Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema
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Per grande che sia, per quanto legato alla nostra epoca, il cinema si radica per sempre nel gusto di tutte le classi, di tutte le età e di tutte le nazioni, per mostrare lo spettacolo del potente che viene ricoperto di sterco da un vagabondo; di un`enorme nave che affonda, di un mostro spaventoso emerso dalle profondità della terra; del Buono che, dopo innumerevoli vicissitudini, uccide in pieno sole il Cattivo; del poliziotto che acciuffa il ladro malavitoso; dei bizzarri costumi degli stranieri e dei cavalli nella pianura; dei guerrieri fraterni, del dramma sentimentale e della donna nuda fatta a pezzi per Amore. I più grandi artisti di questa arte, Chaplin o Fiedrich Wilhelm Murnau, non fecero altro che mettere in rilievo questo procedimento volgare, senza tentare mai - anzi, facendo esattamente il contrario - di abolirlo. Se il cinema è idea, o visitazione casuale dell`idea, lo è nel senso in cui il vecchio Parmenide, in Platone, la esige dal giovane Socrate: che ammetta, insieme al Bene, al Giusto, al Vero, al Bello, alcune idee altrettando ideali, per quanto meno convenienti: quella del Capello o del Fango. (Alain Badiou)

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788881019342
Argomento
Art
Categoria
Photography

XI. Le plus-de-voir. Del Capello e del Fango[1]


Di che si tratta? Parlando del suo affresco, che lui chiama “trasmissioni” e che noi chiameremo il “film”, Godard si mostra sotto le vesti di un archivista, evoca Foucault, situa la sua impresa tra la Storia e l’Idea. Ma questa intenzione esplicita non è come uno strato supplementare che si potrebbe aggiungere a tutto ciò che si può proferire a partire da – o intorno al – l’uomo con il sigaro e la lampada (grande artista saggio, posto sotto l’icona di Groucho Marx), il cui ritorno, con il rumore della tastiera della macchina da scrivere, segnala nel “film” che tutta questa inquietudine visuale intitolata Histoire(s) du cinéma è la biografia intellettuale di un solo uomo?
O anche: la definizione astratta del cinema è l’incrocio di un’immagine-movimento e di un reale. Il “film” fa di questo incrocio la sua materia per mezzo degli artifici principali del montaggio virtuoso, della sovrimpressione, della separazione brusca tra il visibile e l’udibile, del mormorio che al di sotto delle massime e delle sentenze – si sa – non cessa mai, come se ogni verità si estirpasse laboriosamente da un eteroclito rumore di fondo? Ma alcuni immensi insiemi testuali o dei blocchi di sapere allusivo, l’immagine presa nel volto angelico di una indovina, ostacolano questa idea di un costante disintrecciamento o reintrecciamento (piegare e dispiegare, avrebbe detto Deleuze), la cui unica scommessa sarebbe schiacciare l’inafferrabile giustizia delle immagini, o la loro notoria ingiustizia. Si vede ben sorgere allora, la disputa tra un artista esageratamente solitario e questo enorme buco nero del secolo che ha per nome “Seconda Guerra Mondiale”.
O anche: si è detto che il tema di Godard era la genealogia della potenza del cinema. Ma non si tratta anche della sua impotenza? L’impossibile da filmare incalza Godard da sempre: la fabbrica, il sesso, lo sterminio. Di modo tale che questo immenso palinsesto, il “film”, aspirerebbe a circoscrivere con gli strumenti accumulati dall’onnipotenza (con il conglomerato di immagini e suoni possiamo fare quello che vogliamo), il punto di impotenza che è, infine, tutto il reale del cinema e la ragione ultima della sua dissipazione. Da lì viene anche lo statuto ambiguo dei libri, che nel “film” Godard prende dalla sua biblioteca e dai quali cita titoli e frammenti. Al tempo stesso, il conglomerato della potenza li incorpora, li mescola, li iscrive nella polifonia e subordina la loro forza che si proietta in ogni direzione a quella di cui è capace il cinema, sia per mezzo del pubblico a cui è rivolto (che si conta in milioni, mentre nel caso dei libri si parla di migliaia) sia per la forza trascinante del montaggio delle finzioni (L’Espoir, il film, contro L’Espoir, il libro). Questo da una parte suggerisce che i libri si mantengono sullo sfondo, che la loro visibilità è solo apparente, e che questa disponibilità in ritirata dello scritto monta forse, insieme al reale, una guardia più sicura di quella delle immagini.
O anche: una totalizzazione sinfonica. Una “restituzione integra del passato”, non per mezzo della citazione o della sua narrazione, ma attraverso i mezzi, combinati, di una disarticolazione tematica (come si incrocia il cinema con la guerra, l’amore, la bellezza delle donne, le rivoluzioni, i massacri, le mitologie, le nazioni...?) e di una contrazione locale, che riunisce in un punto tutte le interpretazioni disponibili. Da lì un procedimento di composizione che con si può propriamente paragonare a quello di Mallarmé in «Un colpo di dadi...». Alcuni enunciati principali, frequentemente presentati nel contesto in lettere maiuscole (Histoires du cinéma, Fatale beauté, Une vague nouvelle, ecc.), inducono sottotesti accompagnati a loro volta da un rumore quasi inaudibile o metaforizzato per mezzo di motivi musicali, mentre le citazioni filmiche sono trattate come supporti di variazioni infinite di colori, ralenti, sovrimpressioni, velocità invertite, tagli, incisi sconnessi, ricorrenze, cornici, mutilazioni visibili. Dall’altro lato, funzionano costruzioni secondarie, non tanto “dal basso” degli enunciati cruciali quanto a lato di essi, come fortificazioni spoglie. Tale è il caso in particolare dei titoli dei film che vanno tessendo lentamente, a parte rispetto a tutto il resto, la lista nominale, impavida, inalterabile, di ciò che permane.
Ma il “film” può essere anche visto a partire da ciò che costituisce un’eccezione a questo trattamento ingarbugliato, dove la distribuzione simultanea del molteplice visibile e udibile porta alla superficie, come fa l’oceano con una nave, non solo l’organizzazione semantica del “film”, ma anche l’insieme di associazioni, virtualmente infinite, che un pensiero permanentemente in stato di allerta e mobile scopre finanche nella più piccola affermazione, e che simbolizza, nel livello stesso degli enunciati fondamentali, i tentativi combinatori nelle lettere o nelle parole (come, per esempio, nel passaggio da Nouvelle Vague a Une vague nouvelle, o l’esortazione “toi” estratta dalla parola “Histoire”, senza contare i giochi di parole del tipo “si je ne Mabuse[2] e molti altri). Eccezione: il dolce terrore di una sequenza de La morte corre sul fiume, quella dei bambini sulla barca, che sono mostrati mentre navigano lungo il fiume di notte senza alterazioni né tagli. O il ritorno calcolato della sequenza della mitragliatrice tratta da L’Espoir. O tal momento di una parola nuda stampata in un volto. O tal’altra insistenza musicale, che è come la grazia di una lentezza che arriva alla confusione del visibile. O anche, l’inserzione fugace di una scena porno, la cui bruttezza brutale salta agli occhi come una macchia sulla seta. E allora si può dire che l’estrema scienza del montaggio, che fa del “film” l’equivalente di una conversazione multiforme organizzata da una divinità, o anche l’equivalente di una polifonia rinascimentale, è lì solo per far desiderare la sua sospensione, poiché ricerchiamo, nel mondo devastato, i segni dispersi e quasi impercettibili di una pace superiore.
O anche: sostenere la sfida di questa altra arte del visibile, la pittura. Sono innumerevoli, nel “film”, i momenti nei quali un volto del Rinascimento fa esplodere il suo colore ai margini di una sequenza, o dietro un fotogramma in bianco e nero. E si tratta della stessa ambiguità che la vincola ad un libro. Occorre comprendere – qualcosa che come minimo indica la breccia esistente nell’immagine cinematografica, che apre verso lo splendore pittorico, come se questo fosse sempre soggiacente all’immagine – che il cinema continua a pronunciare, fedele alla pittura, le nozze conflittuali tra l’elemento selvaggio della storia con l’evidenza corporale dell’amore? Un’altra tecnica più incerta è quella che organizza l’interferenza molto rapida, quasi dolorosa, tra un’immagine di cinema e un frammento di un quadro. Vi si potrebbe vedere quasi il fatto che il cinema è, più che il continuatore, il supplizio della pittura. L’espressione di Malraux, «la monnaie de l’absolu» è uno dei sintagmi cruciali del “film”. Ma ci domandiamo a volte se la “moneta”, trattandosi di cinema, non si imponga a questo punto sull’“Assoluto” solo per equivalere ad un Adamo ed Eva di Michelangelo, come se mancasse tutta la polvere di tutti i volti di amanti di tutta la breve storia del cinema.
O ancora: la malinconia. Sarebbe il vero tema di tutto il “film”. È abbastanza risaputo che lo stile di Godard, inserrandosi in se stesso e inserrando gli altri, pressati vivi contro un muro perché confessino le loro incertezze malate, o captando il furore mortale degli atti, o esibendo – nel contrasto tra le sentenze definitive (nella loro dimensione moralista francese: Chamfort, La Rochefoucault) e la povertà toccata dalla grazia del paesaggio piatto o del tavolo di ferro bianco – la poca fede che bisogna concedere ai propri impulsi, è materialmente malinconico. Nel “film”, questa malinconia è complessa. Il cinema è il suo supporto privilegiato; solo in apparenza è l’arte del suo tempo. Un enunciato del “film” è: il cinema, arte del XIX secolo, ha tradito il XX secolo. Malinconia per ciò che è sempre troppo tardi, tanto più in quanto il cinema è morto, senza dubbio, come suggerisce l’iscrizione, quasi terminale: “Questo era il cinema”. Il “film” dice anche: “si può fare tutto, salvo la storia di ciò che si fa”. Di modo che questa “storia(storie) del cinema”, o è impossibile, o certifica che ciò di cui è testimone il “fare” del cinema è ora ancora più forcluso. Godard, testimone malinconico di una certa abolizione del suo proprio “fare” artistico? A questo contribuirà il fatto che la “onda nuova”, il cui tenero emblema è l’immagine di Truffaut, sia designata come una specie di paradiso perduto, nel quale, guidati da Henry Langlois (vale a dire, dalla storia del cinema), alcuni giovani strappavano un’arte dalla sua leggenda accademica mortifera per esporlo agli strumenti del Fuori.
Ma anche questo paradiso, se lo si mette di fronte alla forza reale della Storia, era avvelenato, dice Godard, perché proprio ai suoi bordi stavano le “illusioni perdute”, il dolore delle rivoluzioni, il comunismo oscuro e, infine, la mistura irrappresentabile (alla quale, a mio avviso, Godard fa troppe concessioni alla moda) dei tiranni simmetrici, Hitler e Stalin. Di modo che la malinconia si rovescia. Poiché, ciò che è abolito nella potenza del dire, nell’apertura politica del dossier completo del già chiuso, nello zelo posto nel complicare all’infinito (stile barocco, à la Gottfried Leibniz, le monadi del cinema) la piega e ripiega dell’immagine e del reale, nella messa a nudo di ciò che ogni impostura comporta veramente, l’artista inaugura un’altra epoca, anche quando non sappia quale. Un poco come la saturazione retrospettiva – anch’essa marcata da un inimitabile tono malinconico – delle sinfonie di Mahler, che inaugura, senza saperlo, la ristrutturazione di Arnold Schönberg. Il volto-ritratto di Godard sotto la sua lampada, che non cessa di evocare la maschera di Mahler, non è quello di un archeologo virtuoso e triste? O di un uomo pervaso, con tutta la serietà puritana della Svizzera, da un coraggio più essenziale, quello di vincere la malinconia con le sue stesse armi, facendo di essa il tono e lo stile di una promessa cifrata?
O anche: il platonismo anarchico di Godard. È sorprendente che nel “film” ogni immagine sia l’indizio possibile di un’altra immagine, e allo stesso tempo la scorta di vari testi simultanei. L’immagine non rimanda mai ad un referente: qualsiasi mimetismo resta escluso. L’immagine è piuttosto la separazione tra essa stessa e l’intero mondo di ciò che ha luogo nel visibile o nel dire. Il “film” è il movimento di questa separazione sovrapposta, intrecciata. Il cinema ha per vocazione – nel momento in cui si dichiara – il vincolare, il relazionare ciò che abitualmente non è relazionato, precisamente perché può avvicinare, far entrare in consonanza, tramare polifonicamente, per mezzo stesso della separazione. Per esempio ebrei e arabi (Israele e Ismaele, titola il “film”), o ebrei e tedeschi in una sola immagine, separata da se stessa: due giovani soldati tedeschi afferrano il cadavere di un deportato. Ma, allora, la domanda si trasforma: qual è l’essenza dell’immagine quando non riproduce nulla, ma si separa sinteticamente da tutte le altre, a beneficio di una invisibile giustizia del visibile? In fondo, l’organizzazione seriale del “film”, la sua schiacciante sottigliezza nei dettagli, la sua mobilità tattica, compongono i mezzi di una nuova elevazione verso l’essenza, della quale alcuni piani sospesi (una macchia azzurra nell’oscurità, un volto di donna lentamente spostato, una casa le cui finestre si chiudono...) danno le proporzioni del simbolo, e i cui costanti ricorsi alle iscrizioni astratte sono come i pali indicatori, o i riassunti che un Socrate convertito all’essenzialità dell’immagine darebbe ai suoi giovani uditori, a coloro che sono deviati da tanta sofistica apparente.
Opera maestra, sì, nel senso artigianale del termine: conclusa e completa, vagamente maniacale, che trama vari fini, senza una decidibile gerarchia.
Obiezioni? Sì, nonostante tutto. Una certa pesantezza, un’eccessiva serietà ai limiti dell’enfasi, ben segnalata nel film dalla voce claudeliana di Alain Cuny. Il cinema è convocato di fronte al tribunale della sua responsabilità storica e della sua fatalità artistica. Questo è fargli giustizia? Questa arte impura è quella del sabato sera, delle uscite in famiglia, degli adolescenti, dei gatti sulle pareti. Oscilla da sempre tra il burlesque del cabaret e il titanico del tumulto. Al tempo stesso il pagliaccio e l’uomo-più-forte-del-mondo. Non bisognerebbe concedergli che è, nell’essenziale, innocente? Come tutto ciò che brilla e unisce, è stato propagandista – è sottinteso – e pubblicitario, e stupido. E fuggevolmente capace, per una sorta di depurazione interna dei suoi materiali indegni, del più alto destino. In ciò che riguarda il “film”, dove Godard si impone, come sempre, con la questione deleteria della Salvezza – l’amore contro lo Stato, la responsabilità del visibile contro i cani rabbiosi della “comunicazione”, il testo duro contro l’immagine inconsistente, ecc. – sarebbe necessaria una controstoria alleggerita, dove si vedrebbe che non è necessario fare, a proposito del cinema tanta(tante) storia(storie). Per grande che sia, per quanto legato alla nostra epoca, quest’arte dell’agglomerazione generale si radica per sempre nel gusto di tutte le classi, di tutte le età e di tutte le nazioni, per mostrare lo spettacolo del potente che viene ricoperto di sterco da un vagabondo; di un’enorme nave che affonda, di un mostro spaventoso emerso dalle profondità della terra; del Buono che, dopo innumerevoli vicissitudini, uccide in pieno sole il Cattivo; del poliziotto che acciuffa il ladro malavitoso; dei bizzarri costumi degli stranieri e dei cavalli nella pianura; dei guerrieri fraterni, del dramma sentimentale e della donna nuda fatta a pezzi per Amore. I più grandi artisti di questa arte, Chaplin o Friedrich Wilhelm Murnau, non fecero altro che mettere in rilevo questo procedimento volgare, senza tentare mai – anzi, facendo esattamente il contrario – di abolirlo.
Se il cinema è idea, o visitazione casuale dell’idea, lo è nel senso in cui il vecchio Parmenide, in Platone, la esige dal giovane Socrate: che ammetta, insieme al Bene, al Giusto, al Vero, al Bello, alcune Idee altrettanto ideali, per quanto meno convenienti: quella del Capello o del Fango.


[1] Il titolo, che abbiamo lasciato in originale, fa esplicito riferimento all’espressione lacaniana Plus-de-jouir, tradotta in italiano con “più-di-godere”; cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. L’inverso della psicoanalisi, tr. it., Einaudi, Torino 2000. Il riferimento al concetto lacaniano indica in Badiou la possibilità di lettura del film di Godard come eccedenza rispetto ad ogni lettura, eccedenza evidente tra l’altro, nello stile utilizzato che contrasta fortemente con lo stile più piano e “didattico” della conferenza su H...

Indice dei contenuti

  1. Alain Badiou o il cinema come promessa filosofica
  2. Parte prima
  3. I. Arte, matematica e filosofia
  4. II. Il cinema come esperienza filosofica
  5. III. Falsi movimenti. Visitazione, Passaggio, Impurità
  6. IV. Pensiero e cinema. Il passaggio e l’immobilità
  7. V. Sulla situazione attuale del cinema
  8. VI. Disfare l’immagine. Deleuze e il cinema
  9. Parte seconda
  10. VII. Al fondo dell’essere. Note su L’ultimo uomo di Murnau
  11. VIII. La cattura cinematografica dei sessi: Identificazione di una donna
  12. IX. La fine di un inizio. Tout va bien
  13. X. Su Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard
  14. XI. Le plus-de-voir. Del Capello e del Fango[1]
  15. Nota aL testo