I due popoli
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I due popoli

Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

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I due popoli

Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna» contro il dualismo scolastico

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La scuola media italiana è stata – sin dall’avvìo – un oggetto ‘doppio’ della ricerca educativa: da un lato “ventre molle” – sociale, professionale, didattico – del nostro sistema scolastico, dall’altro dichiarata come l’unica, vera riforma scolastica della nostra Repubblica, dove il ‘vera’ sta ad indicare – pur con qualche riserva – un giudizio ampiamente positivo, con rare voci discordi. Un’ambivalenza che giustifica l’interesse per un’indagine mirata a comprendere le ragioni di questo doppio. Che fin dal dibattito fu motivo di divisione fra chi sosteneva la tesi risultata vincente con la L. 1859/1962, che affidava la scuola media ai professori, e quanti preferivano la postelementare assegnata ai maestri: una disputa che vide in prima linea Vittorino Chizzolini e «Scuola Italiana Moderna». Il libro ricostruisce lo sfondo storico di quella disputa, documenta la dialettica interna all’editrice La Scuola e ne identifica le matrici teoriche e le ispirazioni sociali e religiose. Si mettono in luce così le priorità che indussero i protagonisti dell’evento a strategie d’intervento opposte e le ragioni di un insuccesso che fa della nostra scuola un sistema tuttora incompiuto. Elio Damiano, già ordinario di Didattica generale all’università di Parma.
Battista Orizio, già incaricato di Pedagogia comparativa presso le università di Verona e di Trieste.
Evelina Scaglia, ricercatrice a tempo determinato di tipo B in Storia della Pedagogia all'università di Bergamo.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788838248252

1. Alcune considerazioni di fondo

La scelta di dedicare spazio alla ricostruzione delle principali vicende che hanno interessato la storia dell’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni nel primo secolo di vita dell’Italia unita nasce dall’interesse di tracciare i tratti principali della cornice, all’interno della quale ha trovato collocazione a partire dagli anni Trenta del Novecento l’opera educativa ed assistenziale promossa da Vittorino Chizzolini a favore dell’istruzione del popolo, lungo la scia tracciata fin dai primi decenni postunitari dal campione del cattolicesimo bresciano Giuseppe Tovini [1] (cfr. Battista Orizio, pp. 119-223).
In tale direzione, risulta di particolare importanza riflettere su come il problema dell’istruzione preadolescenziale venga affrontato dal R.D. Lgs. 3725 del 13 novembre 1859, meglio noto come “legge Casati”, approvato dal governo sabaudo in regime di pieni poteri e poi esteso con l’Unità d’Italia all’intera Penisola. Ispirato al modello prussiano [2] , il sistema scolastico della Casati si caratterizzava per la suddivisione in tre ordini di studi (elementare, secondario, superiore), in rapporto gerarchico fra loro, data la natura elitaria e selettiva dell’istruzione secondaria e, ancor più, di quella superiore. In particolare, gli studi successivi al biennio superiore di scuola elementare vedevano una biforcazione dei percorsi di istruzione in due principali canali, quello della filiera ginnasio-liceo classico “riservato” alla formazione culturale delle future classi dirigenti e quello della filiera scuola tecnica-istituto tecnico pensato per la preparazione speciale delle classi subalterne agli impieghi minori. Del tutto assente risultava un terzo potenziale canale, rappresentato dalle scuole di formazione tecnico-professionale promosse da varie realtà locali (enti religiosi, associazioni professionali, società private, ecc.), che da decenni nelle zone centro-settentrionali operavano a favore di un’utenza eterogenea dai 10 anni d’età in avanti. Nonostante il patrimonio di sapere pratico di cui erano portatrici, furono escluse dal sistema scolastico nazionale in quanto considerate “non scuole”, per la loro funzione “utilitaristica” di formazione a mestieri artigianali o, più recentemente, industriali.
La legge Casati aveva il proprio fulcro culturale nel ginnasio-liceo classico, l’unica scuola designata con il termine “secondaria” in quanto destinata a preparare la futura élite nazionale con gli studi di cultura classica (latino e greco, letteratura italiana, filosofia). Eppure la situazione socio-economica del neonato Regno d’Italia era tale da renderlo un paese “in bilico” tra arretratezza e sviluppo, con forti disequilibri fra Nord e Sud e tassi di analfabetismo elevati.
L’istruzione elementare, concepita quale principale strumento per «fare gli Italiani» – secondo una nota espressione di Massimo d’Azeglio, poi ripresa da Francesco De Sanctis – non riuscì a fungere da trampolino di lancio, poiché essendo a completo carico dei comuni che ne avevano la giurisdizione assoluta e su cui gravavano tutte le spese, fu particolarmente carente nei territori che più ne necessitavano, per la mancanza di adeguate risorse economiche in circa il 70% dei municipi italiani. Fra l’altro, solo il biennio inferiore doveva essere istituito per legge da tutti i comuni, per ottemperare all’obbligo di istruzione previsto fino all’età di 8 anni, mentre il biennio superiore era da istituirsi solamente nei comuni con un numero di abitanti superiore ai 4.000 o con scuole secondarie proprie. Eppure, in diverse zone del Sud e delle Isole a fronte di questa carenza strutturale dell’istruzione elementare non mancavano i ginnasi, molti dei quali “isolati”, cioè senza la contestuale presenza del liceo classico in cui poter proseguire gli studi, a riprova di quanto il prestigio culturale e il lustro di cui erano portatori avessero spinto diverse personalità o entità locali ad impiegare risorse economiche nella loro apertura.
Un sistema scolastico che si premurava, principalmente, dell’istruzione avanzata delle élite non avrebbe potuto garantire le basi di un progresso economico generalizzato, perché quest’ultimo avrebbe avuto bisogno del ruolo propulsivo dell’istruzione popolare, come era accaduto in alcune zone dell’Italia settentrionale nei primi decenni dell’Ottocento, quando la nascente industrializzazione trovò un valido alleato nella prima alfabetizzazione offerta dalle scuole elementari festive parrocchiali e nella formazione speciale data dalle scuole tecnico-professionali. Solo in un secondo momento, in sede di consolidamento ed ampliamento dello sviluppo economico, l’istruzione di livello secondario e superiore si sarebbe rivelata decisiva [3] .
La scarsa rispondenza della legge Casati all’esigenza di istruire il popolo, facendo leva prevalentemente su una strategia di «popolarizzazione» della cultura elitaria alle masse, fu strettamente legata anche alla sua tendenza di tipo «accentratore» nell’esercizio del principio dell’istruzione pubblica [4] . Questa scelta, a fronte dell’eterogeneità di sistemi politici, economici, scolastici e di costumi degli Stati preunitari, anziché favorire l’assorbimento delle disparità, le accentuò. Le resistenze scaturite a livello locale nei confronti di un intervento tacciato di «piemontesizzazione», aggravato dalle «diversità di regime e di sentire politico fra le varie parti d’Italia», contribuirono a depotenziare sul nascere qualsiasi eventuale impulso di rinnovamento [5] . I liberali al potere erano convinti del fatto che solo una scuola, concepita come apparato investito di una «funzione pubblica e civile» [6] , avrebbe potuto giustificare un intervento diretto dello Stato nella promozione di un ambito, quello dell’istruzione, che fino a quel momento era stato nei vari territori per lo più monopolio del clero, delle congregazioni religiose e di enti locali [7] . La scuola pubblica, al pari dell’esercito, era concepita come istituzione deputata in primis a realizzare il processo di «italianizzazione» del Paese, cioè di costruzione di quell’unità linguistica, culturale e valoriale di cui era ancora sprovvisto [8] .
Da qui alla trasformazione della scuola in un dispositivo di «riproduzione» delle disuguaglianze sociali il passo fu breve [9] , come dimostrato anche dall’oscillazione fra il primato del principio di selezione e il primato del principio di socializzazione nell’esercizio della funzione scolastica, particolarmente evidente nell’ambito dell’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni, che vedeva incontrastata la priorità accordata alla scuola di cultura classica [10] . Nulla di più lontano da quello spirito di elevazione a nuova dignità civile delle «umili fatiche dell’officina» e di liberazione degli operai dalla condizione di «semoventi ordini d’un’arte non intesa» [11] , che aveva animato istanze presenti nel dibattito risorgimentale grazie a uomini come Carlo Cattaneo, tra i maggiori sostenitori del trinomio scienza-tecnica-sviluppo economico. Lontane dal realizzarsi parevano anche le raccomandazioni, più volte espresse in sede parlamentare da uno dei “padri fondatori” dell’Italia unita, Camillo Benso conte di Cavour, a favore dell’urgenza di promuovere l’istruzione popolare e professionale in vista della costruzione di un sistema educativo nazionale in accordo, e non in disaccordo, con le esigenze della società nazionale.
La legge Casati mostrò in questo modo un suo nervo scoperto, identificabile nel mancato superamento della contrapposizione fra cultura liberale e scientifica da un lato ed attività manuale e sapere strumentale dall’altro. Dietro ad esso si celava una duplice tendenza, che risultò particolarmente esacerbata nei percorsi di studio successivi alla scuola elementare: quella di continuare a pensare la scuola come dispositivo di selezione, e non di promozione, e quella di concepire l’aggettivo “pubblico” come sinonimo di “statale”. Si spiega così come mai, nonostante la precedente legge Boncompagni (1848) prevedesse un canale di scuole speciali (= professionali) accanto alle scuole secondarie, la legge Casati considerò la neonata scuola tecnica come parte integrante dell’ordine elementare, in quanto culturalmente inferiore, nonostante fosse stata investita del compito di «dare ai giovani che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci ed alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale» [12] . Sempre nell’ambito di tale operazione, si giunse a porre ai sensi dell’art. 308 la pre-esistente costellazione di scuole pratiche e di perfezionamento (in campo commerciale, industriale, agricolo, nautico, ecc.) sotto il diretto controllo del Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, in quanto considerate come istituzioni di serie C, non degne di essere riconosciute nel loro ruolo formativo, ma solamente utilitario, empirico e di applicazione di un sapere tecnico-pratico. Eppure, come illustrato da Mario Alighiero Manacorda, molte di queste scuole furono espressione delle Società di mutuo soccorso che si richiamavano alla libertà tutelata dallo Statuto Albertino del 1848 [13] . Per non parlare delle scuole sorte per volontà di ordini religiosi, come i Lasalliani e i neonati Salesiani, tutte considerate scuole degli “ignorantelli” in mano al clero, da escludere da qualsiasi forma di riconoscimento da parte del sistema scolastico pubblico.
In queste scelte, secondo Giuseppe Castelli, la classe dirigente italiana mancò di una «visione dei bisogni, delle tendenze, delle attitudini reali del paese», tale da comportare la diffusione nell’opinione pubblica del pregiudizio che le «scuole del lavoro e dei negozi» fossero soltanto «semplici conservatorii caritatevoli di assistenza per i fanciulli meno privilegiati dalla fortuna», lasciati alla «buona volontà dei privati, delle opere pie, delle amministrazioni locali», ma non degni di un intervento statale [14] .
Lo stesso discorso va, infine, esteso anche all’apprendistato, che pure rappresentava un’esperienza comune a numerosi bambini e ragazzi provenienti dalle classi più umili, spesso costretti ad evadere l’obbligo di istruzione per un precoce avvio al mondo del lavoro. Promosso all’interno di realtà tradizionali (botteghe artigianali, banchi mercantili) o industriali (opifici, filande, ecc.) attraverso forme di apprendimento del mestiere per imitazione on the job, o di addestramento al lavoro all’interno di opere pie, orfanotrofi e case di correzione, interessò nei primi anni postunitari circa 13.329 allievi. Nei decenni successivi, i Salesiani, i Giuseppini, i Pavoniani, gli Artigianelli, i Fratelli delle Scuole Cristiane si contraddistinsero, nell’incrementare tali esperienze, per l’offerta sistematica di strumenti e conoscenze adeguate per far fronte alle esigenze del nuovo contesto industriale capitalista, a partire da quelle sensibilità culturali che sarebbero confluite nel 1891 nell’enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII, in risposta alla diffusione fra le masse operaie delle ideologie laiche e materialiste di ispirazione socialista [15] .
Dietro la condizione di «indeterminatezza» e «silenzio» in cui queste occasioni...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I due popoli
  3. INDICE
  4. Introduzione di Elio Damiano
  5. I. L’istruzione per la fascia d’età 10-14 anni e il dualismo “invincibile”. Storia di un rapporto “controverso” dalla legge Casati alla legge 1859/62, di Evelina Scaglia
  6. 1. Alcune considerazioni di fondo
  7. 2. Continuità e discontinuità nei primi decenni postunitari fra Destra e Sinistra storica
  8. 3. L’avanzata di nuove istanze a inizio Novecento e la nascita del corso popolare
  9. 4. La conferma del dualismo dai lavori della Commissione Reale agli interventi del ministro Credaro
  10. 5. Il dibattito sull’istruzione 10/14 anni fra guerra e dopoguerra
  11. 6. La riforma Gentile fra “selezione dei migliori” e “scuole di scarico”
  12. 7. La permanenza del dualismo nel processo di fascistizzazione della scuola
  13. 8. Il dualismo nella scuola bottaiana
  14. 9. Ricostruire la scuola per far ripartire un Paese
  15. 10. Cultura della riforma ed educazione popolare agli inizi del ministero Gonella
  16. 11. La persistenza del dualismo nel dibattito sull’istruzione 11/14 anni nella fase consultiva della Commissione Gonella
  17. 12. Le difficoltà incontrate nella fase costruttivo-sistematica della Commissione Gonella
  18. 13. Il dualismo negli anni dello scontro fra AIMC e UCIIM e il fallimento della Commissione Rossi
  19. 14. L’accelerazione del dibattito sull’istruzione 11/14 anni all’avvìo del boom economico
  20. 15. L’approvazione della “scuola media unica” tra vecchie formule e nuove speranze
  21. 16. Un dualismo “carsico”
  22. II. Sotto lo stesso tetto. La scuola per gli 11/14 anni tra «Scuola Italiana Moderna» e «Scuola e Didattica», di Battista Orizio
  23. 1. L’Editrice La Scuola alla prova della ripresa postbellica
  24. 2. Riviste per la scuola media. Progetti e attuazione: «Schola Iuventutis », «Adolescenza», «Scuola e vita»
  25. 3. L’impegno di «Scuola Italiana Moderna» a sostegno della Post-elementare nel decennio 1945-1955
  26. 4. Una decisione audace
  27. 5. Settembre 1955: nasce «Scuola e Didattica»
  28. 6. SIM a sostegno della Post-elementare
  29. 7. Un argomento mancato: la Hauptschule tedesca
  30. 8. Problemi di ordinamento e di didattica della scuola media
  31. 9. Questioni di fatto e questioni di diritto
  32. 10. Antiche trincee e urgenze scolastiche
  33. 11. Quattro sezioni = quattro scuole. Contento Agosti ma non Agazzi
  34. 12. La distinzione della laurea
  35. 13. Anticipazioni
  36. 14. Mostri scolastici
  37. 15. Via libera a “sperimentazioni” di stato
  38. 16. La speranza resiste
  39. 17. «Scuola e Didattica» premia le circolari estive (1961) del ministro
  40. 18. «Panorama da vigilia»
  41. 19. Prima la politica, poi verrà la pedagogia
  42. 20. Sul fronte opposto
  43. 21. Dalla contrapposizione alla collaborazione
  44. 22. Epilogo. Il misterioso silenzio di «Scuola e Didattica»
  45. 23. Profili di sintesi
  46. III. Per la scuola unica. Pedagogia della scuola e riformismo scolastico nel secondo dopoguerra, di Elio Damiano
  47. 1. Sergej Hessen e la pedagogia della scuola in Italia (1945-1962)
  48. 1.1. Un libro di successo
  49. 1.2. Nel contesto pedagogico del dopoguerra
  50. 1.3. Una presenza incisiva
  51. 1.4. Per una pedagogia della scuola
  52. 1.5. La ”scuola unica” secondo Hessen
  53. 1.6. La scuola media secondo Aldo Agazzi
  54. 2. La scuola media italiana
  55. 2.1. Legge 31 dicembre 1962 n. 1859
  56. 2.2. Orari e programmi d’insegnamento della scuola media statale
  57. 2.3. Il “popolino” a scuola: due “lettere” ed una ricerca
  58. 2.4. La stagione dei ‘ritocchi’
  59. 2.5. La scuola media come caso internazionale
  60. 2.6. Una riforma ‘politica’ che non è riuscita a diventare ‘pedagogica’
  61. 3. L’opzione della scuola Post-elementare
  62. 3.1. La Post-elementare come modello scolastico
  63. 3.2. Le fonti psicologiche
  64. 3.3. A chi tocca
  65. 3.4. L’«altro popolo»
  66. 3.5. Ricostruzione e movimento comunitario
  67. 3.6. L’altro popolo abita ancora qui
  68. 3.7 Congetture sulla Postelementare
  69. 3.8. Abolire la scuola media?
  70. 3.9. Istituti comprensivi e curricoli in verticale
  71. Appendice. Scuole per i giovani lavoratori, di Vittorio Chizzolini
  72. Introduzione
  73. L’intervento di Chizzolini
  74. INDICE DEI NOMI