Roger Chartier
Le conseguenze della trasformazione
dei supporti: dal codex al testo elettronico*
«Il libro non esercita più quel potere che gli è stato proprio, non è già più il padrone dei nostri ragionamenti o dei nostri sentimenti di fronte ai nuovi mezzi di informazione e di comunicazione di cui ormai disponiamo»: questo rilievo di Henri-Jean Martin costituisce un buon punto di partenza per ogni riflessione che voglia individuare e designare gli effetti di una rivoluzione temuta dagli uni o applaudita dagli altri, data come ineluttabile o soltanto indicata come possibile. Dissociati dai supporti in cui abbiamo l’abitudine di incontrarli (il libro, il giornale, il periodico), i testi sarebbero ormai destinati a un’esistenza elettronica: composti sul computer o digitalizzati, trasmessi con le procedure telematiche, essi ormai raggiungono un lettore che li riceve su uno schermo.
Come situare, nella lunga storia del libro, della lettura e dei rapporti con lo scritto, questa rivoluzione annunciata, di fatto già avviata, che fa passare dal libro (o dall’oggetto scritto) quale lo conosciamo, con i suoi fascicoli, i suoi fogli, le sue pagine, al testo elettronico e alla lettura su schermo? Per rispondere a questa domanda occorre distinguere nettamente vari registri di mutazioni i cui rapporti restano ancora da stabilire. La prima rivoluzione è tecnica ed è quella che ha sconvolto, intorno alla metà del secolo XV, i modi di riproduzione dei testi e di produzione del libro. Con i caratteri mobili e i torchi per la stampa, la copia manoscritta non è più l’unica risorsa disponibile per garantire la moltiplicazione e la circolazione dei testi. Si spiega così come l’accento venga posto su questo momento davvero saliente della storia occidentale, considerato come tale da caratterizzare l’Apparition du livre (è questo il titolo dell’opera pionieristica di Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, pubblicata nel 1958) o caratterizzato come una Printing Revolution (secondo il titolo dell’opera di Elizabeth Eisenstein pubblicata nel 1983).
Oggi l’attenzione si è leggermente spostata, e si insiste ormai da più parti sui limiti di questa prima rivoluzione. È chiaro, in primo luogo, che nelle sue strutture essenziali il libro non risulta modificato dall’invenzione di Gutenberg. Da una parte, almeno sino agli inizi del XVI secolo, il libro a stampa dipende ancora molto dal manoscritto. Ne imita l’impaginazione, le scritture, le apparenze e, soprattutto, è considerato come tale da dover essere rifinito a mano – dalla mano del miniatore che dipinge iniziali ornate o istoriate e miniature; dalla mano dell’emendator, il correttore, che aggiunge segni di interpunzione, rubriche e titoli; dalla mano del lettore che inserisce sulla pagina note e indicazioni a margine. D’altra parte, e più fondamentalmente, dopo come prima di Gutenberg, il libro è un oggetto composto di fogli piegati, uniti in fascicoli legati gli uni con gli altri. In questo senso, la rivoluzione della stampa non è affatto una ‘nascita del libro’. In realtà, il libro occidentale ha trovato la forma, che è ancor oggi la sua nella cultura della stampa, dodici o tredici secoli prima che la nuova tecnica si instaurasse.
Uno sguardo verso l’Oriente, verso la Cina, la Corea, il Giappone, è un’ulteriore ragione per valutare in modo nuovo la rivoluzione della stampa. Esso mostra infatti che il ricorso alla tecnica adottata in Occidente non è una condizione necessaria perché esista non solo una forte cultura scritta ma anche una cultura a stampa di solide basi. Certo, in Oriente i caratteri mobili erano conosciuti; è lì che sono stati inventati e utilizzati, molto prima di Gutenberg: nel secolo XI vengono utilizzati in Cina dei veri e propri caratteri in terracotta, e due secoli dopo, in Corea, vengono stampati testi con caratteri metallici. Ma, a differenza dell’Occidente dopo Gutenberg, il ricorso ai caratteri mobili resta in Oriente limitato, discontinuo, confiscato dall’imperatore, dai feudatari o dai sacerdoti. Questo non significa tuttavia che non si abbia in Oriente una cultura della stampa di grande levatura. Tale cultura è resa possibile da un’altra tecnica: la xilografia, cioè l’incisione su legno di testi che vengono successivamente stampati per pressione. Attestata già agli inizi dell’VIII secolo in Corea, alla fine del IX in Cina, la xilografia rende possibile nella Cina dei Ming e dei Qing, come nel Giappone dei Tokugawa, una circolazione vastissima dello scritto a stampa, con imprese editoriali commerciali indipendenti dai poteri forti, una rete fitta di librerie e gabinetti di lettura e generi popolari a larga diffusione.
La cultura a stampa delle civiltà orientali non va quindi misurata con il solo metro della tecnica occidentale, quasi per difetto. La xilografia ha i suoi specifici vantaggi: si adatta meglio dei caratteri mobili a lingue caratterizzate da un numero altissimo di segni o, come in Giappone, dalla pluralità delle scritture. Inoltre mantiene un legame forte tra la scrittura a mano e la stampa, perché le tavole vengono incise a partire da modelli calligrafici. Infine, grazie alla resistenza dei legni opportunamente conservati, la xilografia permette di commisurare la tiratura alle richieste. Questo dovrebbe condurci a una valutazione più sfumata dell’invenzione di Gutenberg, che rimane certo...