MORETTI E IL CINEMA ITALIANO
Il cinema di Nanni Moretti si colloca all’incrocio fra due grandi tradizioni della nostra cinematografia: quella neorealista e quella della commedia all’italiana. O meglio, partendo da una riattualizzazione originale delle forme della nostra commedia, Moretti le ha innestate con un modo di concepire il cinema e la narrazione che affonda le sue radici nella tradizione del neorealismo, concepita non in termini contenutistici – cioè come emergenza esclusiva di tematiche, di tipologie di personaggi ed ambienti –, ma come modo di pensare la rappresentazione e l’immagine cinematografica, non solo da un punto di vista estetico, ma anche sotto il profilo di una spinta etica (è il compito a cui Moretti sente di dover rispondere filmando i momenti di cambiamento sociale e politico: Aprile e La cosa).
È chiaro che un regista che ha colto in forma moderna l’attualità di un sentire, di un percepire, di un pensare, non può operare che attraverso una metabolizzazione profonda delle forme della tradizione, che esclude qualsiasi forma di citazionismo, o di riferimento esplicito.
Il cinema di Moretti sintetizza in forma originale due modi di coniugare la modernità cinematografica e la crisi della soggettività, cioè la sua impossibilità o incapacità di modificare situazioni e mondo tramite l’azione: da un lato l’azione fallimentare della commedia, dall’altro l’azione impedita del soggetto “patetico” neorealista.
L’azione impedita determina le forme dell’erranza, della veggenza, della stasi (da Ecce bombo a Caro diario ad Aprile), l’azione fallita le forme del fallimento comico e della costruzione della maschera (nevrotica) come unica modalità di sopravvivenza e di rapporto con il mondo (la maschera di Michele Apicella). Oltre lo spazio dell’azione impedita e dell’azione fallita c’è l’azione raccontata dai mass media, che la riducono ad un collage di cliché e luoghi comuni (da Io sono un autarchico ad Aprile).
La permanenza e l’influenza di quella che possiamo chiamare la linea neorealista della modernità la troviamo prevalentemente nella concatenazione narrativa senza sviluppo, nell’inanellamento di scene senza progresso, nella serie di “quadri” senza crescendo, che non costruiscono arco narrativo: dai primi film (Io sono un autarchico, Ecce bombo) passando per Caro diario – che trasforma il carattere episodico della narrazione in un film a episodi vero e proprio – ed Aprile fino ai disorientamenti e alle inverosimiglianze del Caimano.
Ma la forma narrativa sembra essere conseguenza di una trasformazione più generale del modo di concepire il cinema, l’immagine e il personaggio, che non si integra organicamente e attivamente all’ambiente, ma ne diviene spettatore.
La soglia che interdice l’azione viene tematizzata esplicitamente in Caro diario, nella difficoltà del passaggio dalla visione al ballo: ballare piuttosto che veder ballare. Ma passare al ballo non significa passare all’azione, significa mettere in movimento il corpo attraverso posture dinamiche ma codificate (o che perlomeno dovrebbero essere tali); significa superare la “stasi” della veggenza in direzione di un “dinamismo corporeo” che simula e trascende nella danza la sfera della prassi. Una danza ricondotta comunque a pose cariche, esagerate, comiche (come quelle della Mangano in Mambo, riprese nel secondo capitolo di Caro diario). Ciò significa che lo scollamento del personaggio dalla situazione, la sua pura aderenza ottica al mondo (In vespa, primo capitolo di Caro diario) non determinano, come nel cinema neorealista, una dimensione patetica (nel senso del pathos come di qualcosa che dall’esterno colpisce il soggetto), ma si convertono in una dimensione comico-grottesca: il personaggio si fa maschera, il mondo condensato di cliché, l’azione si fa ripetizione maniacale e ossessiva o pende nostalgicamente verso il dinamismo del ballo (il musical da fare in Aprile) o la fluidità dei movimenti acquatici (l’acqua e la pallanuoto in Palombella rossa).
La dissonanza, la mancanza di integrazione del personaggio con l’ambiente e le situazioni, il suo attraversarle senza comprenderle né giustificarle, fanno del personaggio un errante (da Io sono un autarchico fino al Caimano, passando per Caro diario, Aprile e La stanza del figlio) e un veggente (in un rapporto stretto fra sguardo e giudizio morale). Più si sospende l’azione, più lo sguardo diventa morale e giudicante. E veggenza ed erranza sono i segni di formazione dell’immagine neorealista e dell’avvio della modernità cinematografica. Segni che definiscono un soggetto socialmente debole (disoccupati, pensionati, e in primo luogo bambini sono i protagonisti del cinema neorealista), alle prese con situazioni che lo sopravanzano da ogni parte (la distruzione del dopoguerra, la povertà, la fame, la miseria), definito da una radicale passività che lo porta ad essere modificato dalle situazioni piuttosto che a modificarle. La storia di Ladri di biciclette è la storia di una serie di eventi che accadono a un padre e a un figlio nel loro “vagabondaggio” per le strade di Roma, volto al ritrovamento di una bicicletta: accade che ad un disoccupato danno un lavoro, accade che gli rubano una bicicletta, accade che questa bicicletta, sempre sul punto di esserlo, non viene ritrovata, accade che questo disoccupato vede un’altra bicicletta e prova a rubarla, accade che viene catturato, e tutto questo sotto gli occhi del figlio: la camminata per le strade di Roma è di fatto il segno di un accadimento più grande, quello che segna la crescita di un figlio, che non può che passare per l’abbassamento della figura paterna.
Anche In vespa è la storia, o meglio la non-storia, di una erranza per le strade di Roma, accompagnata dalla veggenza come modalità di rapporto fra il soggetto e il mondo. Ma dal neorealismo situazioni e soggetto sono cambiati, pur permanendo invariata, in molti casi, la modalità del loro rapporto: un attraversamento delle situazioni sostenuto dalla veggenza. La situazione non è più disgregata e provvisoria, ma si costituisce come serie di scene, di “quadri” – le facciate dei palazzi di Roma –, che diventano oggetto di pura visione da parte di un personaggio che si fa spettatore. Le facciate dei palazzi, così come gli scorci dei quartieri di Roma, rimandano all’abitabilità degli interni, cioè alle diverse modalità di vita che vi si possono (o non possono) condurre. Ma dalla passeggiata per le strade di Roma di padre e figlio (Ladri di biciclette) ai tour in vespa di un “figlio” (In vespa), che nel momento in cui penserà di essere diventato padre e di essere morto come figlio rappresenterà la morte di un figlio (La stanza del figlio), esiste il passaggio decisivo da un’epoca, in cui il carattere dispersivo delle situazioni restituiva il soggetto (individuale e collettivo) alla sua impotenza, ad un’epoca in cui le situazioni, trasformate in un insieme di cliché, rimandano il soggetto (individuale) alla sua estraneità al mondo, e al suo tentativo di aderirvi o rifuggire in forma carica ed esagerata.
In Moretti troviamo, quindi, l’eredità di una certa modernità avviata dal neorealismo, quella che vede il soggetto smarrirsi nella frammentarietà del mondo, trovarsi in una forma bal(l)ade, in un transito perenne da un posto all’altro (Caro diario), e che vede questo transito nell’impossibilità di convertirsi in un racconto (Aprile), transito “epocale” da una fase politica all’altra, o da un fase della vita all’altra: giovinezza, maturità, fino al matrimonio e alla sua dissoluzione (Il caimano). Ma abbiamo anche l’eredità di un’altra modernità, quella di una certa commedia che trasforma questo transito, lo smarrimento del soggetto in un malessere che solo la costruzione di una maschera sembra rendere sopportabile: una maschera dissonante, che talvolta prende le sembianze di un conformismo “minoritario”, di una consonanza di nicchia (Io sono un autarchico ed Ecce bombo).
Le stasi, i vuoti, le inazioni, le catatonie, l’erranza di Ecce bombo sono i segni di un malessere che neanche la (presunta) maschera di un’“alternatività” serve a celare. E da questo emerge solo la verità del dolore nella visita che Michele, nel finale del film, fa all’amica malata.
Una verità che attraversa la maschera, l’attacca dall’interno, la disfa: dietro l’ossessione di perfezione e di felicità (Bianca e La messa è finita) si nasconde la lacerazione di chi non accetta l’incompiutezza dell’esistenza, di chi dietro la rigidità di un principio lascia emergere un’illusione, quella che si contrappone alla vita e al suo essere senza principi. La rigidità di un principio morale a partire dal quale misurare la risposta del mondo è affermazione comico-tragica di una dissonanza, rispetto alla società e alle sue forme di vita, alla realtà, al suo divenire, e all’impossibilità di costruirne degli argini, dei confini, dei limiti una volta per tutte.
Ma questa interdizione al cambiamento, alla mobilità, al divenire in base all’irrigidimento morale intorno ad un principio, non deriva, come nella commedia classica, dalla contrapposizione fra i vecchi (illusione di immobilità) e i giovani (affermazione del divenire), ma si colloca dalla parte dei giovani stessi, dalla parte della maschera che Moretti stesso costruisce. Ed ecco che il moralismo intransigente e radicale contrappone un principio – quello della felicità assoluta – alla realtà e al suo divenire. Da qui due possibilità: o tentare di piegare – anche attraverso il gesto estremo dell’omicidio – la realtà al principio (Bianca), o, constatata l’impossibilità di qualsiasi risoluzione armonica, fuggire (La messa è finita).
Ciò a cui i principi morali tendono a mettere un argine sono, da un lato, i principi vitali, quelli che affermano la vita nel suo continuo divenire indifferente al senso, nella sua incompiutezza e ambiguità (ciclo di morte e rinascita, fine e nuovo inizio): in questo caso il principio morale si afferma come istanza trascendente rispetto all’immanenza della vita, scarto fra l’umano e la natura; dall’altro lato, i principi morali vengono a determinarsi come difese contro le degenerazioni dei comportamenti privati e pubblici. In questo secondo caso i principi morali diventano le forme di aggressione e di critica all’attualità del presente e alle modalità di vita che lo caratterizzano (Il caimano). Nel primo caso i principi morali – che dovremmo definire più propriamente etici – differenziano il mondo dalla vita e dal suo continuo fluire, nel secondo contrappongono due mondi, uno reale, oggetto di aggressione satirico-grottesca, l’altro ideale, possibile, un mondo nuovo, “vero” (che di fatto non si percepisce se non come il punto ideale dal quale criticare e mettere in questione quello “falso” e attuale).
Il moralismo di Moretti – che in questo si riallaccia a parte importante della nostra commedia degli anni Sessanta – appartiene a questa secon...