Fossa Clodia
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Opera che promette di raccontare fin dalle righe di apertura "quaranta brevi storie di terra e di acqua", Fossa Clodia è una suite articolata secondo i tempi della marea che periodicamente assedia e abbandona Chioggia, la vera protagonista di queste pagine. E proprio come la marea, nella quale alla fase di crescita delle acque segue il deflusso che porta verso il mare, qui la lingua sale attraverso gli interstizi dei luoghi su fino ai tetti della città per poi trasformarsi, ridiscendendo verso il basso (riavvicinandosi cioè verso la sua origine tellurica), da italiana a chioggiotta e poi di nuovo, riaffluendo, italiana, in un'alternanza di tempi cadenzata dalle diverse scansioni del dove e del quando. Il libro, che si apre sull'invocazione alla Musa delle Bilance in un ideale mattino aurorale dove l'immagine stessa della città sta ancora lentamente riaggregandosi dallo sfaldamento delle acque che l'hanno percorsa, lascia che siano anche i luoghi stessi a parlare, a riprendersi lo spazio che gli umani hanno incatramato con le sedimentazioni del loro quotidiano agire. E mentre piano piano emerge dal profondo per farsi figura sempre più chiara e distinta, Chioggia (anzi, Fossa Clodia, che è nome primordiale della città e allo stesso tempo dito puntato alla concrezione e all'avvilimento dai quali urge il riscatto) viene percorsa in lungo e in largo fino alle sue isole più prossime non solo nei territori, ma anche e soprattutto nelle parole, se è vero che la lingua è mondo e questo può essere abitato. La scrittura di Renzo Cremona arriva al lettore in una forma di confine che sfugge alle classificazioni a noi note per avvicinarsi al tessuto di un'elegante e raffinata prosa poetica contraddistinta da un'incantata sospensione metafisica in grado di trasfigurare, grazie alla luce della parola, luoghi e situazioni che vibrano così di una nostalgia sottile e quasi antica.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788894166200
Argomento
Letteratura
FOSSA CLODIA
QUARANTA BREVI STORIE
DI TERRA E DI ACQUA
VEGGENZE MARINE E DI BILANCE
raccontami, musa, dei giorni lunghi a cingerci di attese vicino agli sguardi, dei giorni infiniti a fare prue delle nostre fronti, di quelli brevi attorno alle rive della nostra futile storia e alla leggenda di come finimmo per crederci; di quelli brevissimi, anche, a trovare vera la mano che sognammo.
raccontami delle sere scomode a stare seduti su speranze impagliate e delle notti smisurate a desiderare di essere scalmi; narrami dei pomeriggi e della loro accidiosa e umida perseveranza, dei mattini salsi aperti al vento, di come nascemmo alga in un liquido mondo di visioni.
raccontami di città di risacche e di schiume, dei corpi inerti del tempo che da sempre le correnti si trascinano dietro, di mari splendenti e barche affilate, del muro che, per non affogare, imparò a diventare esso stesso acqua e prossimità di fortunale.
narrami dei pezzi di memoria, o musa, che il fondo portò via con sé, della distanza dagli scogli del forte a cui mi fu permesso parlare, e di come mi risposero assenti, quasi sull'orlo precario del mondo, le bilance del giorno ultimo.
dimmi ancora, musa, di tutte le braccia rivolte a sud a cogliere gli ultimi brandelli di sole prima del silenzio di brina; raccontami delle sottili immagini di legno di cui non sapemmo parlare e di come un mezzogiorno ci stendemmo al sole, uno dopo l'altro, in fila di ocre cangianti e dorate; come ci stendemmo tra le rocce cosparse di salso fino al termine della sofferenza, e come quella si fece della medesima stoffa degli anni.
raccontami anche del tempo, il quale era corrugato eppure intento a non far grinze per paura di tradirsi, ed estremo come la polvere luminosa che si sollevava antica e riarsa da immagini di orme scarlatte.
narrami ancora di quando ci passai accanto e di quando mi accadde di sognare come sarebbe stata là sopra la vita quaggiù, come sarebbe stato guardare dove guardano le reti, come sarebbe sentire giorno e notte tra i piedi l'acqua mormorare peripli in alto mare e salsedine attorno ai pali.
e narrami, infine, di quale destino strano sarebbe rimanere con le nasse abbarbicate ai temporali e quale sapore avrebbe vivere qui dall'alto delle cortecce, ai lembi sfilacciati della terra e dell'acqua, a sognare isole lontane eppure così vicine, ad attendere marosi remoti tra le linee fiammanti di una fine d'estate, a contemplare il senso e la nostalgia delle orbite perfette, a scrutare i periodi di rivoluzione ellittici, ad osservare universali e perenni le leggi della gravitazione di tutti i corpi terrestri e marini, divisibili e indivisibili, donati e poi sottratti, delle reti gettate e poi impigliate, di pesci sfuggiti alle maglie, dei giorni caduti in trappola, di ogni desiderio dimenticato e poi riemerso, e delle onde impervie e paurose delle maree a ricoprire gli istanti, a ritirarsi caute dal mondo e poi a risommergerlo, a renderlo acqua, e a ridonargli infine forma e consistenza stanziale pur se nel solo attimo di un sussulto, pur se per un po', pur se nella lingua dell'abbandono impreciso ma irrevocabile di un vocabolario prossimo all'estinzione.
ACQUA ALTA
il mare comincia, continua, rientra, riaffiora. affluisce, termina, inizia, finisce, viene internato e poi liberato, è un campo di fuga dal cui vincolo è impensabile sciogliersi. si spalanca come una porta tutta questa acqua distesa, è un terreno su cui si è attendata una battaglia silenziosa, lo scontro che la città, sfiancata dai duelli, ha ormai fatto diventare tregua.
vengono, alle volte, momenti di nostalgia salmastra e le calli, i vicoli, i ponti, gli scuri accostati per il timore di essere capiti, non riuscendo più a sopportare la secchezza della separazione cedono al richiamo del fondo. e l'acqua riprende a salire.
salgono, i minuti, lambendo cheti il margine del mondo degli uomini. salgono, permettendo alla città di specchiarsi sulla propria assenza e distogliere lo sguardo da sé.
e questo mare, di nuovo, fluida circonferenza che non conosce stagioni, si fa cinema muto dal quale è impossibile imparare a parlare, pellicola grigia da cui è un'illusione apprendere la parola.
è inestricabile il modo che hanno le alghe di osservare l'ora, è a mareggiate che si misura il tempo.
suona nelle vicinanze una campana, ma il rintocco è opaco come vetro incrinato, si adagia sulla lunga spina del pesce e indugia, esita a cadere, è colmo del cotone che ha raccolto la nebbia.
i gomitoli si addormentano, tra le tegole. solo i comignoli delle fornaci sono ancora visibili, e un forte disabitato, in lontananza, in mezzo ai relitti della cenere: subito dietro c'è l'isola delle foreste volte a ponente, con i loro alberi e i loro bunker radi e solitari, che da qualche parte devono essere esistite con la città sotto il mistero di acque diroccate.
BARENE
provi e non ce la fai. è ad insenature molli e friabili che ti fai strada fra i giorni, seguendo le scansioni di una fatica cedevole e rarefatta. nel tuo paesaggio solo arenili grigi e nudi si offrono agli occhi spogli di ogni giustificazione, stanchi di essere all'erta e di avere paura. sono terminati i tempi degli attimi frastagliati, andati i ciuffi d'erba, persi in monosillabi desiderosi di lambire la tenerezza.
le secche e le rientranze di cui è fatto il tuo essere ti impediscono la navigazione in mare aperto e perciò ti sei fatto disegno di terra, ritorno alle molecole, andirivieni sommerso dalla frequenza delle acque e dai tempi.
nemmeno il mare ti riconosce più, ti ha allontanato in fanghi intransitabili al piede. la tua mano si solleva dai bassifondi di silenzio in cui deve svolgersi per potere raccontare la propria storia.
si allungano gli spazi navigabili dal bordo delle finestre, il lamento del mondo che ti offende e ti costringe a vivere nell'assedio di mesti confini da lungolago e acque basse. e tu sei costretto, a dispetto di te stesso, a farti alofilo, a mangiare il sale come fosse pane; inerte, ad accogliere il movimento nelle mappe delle tue linee; schivo e crepitante di timori, ad ospitare le forme più strane di arrivi, a prendere posto tra i provvisori. per sopravvivere ti devi abbandonare allo sprofondamento periodico del nonsenso, al gioco ridicolo e umiliante di un allagamento che ti minaccia fingendosi altro da sé.
l'affioramento sghembo ma docile della tua presenza non può fare altro che ritrarsi dal chiasso estenuante, dagli ingorghi delle velme che minacciano ad ogni momento non il tuo diritto ad esistere, ma l'esserti trovato lì tuo malgrado. non l'hai chiesto tu di spuntare, ma è stato il tuo amore dell'orizzonte a chiederti di apparire pronunciandoti e ripronunciandoti suono di opaca incertezza.
è tempo perciò di richiudersi nel contorno ispido e basso dei cespugli, fare come i ciuffi d'erba: salire su nonostante tutto, ascendere, sollevarsi dagli sgocciolii dell'inesistenza, montare, issarsi come una vela, emergere dal sonno salmastro; è necessario inerpicarsi, farsi bussola di sé stessi sopra le sirti, rendersi impermeabili alle erosioni che le abitudini provocano infiltrandosi negli acquitrini dell'assenza, e ricongiungendoti alle fibre ubbidienti del tuo essere cercare il cordone che ti univa alla vita che non hai avuto.
FOSSA CLODIA
la città terminava, indecisa, come una punta ottusa ad ogni angolo. non si capiva dove il tempo affluisse alla vista, perché giungeva complesso e ripiegato, a strati, fino a diventare spesso e colloso. vi si nuotava a fatica dentro, si spingeva sulle rive in forma di acqua come un sonno silenzioso, come carta di giornale scritta con inchiostri vecchi e illeggibili.
era difficile accorgersi di dove finisse la terraferma e dove cominciasse la laguna, in quale punto il margine di sabbia iniziasse a balbettare e poi si disfacesse in gorgoglii e detriti, per farsi infine forma di un'indicibile assenza.
avvolti nel naufragio delle settimane, accartocciati sulla soglia dell'umidità stavano gli sguardi dei barcaioli assorti: contemplavano increduli la costruzione della nuova babele che veniva eretta tra l'isola e il mare, tra la spina del pesce e il continente.
le navi erano lontane e i mezzogiorni al sole si erano infittiti come erba alta. oltre la città e i cortili, si allargavano steppe di pomeriggi imponderabili nei quali la memoria dei remi era lasciata ad avvizzire nelle camere per gli ospiti. si vedevano sempre più di rado visitatori, e questi preferivano sostare sempre più a lungo sui bordi di cartoline e di vecchie stampe, guardare dall'imbarcadero la città prendere il largo e affondare.
come in una fine d'estate precoce, le calli si ritrovarono un giorno di colpo invecchiate. ruggini collaterali rimanevano a guardarci dal fondo del tempo, mentre salivano e scendevano le barche lungo i muri, e i riflessi dell'acqua erano complici e conniventi delle pareti. si sarebbe quasi detto che tutto questo non fosse opera della marea, ma che fossero le case stesse a sprofondare e a riemergere, rialzandosi di tanto in tanto caute dalle ondate di suoni e di scafi travolte dal salso.
DAL SOMEGÈRO. L'INSEMENIA
a fòrsa de pèrdarse int'i barambàgoli de la zènte no xé da farse maravege che la sia 'ndà a fenire a lio. i sbigolamènti lissosi zó per i gàtoli e i remenamènti per le cali via i gh'à fato puina de la tèsta, na dòna che magnèva pan e memòria. tanto granda xé adèsso la bonassa che ghe s'à fato in tela ciribiricòcola che no la vièn pì a trovare nissuni, nì batèi nì nevodi, nì morosi nì paroni. solo dosana e seche. gnènte. l'aqua de i canai no ghe respèce pì gnènte. l'impagiaura de le carèghe la s'à fruà, no ghe xé pì àsio da sentarse. per ela no ghe xé gèri, no ghe xé ancuo, e el doman no la sa gnanca còssa ch'a vògia dire. tuta aqua remeschissa.
xé tuto pèrso: i rabiosessi del móndo, i fufigni, le paròle imbrodaisse, i fifessi de la zènte e i ràcoli che te fa sbrissare e fenire cùcine-cùcine int'i cogói. la xé straca ela, còssa crédistu, la xé straca de quistionare co na ora o co st'altra da la metina finamènte a sera, a cariolare missiòti e ligagi tuto el santo dì; e a barca fundà, cossì i dise, no ghe vuòle pì sèssola. el servèlo scalsinao che ghe se desfarine un dì dòpo st'altro: a son de passare, el tèmpo a ghe s'à fato un beròcolo de tuto pièn de premure e pensièri, mondo de pensièri, e i pensièri i xé deventai tuti tataressi.
védistu a còssa che sèrve fare musina de i dì che te vièn incontro? rancura ti, e varda còssa che te rèste: na pìgrafa da métare in soasa. bià sticolarse tuto, còme el companàdego; ma i dì, no starte a crédare, no i xé còme i schèi: co i xé 'ndai, no i torne pì indrio.
e cossì xé stà che la xé restà ógnola, scompagnà da i liòghi e da la zènte. nissun capisse pì indove che la sia fenia, còme chei fantolini insemenii ch'i stà tuto el dì sentai int'i scagni a contarse le onge e a magnare vènto. e se ti me scolti mi, sbrindolona còme che la xé sèmpre stà, la s'à da avere fermà zó de na calesèla che l'avèva inte la tèsta: ciapa fredo ancuo, ciapa fredo doman, la s'à da avere impiolio indrento de le so stesse sfesse. o se càpite la s'avarà fermà a ciacolare mèntre che i pescaori tirèva fuòra le arte mufae, inverigolà inte la ravata de i ré, in mèso a na tardigansa che gnanca ela la se savèva spi...

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