Patrick Villanueva
Il jazz. Piaceri e seduzioni.
Il Novecento (2001)
Premessa
Il ricorso ai codici appartenenti alla musica classica occidentale (la notazione ritmico melodica e i principi della musica tonale) ci permette di cogliere bene talune particolarità del jazz. I metodi che insegnano l’armonia nell’improvvisazione e anche le raccolte di temi e trascrizioni sono, proprio per questo motivo, numerosissimi. Tuttavia, fatti salvi i principi stabiliti in questi lavori, è pur vero che, nella fase attuativa, al neofita sembra venir meno la necessaria precisione. Questo fatto, nel peggiore dei casi, provoca il rigetto e, nel migliore, lo stupore per un’ispirazione la cui essenza è misteriosa. Nel jazz c’è sicuramente una “magia” della creazione artistica, ma esistono anche elementi indescrivibili con i criteri analitici classici, dei quali occorre talvolta cercare una spiegazione al di fuori degli standard abituali. È il caso del blues, musica di essenza modale che dà al jazz quel senso di libertà che esso sprigiona ed è anche il caso dello swing, un’espressione ritmica strettamente collegata a questo genere di musica. La pratica mette in evidenza l’impiego di principi trasmessi per via orale più che testuale. Nel presente articolo abbiamo scelto per ogni sezione una registrazione esemplificativa capace di mettere in risalto l’aspetto particolare. Proponiamo al lettore di riferirvisi per seguire i diversi punti sviluppati nel testo, tuttavia il disco è un’immagine catturata del tempo e talvolta si è parlato di “opera” a proposito di un’esecuzione immortalata in questa tecnica. Chiediamo al lettore di non dimenticare che la creazione artistica è per il musicista un divenire continuo rispetto al quale una particolare registrazione costituisce soltanto un momento.
Quella di swing è la nozione più indissolubilmente legata al jazz. Molti musicisti utilizzano il termine come criterio assoluto d’autenticità. È normale associarlo, fino agli anni Quaranta, al fatto di provocare il movimento e dunque la danza, in chi ascolta. Quando, in seguito, il jazz prenderà la direzione più astratta, la nozione di movimento persisterà a livello intellettuale. Il jazz viene descritto come una musica ternaria, vale a dire con un flusso che si esprime non per crome uguali, ma per terzine di crome. Ma ciò è un po’ semplicistico, perché il fatto di sostituire delle crome con crome semiminime non produce alcun effetto particolare di swing. D’altronde, un’analisi più approfondita mostra che il valore delle crome eseguite dai jazzisti non obbedisce a questa regola sistematicamente come illustra lo studio di André Hodeir [1995] effettuato con i calcolatori dell’IRCAM. In pratica, l’apprendista jazzista sa bene che la difficoltà maggiore di questa musica è quella di fornire a ogni nota un significato insieme sufficientemente preciso e flessibile, per riuscire a creare una sensazione di movimento fisico.
1. Origini, dal sincopato allo swing
Per cercare di comprendere la nascita del jazz, è necessario risalire ai momenti iniziali a New Orleans. Nel XIX secolo, la ricchezza artistica di questa città, un porto commerciale aperto sul Golfo del Messico, è data dal melting pot musicale che vi regna. La musica si ascolta ogni giorno in molteplici forme, dal blues all’opera, passando per il ragtime, per le marce di Sousa o le musiche a percussione caraibiche. Ogni gruppo della popolazione può sviluppare la sua propria cultura, ma restando sempre in contatto con quella dei quartieri vicini. Si possono individuare tre direzioni principali che, fra le musiche popolari del passaggio al Novecento, si avvicinano al jazz: la musica d’influenza afrocaraibica, il ragtime e il blues.
1.1 La musica d’infleunza afrocaraibica
Per spiegare quella percezione dello scorrere del tempo che i musicisti jazz chiamano “pulsazione”, proponiamo un’analogia con musiche più direttamente ispirate alle fonti africane. Le musiche afrocaraibiche non sono, il più delle volte, basate ritmicamente su una segmentazione regolare per unità di misura, ma su cicli d’accentuazioni irregolari in un flusso costante. Come per la musica africana, non esiste una divisione in tempi propriamente detta. Sono per lo più degli strumenti acuti a esprimere ciò che nei Caraibi spagnoli viene chiamato le claves, termine che significa esattamente “chiavi”.
Una delle figure più presenti è quella dei tre accenti disposti come nella figura I.
Per esempio, questo motivo è rintracciabile nella beguine, nel Gwo’ka (Guadalupa), nel calypso (Trinidad) o nella bomba (Portorico). Una clave più complessa sta alla base delle musiche raggrupate sotto il termine “salsa”.
Una caratteristica essenziale delle musiche popolari dei Caraibi è la sovrapposizione di questa clave con la battuta a due tempi (2/2) di tradizione europea. Ciò influisce sull’esecuzione delle crome sovrapponendo ad esse un’accentuazione la cui rappresentazione vocale potrebbe essere come nella figura 2.
Si osserva che, oltre agli accenti, questo genere di musica utilizza delle vocali più o meno gravi o acuta, aperte o chiuse a seconda della posizione in cui l’accento è posto, sul tempo o sulla clave. Una simile vocalizzazione dei ritmi è molto frequente nelle musiche afrocaraibiche; la trasmissione orale permette a tutti di mettervi gli accenti obbligati in maniera individuale, il che dà elasticità all’interpretazione dei ritmi di base. D’altronde, ciò si traduce spesso in una regionalizzazione molto spinta della musica, soprattutto nelle isole. La nozione di accentuazione utilizzata dei musicisti jazz si avvicina a quella che si è appena descritta succintamente. È certo che, suonando, i musicisti non contano i tempi, ma si riferiscono inconsciamente a dei motivi ritmici sovrapposti al tempo di base, che forniscono un’ossatura al loro fraseggio melodico; per esempio, sul tipo di accentuazione fondamentale del jazz posta sul secondo e sul quarto tempo (after beats) della misura a quattro tempi, si sovrappone una figura analoga alla clave vista in precedenza, motivo utilizzato molto di frequente nel corso dell’intera storia del jazz. La pratica dello swing consiste quindi nella memorizzazione e nella collocazione corrette (trasmissione orale) di formule idiomatiche che funzionano bene con l’after beat, che è una sorta di clave del jazz. D’altra parte, la vocalizzazione ritmica è molto frequente: viene chiamata scat e consiste nell’improvvisare servendosi delle onomatopee (cfr. fig. 3).
Uno dei primi musicisti di New Orleans ad avvalersi dell’atteggiamento ritmico proveniente dai Caraibi è JeIly RoIl Morton. Egli lo chiama spanish tinge («tocco spagnolo»), e compone un certo numero conseguente di pezzi di questo filone: New Orleans Joys, Mamanita, Tía Juanita, eccetera. Egli introduce anche un tipo di accentuazione paragonabile a quella delle musiche caraibiche in composizioni del genere ragtime (cfr. fig. 4).
Non è possibile sostenere che questo tipo di ritmica sia alla base della creazione del jazz, cosa non verificabile. Comunque, è interessante riprendere la nozione, espressa da Jelly RoIl Morton, di una coloritura latina della musica suonata all’epoca. È un tipo di rimbalzare ritmico rintracciabile praticamente in tutte le musiche popolari tipiche di New Orleans fino ai nostri giorni: musica di parata (Carnevale del Martedì Grasso), blues (Professor Longhair, Doctor John), funk (The Meters e i NeviIle Brothers). I jazzisti nativi di New Orleans (la famiglia Marsalis, Nicholas Payton) sono impregnati, ancora adesso, delle ritmiche chiamate Second Line diffuse principalmente dalle brass bands tradizionali [Riley e Vidacovitch 1995].
Gli elementi che sembrano avvicinare il jazz alle musiche dei Caraibi sono: 1) l’impiego di cellule ritmiche idiomatiche che forniscono uno “scheletro” ritmico al discorso; 2) la vocalizzazione degli accenti.
1.2 Il ragtime
Si può affermare che la forma ragtime è servita da fondamento alla nascita del jazz. Tuttavia a chi chiedesse se lo stile ragtime appartenga al jazz, si dovrebbe dare una risposta negativa. Ciò che in esso manca è l’elemento essenziale del jazz, lo swing. Però, con le sue strutture, le sue melodie sincopate, il suo impiego dell’ armonia nell’elaborazione melodica, esso preparò il terreno favorevole allo sbocciare del jazz: si potrebbe parlare di preistoria del jazz. Il ragtime consiste nella reinterpretazione, nel XIX secolo, da parte dei neri americani, di una musica per danza d’origine europea, la quadriglia. La struttura consiste in una successione di sezioni chiamate strains (generalmente della durata di sedici misure), inquadrate da un’introduzione e un interludio (prima della sezione detta trio). Musica per piano, prima di tutto, la mano sinistra, alternando bassi e accordi, produce un battito regolare in una misura a due tempi (2/4). La mano destra espone i diversi temi in maniera sincopata, ma non accentata (cfr. fig. 5).
Si potrebbe descrivere il fraseggio della mano destra da tre punti di vista che sono strettamente intrecciati fra loro:
1. il décalage ritmico creato dalla accentuazione naturale delle ottave, che dà una segmentazione 2.3.3.3.3.2 prendendo la semicroma come unità;
2. l’uso delle note complementari dell’arpeggio come riempimento ritmico (sol, si bemolle);
3. la linea melodica mib-re-reb-do-sib che, con l’effetto sincopato, s’oppone al ritmo e all’armonia sottostanti (passaggio del re naturale sull’accordo di dominante di mi bemolle).
Il principio dell’impiego degli arpeggi a fini melodico-ritmici è dunque già presente nel ragtime e, per la verità, è proprio questo trattamento dell’armonia il punto di partenza di quella tecnica d’improvvisazione armonica dei jazzisti che privilegia un susseguirsi di tensioni e di distensioni armoniche e ritmiche.
Lo stesso Jelly Roll Morton ci fornisce una testimonianza eloquente della differenza fra ragtime e jazz in occasione delle registrazioni effettuate dall’etnomusicologo Alan Lomax, nel 1938. Egli suona una prima volta Maple Leaf Rag alla maniera di Scott Joplin (a parere degli specialisti forse un po’ troppo rapidamente), quindi in una versione jazz, vale a dire con una maggiore varietà di accentuazione, e un bilanciamento più pronunciato: le crome vengono suonate ternarie (a terzine) in una misura a quattro tempi (4/4) (cfr. fig. 6).
1.3 Il blues
Definire il blues è altrettanto delicato del fornire una definizione del jazz. I principali criteri distintivi di questa musica afroamericana sono:
1. una musica vocale i cui testi devono esprimere insieme disperazione e sollievo nell’esprimere questa pena;
2. l’impiego esclusivo di un modo che corrisponde a una gamma maggiore con tre gradi mobili (3 ° grado minore/maggiore, 7° grado minore/maggiore e talvolta 5ª giusta/diminuita;
3. l’aggiunta, fondamentale, d’effetti a fini espressivi (glissando, vibrato, rumore, abbellimento);
4. un battito regolare il più delle volte ternario;
È possibile paragonare queste caratteristiche a quelle delle musiche puramente modali nelle quali l’abbellimento melodico e ritmico rivestono un ruolo preponderante: questa maniera di cantat:e conse,rva un legame molto forte con l’ espressione vocale in certi paesi africani. E il testo a guidare il progredire della frase musicale, spesso a detrimento di una sottoli...