La mia storia
“Volete che raccontiamo anche qualche battuta di Julia, figlia di Augusto? Se non mi giudicate un chiacchierone, vorrei far precedere qualche notizia sui costumi di quella donna, a meno che qualcuno di voi abbia argomenti seri e istruttivi da esporre.
Aveva trentotto anni, un’età che doveva indurla a pensare alla vecchiaia, se fosse stata savia; ma essa abusava dell’indulgenza della fortuna e di quella di suo padre. D’altra parte, l’amore per le lettere e la grande cultura, che era facile avere in quella casa, inoltre una squisita educazione, congiunta ad estrema dolcezza d’animo, attiravano enorme simpatia a quella donna, tra lo stupore di quelli al corrente dei suoi vizi che consideravano il contrasto così parimenti grande. Più d’una volta suo padre, sia pur con indulgenza mista a severità, l’aveva ammonita a moderare il lusso eccessivo e l’apparato vistoso del seguito. Ed ogni volta che considerava la turba di nipoti notandone la somiglianza con Agrippa, arrossiva di dubitare della pudicizia di sua figlia. Quindi Augusto amava cullarsi nell’illusione che sua figlia avesse un temperamento esuberante fino a dar l’impressione di procace sfrontatezza, ma esente da colpa: osava credere che fosse come Claudia nei tempi antichi. Perciò con gli amici diceva di avere due figlie viziate che doveva per forza sopportare, lo Stato e Julia.”
Così fu scritto da Caio Svetonio.
Ma vorrei cercare di raccontare dall’inizio la mia storia, sinceramente come io la vissi e non come fu scritto.
I padri desiderano trasmettere ai figli solo le loro virtù, non anche i loro vizi. Non c’è riuscito nessuno. Figuriamoci Cesare Ottaviano Augusto, mio padre.
Del mio primo fidanzamento non ricordo nulla. Proprio nulla. Avevo quattro anni. Mio padre, per i suoi intrighi politici, mi prometteva ai figli di coloro di cui voleva alleanza. Così accadde anche a cinque anni e ugualmente non ricordo i loro nomi, né i loro volti.
A quindici anni mi fece sposare mio cugino Marcello, figlio di Ottavia. Costui lo ricordo fin troppo bene. Assai gracile, sempre sudaticcio, non riuscì neanche a consumare la mia verginità. Si era sforzato di penetrarmi senza riuscirci. Morì circa due anni dopo il matrimonio.
“La sposò senza prendere in considerazione i suoi sentimenti o anche quelli dei suoi successivi mariti, a persone politicamente utili: il giovane e cagionevole Marcello, l’anziano Agrippa e Tiberio che era ancora innamorato di sua moglie e quindi detestò quella nuova: Julia.”
Ora sono relegata in quest’isola, Pandataria, per volontà di mio padre. È un’isola terribile, inospitale, battuta dai venti, bruciata dal sole. Merito tutto questo?
E stata la mia condotta adulterina a farmi finire qui?
Mio padre fu tutt’altro che un modello di virtù coniugale. A Roma non si contavano i suoi adulteri. Alcuni, certamente amici, sostenevano che agisse meno per libidine che per politica e lo facesse per conoscere i segreti dei suoi avversari attraverso le loro mogli, naturalmente quelle belle.
So benissimo che i suoi amici, per soddisfarlo, gli cercano giovanette o giovani donne sposate. Queste ultime, mi risulta, le preferisce. E anche la mia matrigna Livia, che meglio conosce i gusti del marito, gli procura donne.
Ottaviano si separò da mia madre Scribonia, sposata sempre per interesse, perché disse di essere “disgustato dalla perversità del suo carattere”. Nella realtà si era invaghito di Livia e di una nuova alleanza politica.
Mia madre ha seguito me nell’esilio; è qui, accanto sin dal primo giorno e condivide in ogni momento il disagio, la tortura di quest’isola. E mi sopporta.
Il vento dilaga tra i rovi, sui rami dell’ulivo. Mozza il respiro. Tutto a volte sembra svanire: i miei pensieri, i ricordi. Ma, non voglio perderli. Non debbono lasciarmi, altrimenti cosa rimane in me, per sopravvivere?
La vita ristagna su questo mare che sembra avercela con quest’isola, sempre a brontolare contro la riva rocciosa.
Mi guardo allo specchio. Infrango ogni giorno la mia bellezza per rimanere viva, mentre cammino sospinta dallo scirocco, che sibila nelle orecchie e a volte grido perché il fuoco che sento in me è ancora vivo. Corro, corro, quando posso, ovvero quando voglio. Corro nuda verso il sole che tramonta, sfioro l’erba umida di salsedine, come una falena vorrei sbattere su quel grande globo rosso.
Una vita di estrema licenziosità la mia?
Quando il globo rosso tramonta sbatto sull’onda che rovescia su di me il freddo del ricordo. Quanto ho amato Cesare Ottaviano Augusto!
II suo sigillo è una sfinge, corrisponde bene a questo enigmatico e controverso uomo.
“Educò la figlia e le nipoti in modo che si avezzassero anche a lavorare la lana e vietava loro di parlare o di far cosa alcuna se non palesemente sì che potesse essere annotata nel diario quotidiano. E tanto la tenne lontane da contatti con estranei che una volta scrisse a Lucio Vinicio, chiaro e distinto giovine, per rimproverarlo della sconvenienza da lui fatta vene...