Terza parte
Piansi e con me piansero tutti i presenti, a lacrime tanto calde che mai potranno essere dimenticate. Il 4 alle ore 15,30 cadute le ultime resistenze del 115 Rgt, io venivo fatto prigioniero. Da quel momento una tristezza profonda invase l’animo mio! Incominciò, così, la dolorosa odissea. Il mezzo corazzato aveva avuto ragione su di noi ed io, a contatto con il nemico, leggevo nei suoi occhi la gioia del successo. Assieme agli altri, a tutti i soldati, fummo incolonnati ed avviati verso un punto di concentramento. Ahimé! quale sorpresa e quale triste quadro si presentava ancora al mio sguardo. Erano centinaia di uomini che si trovano in mano al nemico. Guai ai vinti! Ed è purtroppo vero. Noi eravamo degli strumenti che il nemico spostava da un punto all’altro, a suo piacimento. Ero riuscito a portare con me soltanto una coperta, che mi servì moltissimo nei giorni successivi. Sopravveniva la sera. Un freddo intenso ed acuto ci arrecava un enorme fastidio. Per la prima volta mi vidi circondato da reticolati e da uomini armati che sorvegliavano e scrutavano le nostre mosse. Scendeva la sera e, ad uno ad uno, tutti quegli uomini che poco prima avevano sfidato la morte, ci buttavamo a terra vinti dal sonno. Vinti anche dal freddo e da una fitta nebbia, che penetrava sino alle ossa, cercai anch’io di addormentarmi. Invano! Come pensai a casa e con quale insistenza! Che ne sarebbe avvenuto di me? Chi avrebbe pensato ai miei vecchi genitori? Chi avrebbe potuto confortarli? Chi sarebbe riuscito a lenire tanto dolore? Finalmente la stanchezza ebbe ragione sulle mie forze già tanto abbattute e mi addormentai.
Quanta amarezza e quanto dolore per un uomo passato dal comando, sia pure in guerra, alla dura prigionia! Cosa pensare se non cose più amare e tristi? Il freddo non aiutava, i pensieri si accavallavano uno dietro l’altro e naturalmente il pensiero non poteva che andare a casa, agli anziani genitori, anche a sé stesso. Che ne sarebbe stato di lui? E giù lacrime a fiumi, giustamente!
La mattina, di buon’ora, mi trovai sveglio tutto impolverato, sporco, intirizzito e con una languidezza incredibile. Verso le nove ci muovemmo ancora. Avveniva un altro spostamento. Passò un’altra giornata talmente triste e dolorosa, durante la quale si girò instancabilmente e soltanto alla sera ci venne distribuito un bicchiere d’acqua. L’acqua, che noi bramavamo più di ogni cosa, ci veniva negata e rendeva così più penoso il nostro camminare.
Morti di sete, fame e sonno! È proprio il caso di rilevarlo.
Si passò quindi un’altra notte, stesi per terra e senza mangiare. Il 6 venne iniziata la marcia che doveva condurci a Sollum, per essere imbarcati. Mai mi era capitato di fare una “passeggiata” tanto dolorosa. Era una colonna interminabile che si era mossa, e la polvere che, si alzava immensa al nostro passaggio, seccava e bruciava la gola, per la mancanza di acqua. Spesso si tentò di fare una piccola fermata per riprendere fiato, ma la scorta nemica, che viaggiava comodamente su alcune macchine, venendo meno a qualsiasi forma di cavalleria che doveva adottare per tanta gente tormentata dai disagi e dalla sventura, ci spingeva con brusche parole e adoperando persino le armi. Eppure, se ciò poteva andare per noi giovani, che mettevamo fuori tutte le nostre energie per imporci al nemico, non potevano farlo vecchi capitani, maggiori, colonnelli con il peso degli anni. Era un quadro pietosissimo di fronte al quale il nemico rideva beatamente.
Era giusto e soprattutto umano? Certamente no! Oggi, non sarebbe stato più possibile, credo. Al di là di vinti e vincitori, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che sarebbe venuta dopo, non avrebbe consentito quel trattamento! Senza acqua, ridendo, con le armi! Ma tant’è!
Come Dio volle, verso sera giungemmo a Sollum bassa, quella cittadina che tempo prima era “echeggiata” dal grido dei nostri soldati, ora ci accoglieva prigionieri. Finalmente, all’arrivo, il nemico ci distribuì una galletta e un po’ di tonno, che aveva asportato alle nostre sezioni di sussistenza. Giunti al punto destinato per trascorrere la notte, impolverati, stanchi, bagnati di sudore, mi buttai ancora per terra, cercando di trovare un po’ di riposo nel sonno, che tardò a venire. All’alba, finalmente, incominciarono le prime operazioni per l’imbarco. Un motoveliero, che il nemico aveva sequestrato a Tobruk, servì da traghetto. Una nave da carico, la «City of Manchester», ci attendeva. Per salire, quei “cari signori” non abbassarono nemmeno la scala, buttarono giù una scaletta di corda, sulla quale ognuno di noi dovette arrampicarsi. Giunti a bordo, finalmente, ci venne distribuita dell’acqua, del mitilof e dei pacchettini di gallette che divorammo, con grande avidità. Verso sera si partì diretti ad Alessandria. Non cabine, non letti, il pavimento accolse le nostre stanche membra. Dopo due giorni di navigazione si giunse ad Alessandria. Era il 9 gennaio 1941. Non voglio parlare dell’impressione provata appena la nave entrò nel porto, il solo vedere che, dalle navi, diversi ufficiali, con le macchine fotografiche, osservavano i nostri movimenti, facendo scattare i loro obiettivi, mi indispettì moltissimo. Attraccata la nave al molo, incominciarono le operazioni di sbarco che si protrassero sino alle ore 13 dello stesso giorno. Passammo in mezzo a due ali di sentinelle, dietro le quali incominciò a raccogliersi un popolino stupido, che non risparmiò anche qualche parola di offesa, che è impossibile dimenticare.
Continuavano le angherie! Guai ai vinti. È sempre così!
Entrammo in una piccola stazione e quivi fummo fatti salire su alcuni carri merci, luridi e sporchi. Ad operazione compiuta, il treno si mosse a passo di lumaca, portando ad una contrada chiamata Max. Fu, quello, un procedere doloroso. Ci fu fatta fare la linea popolata di arabi e di ebrei che, al nostro passaggio, inveivano come certi ossessi, e grida di offesa, ai nostri capi, vennero rivolti a più riprese. Giungemmo dopo tanto a Max e quivi trovammo accampati dei soldati polacchi. Prima di sera, ricevemmo un’altra perquisizione ed io perdetti la macchina fotografica che avevo portato sempre con me. Poi, ci vennero distribuite due coperte, una posata, un piatto ed un tazzino. Quivi restammo ancora altri giorni, buttati regolarmente per terra, ma che servirono a fortificarci le ossa. Da Max andammo a Geneifa (Egitto), dove purtroppo era stato stabilito il campo di concentramento di tutti i prigionieri. Restammo quivi sino al 30 gennaio, mentre all’alba del 31 si partiva diretti a Suez. Ci ospitarono alcuni vagoni di “prima classe” (carri merci) sporchi di letame e cemento. Io, assieme ad un gruppo di ufficiali superiori, capitai nel vagone più vicino alla macchina, sicché il fumo, in breve tempo, aveva coperto i nostri visi. A tormentarci di più ...