Le Avventure di una Casaliga Disperata
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Le Avventure di una Casaliga Disperata

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Le Avventure di una Casaliga Disperata

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Informazioni sul libro

Cosa spinge una casalinga a raccontare la propria vita? È la domanda che si pone Roberta, la protagonista del romanzo, ma poiché "un quarto d'ora di celebrità non si nega a nessuno", la nostra eroina narra con leggerezza ed ironia l'amore, i sogni, le avventure e le disillusioni di una giovane donna. Ne nasce un romanzo qualche volta amaro, ma soprattutto ironico e divertente.

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Informazioni

Capitolo 1

Io


Mi chiamo Roberta e la scorsa settimana ho varcato la soglia dei fatidici “anta”. Sono orgogliosa del mio nome, mi piace e devo a mia madre se mi chiamo così, alla mia nascita mio padre, che Dio lo perdoni, decise che dovevo chiamarmi Genoveffa, in onore di una sua prozia a lui cara, ma dico io: “Come si può dare ad una bambina il nome della cattiva sorellastra di Cenerentola?”.
Fatto sta che mia madre s’impuntò, minacciando mio padre di scioperare ad oltranza in cucina, niente parmigiane di melanzane, niente ragout alla domenica né pastiere a Pasqua o cassate a Natale; così con lo spauracchio di non poter gustare i suoi piatti preferiti mio padre cedette e mia mamma scelse un nome che al maschile le ricordava un suo antico amore. I miei da bravi genitori meridionali, trapiantati al nord, si adoperarono in ogni modo affinché io crescessi sana e forte, soprattutto mamma mise in atto tutte le sue filosofie nutrizionali, di conseguenza: zabaione di due uova fresche tutte le mattine con molto zucchero e un goccio di marsala, “Perché a’ criatura fa bene”, merendina sostanziosa a scuola, “si no soffrè a’ famm’”, bel piatto di pasta a mezzogiorno e così per il resto della giornata e come se non bastasse per vincere la gracilità, la cosiddetta cura ricostituente a base di vitamine, olio di fegato di merluzzo e compresse di fosforo per la memoria.
È facile immaginare il risultato di tante cure: una bambina grassa e tonda. Quando però cominciai a crescere e a guardare le mie coetanee mi resi conto che dovevo mettere in atto ogni forma di astuzia per cercare di limitare i danni, così lo zabaione, approfittando di un momento di distrazione di mamma, che come una vestale presiedeva alla mia colazione, finiva regolarmente nella scodella di Ettore, il nostro cane, che aveva perfettamente compreso l’utilità di accucciarsi ai miei piedi durante il rito mattutino. Insomma escogitavo tutti gli espedienti per perdere qualche chilo, ma a onor del vero e a discolpa di mia madre devo dire che ero dotata di un robusto appetito e spesso senza bisogno di sollecitazioni materne mi abbuffavo di babà e cannoli, piangendo poi lacrime di coccodrillo.
A scuola ero brava, studiavo con diligenza e passione, forse era anche un modo per compensare la mia scarsa avvenenza; quando c’era compito in classe ero l’oggetto di attenzione dei miei compagni, sussurri, bigliettini, colpi di tosse, s.o.s. disperati, io non avevo l’anima della perfida fedifraga e, appena potevo, aiutavo i miei compagni, di solito mi buscavo i rimproveri dei miei insegnanti e spesso finivo in un banco faccia a muro, devo dire che ero proprio sfigata. Come forma di gratitudine all’uscita di scuola nessuno mi considerava, le femmine disdegnavano la mia compagnia per paura che la mia presenza allontanasse i ragazzi, i maschi non mi vedevano nemmeno, per loro ero assolutamente trasparente. Il mio rifugio era la mia camera, dove chiusa a chiave, in compagnia di Ettore divoravo romanzi e fantasticavo di avventure in luoghi lontani e remoti, di atti eroici e audaci; m’impersonavo in figure femminili che avevano lottato per le loro idee, sognavo un futuro dove gli altri mi avrebbero considerata e stimata per la mia competenza e professionalità. Intanto gli anni passavano e così ho terminato il liceo; sebbene fossi nata negli anni settanta mio padre, che non si era accorto dell’evoluzione dei tempi, dichiarò che non era cosa opportuna che io continuassi gli studi, destino di una donna perbene era quello di moglie e madre, una donna non doveva sottrarre tempo alla famiglia, bisognava diventare l’angelo del focolare. Insomma mentre tutte le mie coetanee progettavano il loro futuro liberamente e se la spassavano cambiando continuamente partner, io, grazie alle idee francamente arcaiche dei miei, ero una ragazza molto, molto vintage.
Una sera a cena, con tutta la famiglia riunita, dimenticavo di dirvi che dopo di me c’erano altri due fratelli, i miei genitori con fare solenne mi diedero il regalo della tanto sospirata e meritata promozione.
Mamma pose al centro del tinello una serie di grandi scatole, tutte impacchettate con fogli di carta lilla e grandi fiocchi color lavanda; ero molto curiosa, impaziente di aprire i pacchi, forse erano abiti eleganti, scarpe e borse alla moda, un bel cappotto nuovo per il prossimo inverno, il mio era ormai spelacchiato; papà mi incitò ad aprire ed io con dita febbrili scartocciai il primo pacco. Sorpresa!
Vi starete chiedendo che cosa mi abbiano regalato, ebbene non vi terrò sulla corda, ve lo dico subito: un bel corredo completo! Lenzuola, asciugamani, tovaglie da tavola, perfino strofinacci facevano bella mostra di sé davanti ai miei occhi. Silenzio tombale, guardavo i loro volti sorridenti e compiaciuti, ero come paralizzata.
“Che avevano in mente?” Quelle cose non mi servivano, arrabbiata gridai che volevo andare all’università e pronunciai le ultime parole famose “Io non mi sposerò mai”.
I miei mi guardarono sbalorditi, la loro cara figlia, quella coccolata e vezzeggiata, aveva osato ribellarsi, aveva deviato dalla strada maestra. Mia madre con un sospiro ripose il corredo in guardaroba, in attesa di tempi migliori.
Non voglio ulteriormente annoiarvi nel raccontare le mie epiche lotte per continuare gli studi, fatto è che ce l’ho fatta e mi sono iscritta alla facoltà di Sociologia e indovinate in quale città, non una città del nebbioso e industrioso Nord né nella solare, caotica Napoli, ma addirittura nella capitale! Ebbene mi sono iscritta a Roma. Il giorno della partenza è stato epocale, a parte che mamma aveva riempito la mia valigia di salsiccia e formaggi, alla stazione erano schierati, oltre che alla mia famiglia, parenti, amici, conoscenti e il mio cane Ettore, che abbaiava come un forsennato. Al muoversi della locomotiva mamma ha tirato fuori il suo fazzoletto e si asciugava la lacrime, tutti gli altri agitavano le mani, credo che la partenza del Titanic sia stata altrettanto commovente.
Finalmente a Roma! Libera! Frequentavo con impegno, sostenevo gli esami ottenendo sempre il massimo dei voti, mi appassionavo, i professori mi prendevano a ben volere, ero una di quelle che pensano che con la volontà si possa cambiare il mondo. Una volta laureata, aspiravo ad un lavoro gratificante. Il mio sogno era quello di lavorare per qualche organizzazione internazionale; nella mia mente la valigia era sempre pronta. Tutto bene per gli studi, ma penso che voi vogliate sapere anche come andava dal punto di vista sentimentale. Beh, un vero e proprio disastro, continuavo ad essere trasparente per il sesso maschile, in compenso le donne mi onoravano delle loro confidenze più intime, perfino quelle che si potrebbe definire imbarazzanti. Così proseguiva la mia vita fra eroici furori e sensi di depressione fino ad un fatidico giorno…

Capitolo 2

L’incontro


Una mattina ero seduta su una panchina, dove ero solita fermarmi nell’intervallo delle lezioni, nel giardino dell’università. All’ombra del grande tiglio rileggevo gli argomenti che avevo appuntato durante la lezione, ero immersa nella lettura, i concetti non erano semplici e richiedevano un’intensa applicazione. Completamente presa, non badavo all’andirivieni degli altri studenti che chiacchieravano fra loro o studiavano strategie per cercare di superare il prossimo esame di sociologia, uno dei più impegnativi dell’intero corso di laurea.
Avevo gli occhi fissi sulle pagine, quando all’improvviso sento una voce maschile che mi si rivolge “Hai da accendere?” alzo la testa per fissare il mio interlocutore e…una visione celestiale si offre al mio sguardo, lo studente più fico del corso di laurea, quello che tutte si contendono e si mangiano con gli occhi, quello che io non osavo nemmeno sfiorare col pensiero, perché troppo bello e dunque inaccessibile, si era rivolto proprio a me, la secchiona del corso, quella con qualche chilo di troppo, gli occhiali spessi da miope e i capelli di un indefinibile colore marrone spento, insomma quella che voi definireste una “racchia”.
Rimango lì imbambolata e volendo scomodare l’antico poeta Catullo “La lingua s’intorpidisce, le orecchie mi ronzano e ambedue gli occhi si coprono di buio”, il tempo si è fermato anche perché ne ho perso la percezione ma la sua angelica voce mi riporta alla realtà.
“Posso sedermi?”.
Incapace di profferire parola dò un cenno di assenso col capo, lui mi ripete “Hai da accendere?”.
Io, che nella mia vita non ho mai fumato, in quel momento desideravo tanto possedere un accendino, un fiammifero, una torcia, insomma qualcosa con cui fare fuoco, ma in un lampo di genio mi ricordai che mia cugina, che era venuta in visita a Roma, aveva lasciato il suo accendino nella mia borsa. La consapevolezza di poter esaudire la richiesta di quell’essere celestiale, che aveva avuto la benevolenza di rivolgersi proprio a me, mi diede un momento di pura felicità, la stessa felicità che si prova quando si scopre qualcosa di nuovo, di assolutamente eccezionale. Cercai febbrilmente nella mia borsa, trovai l’accendino e glielo porsi, lui accese una sigaretta, aspirò in modo sensuale, fissandomi con uno sguardo torbido alla Antonio Banderas, volute di fumo finirono sul mio viso, quasi soffocandomi, ma in quel momento mi sarei sottoposta alle più raffinate torture pur di stare vicino a lui. Seppi così che si chiamava Giuseppe, Peppe per gli amici, che si era iscritto a Sociologia perché non aveva di meglio da fare e che frequentava l’università con scarso profitto. Mi chiese se potevo prestargli gli appunti, cominciai a pensare che forse l’incontro era stato premeditato, ma in realtà c’erano anche altre ragazze brave e preparate, per cui restava un mistero insoluto il fatto che si fosse rivolto a me. Colpita irrimediabilmente da Cupido mi feci in quattro per farglieli avere e del resto la cosa risultò utile e vantaggiosa o almeno allora mi apparve tale, perché non avevo ancora ben compreso quale perfidia luciferina si nascondesse dietro quell’angelo dai capelli biondi e dai meravigliosi occhi blu. Cominciammo così a frequentarci, ci si incontrava nei paraggi dell’università, qualche volta si andava a prendere un gelato, per lui invariabilmente alla nocciola, finimmo anche col preparare insieme l’esame, il risultato fu che Peppe lo superò brillantemente buscandosi un bel trenta mentre per me ci fu solo un più modesto ventotto, ma la cosa non mi importava.
Fu un periodo felice, avrei baciato la terra che lui calpestava, e ad ogni momento ricordavo a me stessa che gli ero inferiore e quanto fossi stata fortunata a suscitare il suo interesse. Intanto cominciai a curare di più il mio aspetto, una bella seduta dal parrucchiere rese i miei capelli più luminosi e moderni, sostituii gli occhiali con un paio di lenti a contatto e iniziai una dieta rigorosa nella speranza di perdere qualche chilo, ma Peppe nella sua olimpica seraficità sembrava non accorgersi degli sforzi immani che facevo per attirare la sua attenzione. Passavano i giorni, uguali a se stessi, e volendo usare un gergo marinaro potremmo dire che era “calma piatta”, non accadeva nulla di nuovo e il nostro rapporto non faceva progressi, si manteneva al livello di una platonica amicizia, finché una domenica accadde l’imprevedibile.
Di buon mattino mi arriva una telefonata “Ciao, Roberta, sono Peppe, poiché mi annoio mortalmente e di domenica non si studia, perché anche il Signore il settimo giorno si riposò, che ne diresti se uscissimo insieme e andassimo al mare?”.
Rimango lì con la cornetta in mano, non credo ai miei orecchi, mi aveva appena invitato ad uscire! In un barlume di coscienza mi chiedo cosa si vada a fare in Gennaio al mare e poi in una giornata come quella, fredda e piovosa; ma è un attimo, subito mi perdo di nuovo e d’impulso dico che può passare a prendermi fra un’ora. “Un’ora?”. Indossavo il pigiama, in testa avevo i bigodini e non ancora avevo fatto la doccia, ma simile ad un fulmine mi sbrigai in fretta, dovevo solo vestirmi; in piedi davanti all’armadio ero in preda a dubbi amletici “L’abito verde o quello blu?” “Quello blu o il verde?”. Alla fine mi risolsi per il blu che mi faceva sembrare più magra e così ero pronta per il mio primo, vero appuntamento. Puntuale, come non era mai stato, Peppe arrivò strombazzando con la sua fiat 500 di seconda mano, che sua madre gli aveva regalato per invogliarlo a studiare, svegliando così tutti i condomini, che di domenica volevano prendersela comoda, ma lui, incurante delle imprecazioni al suo indirizzo, continuava a premere il clacson fino a quando a rotta di collo scesi per le scale per mettere fine a quella manifestazione di festa popolare. Entrai in macchina, lui mi guarda compiaciuto, “Vuoi vedere che si è accorto veramente di me? Forse gli piaccio? Forse che il brutto anatroccolo si è trasformato in un cigno?” pensavo fra me e non riuscivo ad essere naturale e spontanea come negli ultimi tempi mi accadeva quando stavamo insieme. Intanto diluviava e gli chiesi come mai stessimo andando al mare; mi risponde “Perché è più romantico”. Sento un brivido freddo lungo la schiena, nelle orecchie ho le raccomandazioni di mia madre “Non fidarti di nessuno! Mantieniti onorata!” ma avevo 22 anni, non avevo mai avuto una storia ed ero irrimediabilmente innamorata. Per non portarla per le lunghe, cari lettori, come avrete già intuito, persi la mia verginità sul sedile ribaltabile della 500 e da quel giorno studiai poco o quasi niente, ma scopai molto.

Capitolo 3

La promessa


Era trascorso quasi un anno da quando ero con Peppe, periodo in cui a furia di sacrifici ero diventata una donna per così dire accettabile; trascorrevo molto tempo davanti allo specchio, provando e riprovando trucchi nuovi e devo dire talvolta esasperati. I libri erano ricoperti di polvere e non avevo nessuna voglia di aprirli, in realtà mi mancavano due esami e la tesi, ma in quella fase della mia vita non esisteva altro se non Peppe; alle domande di mio padre sulla presunta fine dei miei studi rispondevo sempre in modo vago, adducendo una serie di scuse; in verità nei rari momenti di lucidità mi vergognavo un poco, perché sapevo che per loro mantenermi a Roma per gli studi era un grande sacrificio. In questo periodo venni a sapere che i genitori di Peppe erano di origine ciociara e che si erano poi trasferiti a Roma, dove avevano avviato un esercizio commerciale, che col tempo aveva assicurato alla famiglia una discreta agiatezza, motivo per cui a quel figlio unico, tanto adorato, non gli avevano mai fatto mancare nulla, anzi bisogna proprio dire che il più delle volte ne avevano assecondato i capricci.
Così Peppe era cresciuto: coccolato, vezzeggiato e viziato. Quando si usciva con la 500 avevamo tutt’altro da fare e non si parlava molto, tuttavia ogni tanto Peppe nominava i fratelli di suo padre, che erano andati in America a cercare fortuna e che si erano stabiliti a New York; Peppe diceva spesso che anche lui sarebbe andato in America, perché era un grande paese, che offriva opportunità ai giovani. Assentivo e dicevo che anch’io avrei trovato uno splendido lavoro a New York. Intanto la frequentazione della 500 continuava con gusto e con reciproca soddisfazione fino a quando un giorno mi accorsi con ansia che le mie mestruazioni erano in ritardo.
Quella sera ne parlai con la ragazza che divideva la stanza con me. “Sarà lo stress degli esami” mi disse “succede quando si è tesi”. Io pensai “Ma quale stress se non apro i libri da mesi!”. Così mi decisi, dovevo sapere. Con un paio di occhiali da sole scuri, nonostante fosse buio, vado in farmacia, mi accosto al bancone e chiedo con voce bassissima “Mi dà un test di gravidanza?”. La farmacista dice: “Cosa? Vuole ripetere?”. Io ancora più confusa farfuglio e vedo lo sguardo della dottoressa che è fra l’ironico e il divertito, probabilmente ha capito, ma con crudeltà tipicamente femminile mi chiede di ripetere la richiesta; così alla fine ce la faccio e le chiedo con voce chiara il test. Corro a casa, mi chiudo in bagno e preparo ogni cosa, bisogna aspettare un po’ pr...

Indice dei contenuti

  1. Incipit
  2. Capitolo 1
  3. Capitolo 2
  4. Capitolo 3
  5. Capitolo 4
  6. Capitolo 5
  7. Capitolo 6
  8. Capitolo 7
  9. Capitolo 8
  10. Capitolo 9
  11. Capitolo 10
  12. Capitolo 11
  13. Capitolo 12
  14. Capitolo 13
  15. Capitolo 14
  16. Capitolo 15
  17. Capitolo 16
  18. Capitolo 17
  19. Capitolo 18
  20. Capitolo 19
  21. Capitolo 20
  22. Capitolo 21
  23. Capitolo 22
  24. Capitolo 23
  25. Capitolo 24
  26. Capitolo 25
  27. Capitolo 26
  28. Capitolo 27
  29. Capitolo 28
  30. Capitolo 29
  31. Capitolo 30
  32. Capitolo 31
  33. Capitolo 32
  34. Capitolo 33
  35. Capitolo 34
  36. Capitolo 35
  37. Capitolo 36
  38. Capitolo 37
  39. Capitolo 38
  40. Epilogo