi la tassa fissa di quasi 100 euro a dose. Non considerando, ovviamente, che di anni ne bastano un paio per bruciare neuroni, maciullare le percezioni e far impazzire il ritmo cardiaco. Ma sopratutto, è un carico che sul mercato vale 140 milioni di euro. All’incirca, l’utile netto che la Banca centrale europea consegue in un anno d’esercizio.
Nel mio inarrestabile periclitare di quei giorni, avevo lasciato che i Cacciatori mi guidassero. A loro, il compito di impressionare indelebilmente la pellicola del mio viaggio, a loro compasso e righello, affinché tracciassero con l’esperienza che li è propria la cartina geografica della ’ndrangheta. Che mi era rimasta scolpita nella mente, ben definita nei due lati della bimare provincia reggina, nel cui perimetro erano evidenziati luoghi e famiglie. Binomi da non scindere, dogmi da non sovvertire. Quei cinquecentosessanta chili di cocaina purissima la emendarono d’un colpo. Non avevo considerato, stupidamente, le coordinate del punto dove tutto viene sversato, contrattato, commercializzato. Quella crepa di costa tirrenica per cui filtra, come umido attraverso i muri vecchi e mal fatti, buona parte degli affari della ’ndrangheta. Effettivamente, quel pomeriggio i miei programmi cambiarono radicalmente, perché la squadriglia di Cacciatori in partenza per il porto sarebbe partita entro mezz’ora.
Il tenente del Ros ci attendeva sul molo, impaziente. Per arrivarci, scortati da una volante della Guardia di Finanza a sirene spiegate, superammo i primi controlli all’ingresso del porto, poi il varco doganale, quello scrimine che delimita l’area di scarico e di deposito temporaneo dei container prima che siano portati via. Una zona franca, doganale, che è terra di nessuno. I migliaia di container stipati sul piazzale immenso possono dirsi ancora fuori dal territorio italiano, in un limbo di cemento che si estende tra mare e terra; ammonticchiati, vengono sbarcati lì, in attesa che si produca la documentazione che li legittimi ad entrare nello Stato, qualsiasi cosa vi sia dentro. Qualsiasi cosa vi sia dentro, possono oltrepassare quell’immaginario confine solo se tutti i controlli documentali avranno dato esito positivo: polizze di carico, bollette d’accompagnamento, corrispondenza con il CM (cargo manifest), coincidenza assoluta con il MMA (manifesto merci in arrivo). Tutto su carta, o al massimo su monitor.
Perché aprire un container non si può, qualsiasi cosa vi sia dentro. Ci si affida ai tratti di penna sulla carta, alle indicazioni degli spedizionieri. Non si può fare diversamente. Dentro vi è un mondo stipato, un microclima inalterabile. Tutto deve rimanere cristallizzato nella sua composizione interna, fino alla destinazione finale. Qualsiasi cosa vi sia dentro, per aprire un container è necessario che questo sia da codice rosso.
È il sistema informatizzato dell’Agenzia delle Dogane ad elaborare i codici, sulla scorta dell’incrocio di tutti i dati che possono essere noti: mittente, spedizioniere, rotta, scali effettuati, carico formale, destinatario, sono elementi conoscitivi che formano algoritmi perfetti dai risultati aritmetici non sovvertibili. È raro che Ros, Guardia di Finanza o addetti della sicurezza portuale riescano a cavare dall’ammasso disordinato di notizie e numeri identificativi quella presunzione di illecito che permetterà poi l’ispezione. Talvolta riesce, ma è un’estrazione del lotto, una roulette russa. È una sfida d’astuzia e d’esperienza, connettere ogni punto per riuscire ad individuare disegni criminali cammuffati da innocue spedizioni, ed essere autorizzati ad aprire i pesanti portelloni di quei parallelepipedi giganteschi.
Per quanto assurdo possa essere, sono cervelli elettronici che incastrano dati a decretare la riuscita o il fallimento di affari milionari per le cosche. Un destino inevitabile, che è già scritto nella cifra identificativa di un qualsiasi container tra i migliaia: CLHU 436529-3. È la legge dei grandi numeri, della portata immensa e dell’immenso numero di queste scatole galleggianti sugli oceani.
Il tenente del Ros che ci attendeva sul molo era impaziente di trovarci, ma appariva radioso. Gli si leggeva ancora sul volto l’eccitazione della scoperta e dell’arresto, avvenuto un’ora prima. Ci spiegò che il carico di coca sarebbe passato, se non fosse stato per l’eccessivo scrupolo di uno dei suoi. Perché tutto era stato pianificato nel dettaglio. Il cartello di famiglie mafiose destinatarie avevano fatto trovare quello stesso giorno, su di un altro container scaricato da un’altra nave, un pacco di una quarantina di chili di coca. Un sacrificio economico necessario, ma modestissimo rispetto alla portata dell’affare che doveva riuscire. Quel ritrovamento avrebbe dovuto concentrare le attenzioni investigative altrove, mentre a qualche decina di metri un’altra nave appena attraccata scaricava il più cospicuo contributo. Borsoni pesantissimi, posti all’ingresso del container per essere arraffati in tutta fretta: non era un semplice dipendente del porto l’incaricato del prelievo, ma addirittura un quadro, un soggetto dalla qualifica dirigenziale di medio livello nell’organigramma portuale. Un anonimo container contenente caffè, un furgoncino guidato da un amministratore portuale insospettabile, un pacco di coca fatto ritrovare altrove. Tutto sembrava coincidere perfettamente, mescolandosi nel grumo di velocissimi spostamenti di merci e uomini che si compiono al minuto, se non proprio al secondo.
La soddisfazione per aver individuato quel furgoncino non ci fu nascosta dall’uomo del Ros, che si mise poi a parlottare fitto con il brigadiere della squadriglia che mi accompagnava, chissà di cosa poi. Io cominciai a guardarmi finalmente attorno.
Eravamo sepolti da montagne di metallo, che permettevano di scorgere a malapena soltanto le colline un chilometro più in là. Sembrava che l’intero mondo si fosse richiuso su di noi: Maersk, Cho Yang, Msc, Uasc, Cronos, Capital, Nedlloyd, Evergreen, i nomi dei container, che si accalcavano immobili in attesa dello sdoganamento, richiamavano paesi lontanissimi, ditte spedizioniere di tutto il globo che affastellano qui ogni cosa sia suscettibile di trasporto via mare. Potevo facilmente immaginare la merce che vi era contenuta all’interno, perché tutto l’esistente passa da qui: cibi surgelati, frutta, materiale edile, abbigliamento, manufatti, materiali, tutto. Ogni categoria merceologica. Cocaina inclusa. Qualche anno fa, è stato calcolato che l’80% della cocaina sniffata in Europa transita da qui. Una cifra che oggi potrebbe essere ritoccata all’insù. In media, nel porto se ne sequestra una tonnellata all’anno, o qualcosa di più. Il pensiero, davanti quegli isolati, quartieri, città, edificati con la ferraglia dei container che al loro interno contenevano altrettanti mondi, correva veloce, era ossessivo, martellante: per ogni tonnellata sequestrata, quattro, cinque, dieci, quindici, ne passano inosservate. Una fetta consistente d’economia criminale transita da qui. Davanti quella che appariva una muraglia di immensi mattoncini Lego multicolore cavi di tutto al loro interno, emendai ancora e senza troppa difficoltà il mio pensiero: cinquecentosessanta chili non sono nulla. Niente. Si avesse la fortuna di sequestrarne dieci volte di più, sarebbe ancora nulla, niente. La ’ndrangheta compra la coca a poco più di 2000 euro al kilo, la rivende a 60 euro al grammo. Avevo davanti lamiere che nascondevano caschi di banane imbottiti di coca, traverse in legno segate e imbottite di coca, lattine di frutta sciroppata imbottite di coca. I numeri ripresero a sommergermi.
Il tenente del Ros, quando si staccò dal brigadiere, venne da me, per darmi gli opportuni spunti per comprendere: “i colombiani mandano tutto soltanto qui, perché i calabresi pagano. Anche se il carico viene sequestrato, pagano comunque. Nessuno può competere con loro. Sono i più affidabili, e tutte le altre organizzazioni criminali europee, Camorra e Cosa Nostra comprese, devono trattare le partite con loro. Con le famiglie di ’ndrangheta”. Questo mi disse, poi tornò dal brigadiere a riprendere quella conversazione dal vago retrogusto di segretezza. Un sistema monopolistico quasi perfetto, una partnership privilegiata con i cartelli del narcotraffico centro-americano conquistata nel tempo, cementificata con i pagamenti mai mancati e la professionalità negli affari. Un’etica del commercio che solo le famiglie calabresi possono offrire.
E poi ci sono i rifiuti, l’oro putrido e marcio. La cronologia delle inchieste giudiziarie riferiscono alla Camorra il primato nel business dei rifiuti: in Campania, per stoccare, smaltire, trasportare, sotterrare, inquinare, l’unica autorizzazione necessaria è quella dei clan, che permettono di raccogliere al Nord e sversare nei loro stessi domini, massacrando animali, impestando la terra ed infestando l’aria. Rifiuti speciali e pericolosi, declassificati con improbabili alchimie documentali, o qualsiasi altro tipo di rifiuto, che non necessita di nessuna classificazione perché sempre sottoterra finisce, rendono la mafia campana la vera ecomafia italiana. Eppure, gestisce un circuito comunque interno, nazionale e poco più. La ’ndrangheta invece pensa in grande. Nel 2006, nello stesso porto in cui ero, erano pronti per essere imbarcati 135 containers con destinazione Cina, India, Medio Oriente, con dentro di tutto: carta straccia, autovetture compresse, pneumatici, persino contatori elettrici. Nei paesi del nuovo sviluppo si intombano tecnologie desuete ed inutili; sopratutto, difficili da smaltire. Non per la ’ndrangheta. Ed alcune cosche di San Luca e Melito Porto Salvo hanno sviluppato negli anni metodi ancora più spicci, stipando imponenti pescherecci di fusti zeppi di materiale tossico e radioattivo, che facevano affondare con la dinamite al largo delle coste calabresi. Quanti siano i relitti zeppi di morte e fatti colare a picco, nessuno lo sa con certezza. C’è chi dice tre, c’è chi dice molti di più.
Allora mi resi conto. Intuii che dal punto in cui eravamo, noi minuscoli esseri lillipuziani, parte la conquista di ogni mercato da violentare e predare. È questo il punto centrifugo del potere mafioso, ed il punto centripeto degli interessi della ’ndrangheta, una sorta di foro nel globo terrestre attrattivo ogni anima, ogni famiglia, ogni avidità. Il porto è il centro di smistamento di tutte le imperfezioni del mercato: qui arriva la coca, arrivano le scorie, ma anche ogni sorta di merce contraffatta dalla Cina, armi per i conflitti armati di mezzo mondo, persino componenti chimico-ingegneristiche per la costruzione di armi di distruzione di massa dirottate verso Iran, Siria, Corea del Nord. Nulla potrebbe, eppure tutto transita o fa scalo qui, in attesa di riprendere la via del mare, nel quartier generale dell’avanzata militare della ’ndrangheta su tutte le economie d’Europa e del mondo, su tutti i governi e le dittature del globo.
Chi gestisce questi moli, chi ha reale influenza sugli spostamenti di queste merci, si appresta alla conquista della fiducia da parte di ogni organizzazione criminale della terra, da Taiwan a Bogotà. Ad essere una cosa nuova. Ad essere la Mafia, quella più potente, perché onnipotente e capace di decidere dell’esito di guerre in regioni lontane, del futuro di democrazie nascenti in luoghi sperduti, dei profitti del crimine mondiale, e tutto a seconda delle merci che a Gioia Tauro si decide di far transitare. Proprio come chi, nella tradizione cristiana o nella mitologia classica, si ritiene possa smistare nell’aldilà le anime tra inferno e paradiso.
Nonostante la sua importanza, la sua imponenza, il porto ha connotazioni anonime. Una struttura bastarda il cui inizio è situato nel comune di San Ferdinando di Rosarno, la cui fine invece in quello di Gioia Tauro. Le vie che lo cinturano non hanno nome, strisce d’asfalto sconnesse che corrono lungo le recinzioni, e i moli sono indicati con banalità: Molo di Ponente, Molo di Transhipment, e così via. Nulla che riconduca a niente e nessuno. Eppure, questo luogo ha avuto un ideatore, un costruttore, un padrone indiscusso. Qualcuno a cui poter intitolare un molo, una strada interna, una struttura, ci sarebbe: don Mommo Piromalli. Al porto, ogni confusa geometria dei container accatastati sui moli, ogni increspatura irregolare del mare su cui galleggiano i tesori della ’ndrangheta, ogni brezza di vento sembra sussurrare la storia di Girolamo Piromalli.
Partì dal nulla, don Mommo, era un bovaro come tanti. D’un tratto, la sua carriera criminale spiccò il volo, prima con le solite attività estortive di rodaggio, a seguire con qualsiasi cosa potesse fruttare profitto. Quando negli anni settanta l’allora presidente del consiglio Emilio Colombo approntò un pacchetto di misure infrastrutturali per la Calabria, don Mommo si attivò. Era previsto l’ammodernamento della Salerno-Reggio, l’installazione di un centro siderurgico, ma sopratutto la costruzione del porto; allora creò dal nulla imprese edili, di movimento terra, e l’intero indotto per opere infrastrutturali così imponenti. Aggiudicatosi ogni appalto, diede seguito con l’efficienza che gli era propria al progetto politico: cominciò così la costruzione del porto. Un’opera biblica, scavata nella terra, perché nessuna insenatura naturale preesisteva. Furono spianati migliaia di ettari di uliveti ed aranceti, asportati milioni di metri cubi di terra, sassi, crosta terrestre. Don Mommo non ne vide mai il completamento, avvenuto negli anni novanta. Morì per cause naturali a sessant’anni nel 1979. Una morte ignobile, per un qualsiasi boss di ’ndrangheta. Ma non per don Mommo, che passò indenne la prima, sanguinosissima guerra di mafia, che lo vedeva contrapposto assieme ad altri a quei boss che non permettevano un completamento di questa negli affari più lucrosi, nello sganciamento ad una tradizione frenante ed arcaica. Il Piromalli ne uscì vincente, era uno sviluppista. La sua visione imprenditoriale del crimine l’aveva reso un tycoon dell’economia, che si muoveva con disinvoltura al di quà ed al di là dei frastagliati perimetri della legalità del denaro, senza che gli importasse troppo il lato in cui fosse. Con i suoi investimenti massicci nella Piana, se l’era presa tutta senza sopportare insubordinazioni di chicchessia, plagiando menti e cuori degli abitanti di Gioia Tauro. Al suo funerale, pare vi fossero seimila persone. Un terzo di tutti gli abitanti della cittadina di quell’epoca.
Dopo di lui, il vuoto di potere scatenò una mattanza, una insurrezione generale delle altre famiglie che fino ad allora avevano subìto in silenzio la dittatura di don Mommo. L’ira di Peppino Piromalli, il fratello e nuovo capobastone, si placò soltanto con il genocidio della specie che aveva osato alzare la voce. Furono sterminati i Furfaro, i Priodo, i Tripodi; l’abitazione di questi ultimi fu fatta saltare in aria con l’esplosivo, nel cuore di Gioia, ed un congiunto dei Tripodi, Francesco Seminara, venne sgozzato da un Piromalli come si era soliti fare con i capretti alla festa della Madonna di Polsi. La ferocia della punizione inflitta fu replicata recentemente, ricadendo questa volta sulla famiglia Molè, colpevole di aver tradito una fedeltà storica e consolidata. Nel febbraio del 2008 venne freddato Rocco Molè, uno dei consociati di spicco. Sembra avesse trattenuto per sè una cospicua tangente estorta alle imprese che lavoravano all’ammodernamento della Salerno-Reggio; un gesto inaccettabile, di plateale rottura del patto con i Piromalli, che non poteva restare impunito. Appena due mesi dopo, venne fatta saltare in aria la macchina dell’imprenditore gioiese Nino Princi con lui accanto, che secondo gli inquirenti si stava avvicinando all’ambiente mafioso dei Molè. L’esplosione lo mutilò orrendamente, gli furono amputate braccia e gambe, il tronco rimanente sfigurato dalle ustioni, la vista perduta. La sua agonia straziante durò un tempo breve, ma infinito per reclamare e pretendere di crepare. Per sua fortuna, morì dopo due settimane.
Queste parentesi d’inumana violenza trasformarono Gioia Tauro in una Beirut vicinissima e tutta occidentale, ma furono necessarie per ribadire il concetto di autorità indiscussa, e comunque il sangue smise di scorrere un attimo dopo. Le cosche calabresi, come tutte le mafie, conoscono bene l’adagio secondo cui la più grande tragedia, proprio come ...

Indice dei contenuti

  1. Note dell’autore
  2. Prologo
  3. Rosarno - La droga
  4. San Luca - Il rispetto
  5. Platì - La paura
  6. Polsi - La religione
  7. Gioia Tauro - La conquista
  8. Gioiosa Marina - Il cemento
  9. Epilogo
  10. Ringraziamenti