CODICE ROSSO. Sanità tra sperperi, politica e 'ndrangheta
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Codice Rosso è un viaggio da incubo nella Sanità calabrese che porta il lettore a sprofondare nelle malebolge dell'inferno dantesco. E sono vere e proprie trivelle le penne dei due attenti giornalisti calabresi, Arcangelo Badolati e Attilio Sabato, che scavano in un sistema putrido e putrescente e ne tirano fuori esalazioni nocive e mortifere che fanno rabbrividire. C'è di tutto nel sistema sanitario calabrese: ruberie, sprechi indicibili, conclamati sistemi clientelari, infiltrazioni mafiose strategiche, ritardi inspiegabili, immobilismo atavico, ospedali fatiscenti, disinteresse e disattenzione e tante, forse troppe, morti in corsia. La Sanità calabrese è da sempre un pozzo senza fondo che consuma tre quarti del bilancio regionale e spende più della metà di quanto incassa. È un sistema rimasto imbrigliato nelle maglie di una politica pasticciona che ha inaugurato ospedali mai aperti e strutture mai utilizzate. Un pianeta diventato appannaggio dei partiti che ne controllano la gestione attraverso l'occupazione sistematica delle aziende diventate vere e proprie "fabbriche del consenso". L'inferno. Che la "rivoluzione copernicana" attuata negli ultimi anni con il "piano di rientro" ha reso ancora più infuocato. Una cura dimagrante che ha dimezzato reparti, ha tagliato posti letto, ha prodotto una forte emigrazione sanitaria nel mentre le risorse per migliorare gli ospedali fatiscenti si sbriciolano e sbrindellano in ogni dove. E poi quegli ospedali vengono chiusi o ridimensionati. Ed è per questo che in Calabria si muore di "sanità". Spesso. Troppo spesso.

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Informazioni

La morte compagna di corsia

Come avrete capito, le strutture sanitarie calabresi appaiono folgoranti quanto l’energia elettrica. Più ci si avvicina, più si rischia la pelle. Sono centinaia i casi che, passando da un presidio all’altro, raccontano di disservizi e tragedie.
L’elenco delle vittime è lungo quanto il tratto d’Appennino che dal Pollino discende fino all’Aspromonte.
Per esaminarlo partiamo dai dolori di una donna, Maria, 40 anni, di Cosenza, che per due lustri ha sofferto di fitte lancinanti al basso ventre. Fitte cominciate pochi mesi dopo il taglio cesareo con cui, nel lontano 1993, diede alla luce, in una clinica privata della sua città, il suo ultimo bimbo. “Tutto normale” le dissero inizialmente i medici, “sono prevedibili conseguenze dell’intervento chirurgico”. Gli spasmi, però, continuarono ad oltranza.
E Maria imparò col tempo a conviverci.
Li curava con antidolorifici. Appena sentiva la prima fitta riempiva un bicchiere d’acqua e ingoiava d’un fiato la solita pastiglia. Nei momenti più difficili ricorreva pure a iniezioni. Così, per anni, è riuscita a tirare avanti. Stringendo i denti e illudendosi di condurre una vita normale.
Il dolore al ventre sembrava essersi cronicizzato. Le analisi del sangue e delle urine, tra l’altro, ripetute negli anni una decina di volte, non rivelavano anomalie.
Maria ha così imparato a vivere la sua condizione di sofferenza con grande rassegnazione, quasi fosse una condanna piovutale sulla testa per un oscuro volere del cielo.
La sua vita quotidiana e familiare è proseguita in queste condizioni sino al 2003[1]. Quando, appunto, la situazione è improvvisamente precipitata.
Il dolore ha raggiunto livelli parossistici e la donna, nonostante le pastiglie e le iniezioni analgesiche, non è più riuscita a trovare sollievo.
Le fitte erano talmente forti da impedirle di mangiare e riposare. Oltre alle medicine appariva assolutamente inutile pure la ferrea dieta che s’era imposta con la speranza di risolvere il problema. D’accordo con il marito, Maria ha pertanto deciso di sottoporsi a nuove analisi. L’esito degli esami è stato però ancora una volta negativo. Nel senso che i valori del sangue erano normali mentre solo lievi alterazioni sembravano riscontrabili nelle urine.
La coppia, ormai sfiancata, ha chiesto udienza e consiglio al medico di famiglia. E il sanitario, dopo la visita di routine, ha invitato i coniugi a compiere ulteriori accertamenti. “È necessario – ha consigliato – fare un’urografia”. Detto fatto: Maria, pochi giorni dopo, ha affrontato l’ennesimo supplizio.
Questa volta, però, l’esame urologico ha dato un esito agghiacciante.
Le immagini ricavate dall’esplorazione rivelavano senza ombra di dubbio che nel basso ventre della paziente risiedeva un corpo estraneo.
Maria è finita perciò in sala operatoria dove i chirurghi hanno estratto dalla martoriata pancia un tubicino lungo 15 centimetri. Una sonda da drenaggio che gli organi interni tentavano da anni, inutilmente, di rigettare. Se l’erano dimenticata i ginecologi che, dieci anni prima, le avevano praticato il taglio cesareo.
Ecco cosa può accadere in una struttura calabrese.
Quella di Maria, però, non è la sola vicenda paradossale di cui v’è traccia e documentazione.
Quello che accade agli adulti può, infatti, ripetersi sui bambini.
Così è stato per una minore di due anni e mezzo, caduta dal divano di casa, a Rende, la sera del 29 dicembre del 2009[2].
I genitori, preoccupati per i dolori che l’affliggevano, l’hanno subito portata al Pronto Soccorso dell’Ospedale “Annunziata” di Cosenza dove i medici di turno hanno riscontrato la presenza di una frattura al braccino destro, disponendone l’immediata ingessatura.
Problema risolto? Nient’affatto, perché gli ortopedici le hanno ingessato l’arto sano, il sinistro.
Il papà e la mamma, considerato che la piccola continuava a piangere disperatamente pure dopo essere tornati a casa, si sono riprecipitati nel nosocomio pubblico. E qui, finalmente, un medico dopo aver esaminato il referto d’ingresso redatto in Pronto Soccorso, s’è accorto del grossolano errore. La sala gessi però era chiusa e la sfortunata paziente ha dovuto aspettare ancora due ore prima che qualcuno la liberasse di quell’inutile peso e le steccasse l’arto fratturato.
Andrea Bonanno, sette anni, è stato meno fortunato. È morto nell’ottobre del 2005, dopo 21 giorni di atroci sofferenze, in un lettino del reparto di Terapia intensiva dello stesso ospedale.
Era finito in Rianimazione per un’ingessatura ad un braccio che gli aveva provocato una setticemia.
Viveva ad Amantea, cittadina adagiata davanti al Mar Tirreno, e s’era presentato, accompagnato dal padre e dalla madre, nel reparto di Ortopedia per farsi allargare il gesso che gli era stato applicato a un braccio dopo una caduta accidentale.
Un intervento piuttosto banale, da compiere senza dover affrontare particolari difficoltà. E, invece, i medici incaricati di seguire il caso sottovalutarono l’obiettività clinica rappresentata dai dolori lamentati dal bimbo, dagli edemi e dal colorito scuro delle dita della mano e non predisposero necessari approfondimenti diagnostici e strumentali. Così non rimossero per tempo l’ingessatura e non si accorsero dell’ulcerazione determinata dall’eccessiva compressione dell’impianto che stava determinando un’infezione poi culminata in uno stato settico generalizzato.
Andrea cadde, perciò, in uno strano torpore divenuto, con il passare delle ore, sempre più profondo. Finì in coma e poi spirò.
Il giudice Gianfranco Grillone che, accogliendo le richieste del Pm Salvatore Di Maio, ha condannato due medici per quel decesso, è stato particolarmente critico con il mondo della sanità nelle motivazioni della sentenza.
«Il piccolo Andrea – ha scritto il giudice – è stato, prima di tutto, vittima di un “sistema” che concepisce il malato come una sorta di fantoccio inanimato, un contenitore di organi e di ossa trasportato da un reparto all’altro perché, nella migliore delle eventualità, questi e quelle vengano “presi in carico” dagli specialisti di settore, o perché, nella peggiore, chi si sia trovato a “gestire” il “paziente critico” sia messo un domani in condizione di poter dire che nessun sintomo è stato trascurato, nessun esame è stato omesso, nessuna consulenza non è stata invocata; poi, c’è un bambino che si lamenta per un gesso troppo stretto, ne porta i sintomi che anche un profano sarebbe in grado di decifrare... ma il “sistema” ha ormai reso tutti ciechi e sordi»[3].
Antonella Vergori, di Martirano Lombardo, in una calda serata d’agosto del 2008 è morta, invece, perché l’ambulanza corsa a prestarle soccorso sul lungomare di Nocera Terinese aveva un defibrillatore malfunzionante.
Il personale del 11...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. La “Fiat”
  3. Gli ospedali icone dello sperpero
  4. Le cose inspiegabili
  5. Il famigerato Piano di rientro e la Corte dei Conti
  6. I ritardi nei pagamenti e l’affaire degli immobili
  7. Gli errori sanitari
  8. La morte compagna di corsia
  9. I nuovi ospedali “fantasma”
  10. Il prete amante dei lussi e lo scandalo del “Papa Giovanni”
  11. I falsi infermieri
  12. L’onorata Sanità
  13. L’uccisione del vicepresidente del Consiglio Regionale
  14. L’epidemia di boss depressi
  15. I medici uccisi
  16. Documenti e bibliografia