EXPO. La scommessa
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EXPO. La scommessa

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L'Italia si sta giocando la scommessa sul proprio futuro. Anni in cui il nostro Paese dovrà essere capace di risollevarsi dalla grave crisi che stiamo attraversando, mettere in vetrina quel know-how che è tipicamente italiano: il lusso, il bello, il buono; ovvero dovremo reinventarci l'Italia e il nostro futuro. Per farlo, il nostro Paese ha una grande opportunità: giocarsi bene l'Expo 2015. Fare di Expo un grande Evento. E fare dell'Evento una grande Comunicazione. Come farla al meglio, come strutturarla, come indirizzarla nell'evoluzione digitale e nella pubblicità, come organizzare il fuori· Expo, quale sarà la nuova funzione del turismo, quale sarà il biglietto da visita della nuova primavera dell'Italia è lo scopo di questo libro. Un tassello per parlare di comunicazione di Expo 2015 che, se non comunicato, rischia di essere un boomerang.
Max Castelli «Immagino un sistema di scatole: Expo è la prima, contenuta da quella di Milano e poi dalla provincia e poi una scatola più grande di altre città come Venezia, Torino, Roma e Napoli. Tante scatole e una rete unica che le collega. Una ricchezza per il sistema paese».
Massimo Costa «È l'ultima chance per l'Italia. La comunicazione c'entra, ma c'entra di più il futuro del nostro paese. L'Expo è il momento in cui possiamo presentarlo. Mancare questa occasione sarebbe da pazzi».
Roberto Arditti «L'Expo universale dovrà essere un evento popolare non per élite o addetti ai lavori. Un tasto su cui bisognerà giocare e che decreterà il successo dell'Expo sarà la voglia di venire in Italia con la scusa dell'Expo, per poi disegnarsi un percorso per stare nel nostro Paese qualche giorno».
Alberto Meomartini «Non bisogna considerare Expo come un'opportunità futura ma come un'occasione già presente, su cui cominciare fin da ora a concentrare le proprie energie».
Romano Prodi «L'Expo di Milano l'abbiamo vinta per dare un contributo alla soluzione del più grande problema dell'umanità, che è quello di garantire cibo e acqua per tutti».

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Informazioni

1.


L’ITALIA ALLA VIGILIA DELL’EXPO

Davanti a noi un paese a rotoli che però ha una speranza: l’Expo. Il punto di svolta del paese per ricominciare.

L’Italia è depressa. Lo si legge scorrendo le pagine dei giornali cartacei e on-line, italiani e stranieri: il nostro paese è descritto boccheggiante, un paese a rotoli che non ce la fa più. L’Italia avrebbe perso lo smalto di un tempo. Che altro non significa, per dirla in termini aziendali, che non fattura più.
Una fotografia poco edificante, proprio quando stiamo per dar vita alla manifestazione per eccellenza, l’Expo 2015. Un evento (l’Evento) che si porta in dote la grandiosità della manifestazione organizzata da Shanghai, che è stata sì una mostra, ma è stata prima di tutto veicolo di comunicazione.
Questo è l’Expo: un grande momento di comunicazione. Anzi è l’essenza stessa della comunicazione. È un fenomeno di comunicazione: dalla prima esposizione di Londra, che ha dato il via alla serie storica, a quella di Parigi del 1889 per cui hanno costruito anche la Tour Eiffel, ancora oggi strumento di comunicazione della Francia. È lì per dire al mondo che Parigi è tecnologica. E lo fa da 150 anni!
L’Expo comunica paesi. L’Expo comunica Città. Comunica la consistenza, la forza, la diversità, la bellezza, la creatività di un paese, di una città, di un popolo. E comunica l’immagine del paese che la ospita: non l’immagine che vorremmo assegnare a quella nazione, ma esattamente la fotografia di quello che è. E questo succede perché l’Expo non è soltanto l’Expo, racchiusa cioè in quello spazio di chilometri quadri con tanto di padiglioni, eventi e tema da dire e raccontare.
L’Expo è il paese che la fa. È il popolo che la costruisce. È la città che la ospita. “Expo è, chi Expo fa” si potrebbe chiosare: ed ecco, allora, perché tutto diventa comunicazione. La manifestazione comunica lo stato del paese, come se si fosse di fronte ad una sorta di stati generali. Non sempre attuali, molto spesso aspirazionali. Così è stato per l’Expo di Siviglia del 1992, ‘L’età delle scoperte’: la città si è proposta al mondo facendosi portavoce dell’intero paese e ha detto al mondo che la Spagna era pronta per entrare tra le grandi potenze.
L’Expo è un grande fenomeno di comunicazione che racconta lo stato di un paese.
L’Expo è la carta d’identità di un paese: è un grande fenomeno di comunicazione che, però, a sua volta deve essere comunicato. L’Expo è anche volano economico, turistico, innovativo. In sostanza, un palcoscenico dove l’Italia si presenterà con le sue aziende, con il suo commercio, con la sua tecnologia, con la sua arte, con la sua cultura, con il suo cibo, con la sua gente e la sua organizzazione.
Questa in una sintesi di poche parole è l’Expo. Con la E maiuscola. Eppure quando mancano ancora quattro anni al via, fa paura pensare che dovremo presentarci al mondo in queste condizioni. Alla luce di tutto quello che è avvenuto dal 31 marzo 2008 ad oggi e considerando i problemi che ancora avremo di fronte in vista dell’1 maggio 2015 sembra improbabile, anzi impossibile, un successo e soprattutto un riposizionamento del paese Italia.
E se invece l’Expo sia la possibilità della svolta? L’opportunità per girare pagina e scrivere un nuovo copione per questo paese a rotoli? Che sia il momento giusto in cui l’Italia possa ritrovare la sua identità, scoprirne una nuova e presentarla al mondo? Che sia il momento in cui, ridisegnata la nostra base produttiva, possiamo offrirla e comunicarla al mondo?
È questa, per mille ragioni che racconteremo nel libro, la nostra prospettiva.
Non si tratta di essere inguaribili ottimisti, solo di osservare la realtà. E questa ci comunica che tanti segnali, oggi ancora deboli, portano a credere che il 2015 sia il time to market della svolta. E l’Expo l’acceleratore o, come dicono nel marketing, il booster di quella agognata svolta.
L’Expo: il booster dell’Italia che dal punto più basso della sua caduta non potrà far altro che risalire.
Una svolta che non arriverà perché c’è di mezzo l’Expo, ma perché l’Italia sta raggiungendo il punto più basso della sua caduta e da lì non potrà far altro che risalire. Il booster darà solo la spinta. Però dovrà essere al punto e al momento giusto perché il vecchio stellone del nostro Bel Paese sia in grado di riaccendersi e ricominciare a splendere. E lì l’Expo potrebbe insinuarsi come la vera chiave della svolta, comunicando che stiamo diventando un paese diverso, che stiamo scollinando il momento di appannaggio, che possiamo farcela.
Per dire come ce la faremo e, soprattutto, come lo comunicheremo al mondo, occorre però un breve excursus politico ed economico. Con una premessa sull’Expo cinese.

1.1 Shanghai, l’Expo del celodurismo

L’idea della nuova Italia (e poi del libro) ci è venuta a Shanghai. Vedendo e camminando attraverso i padiglioni dell’Expo di quel paese, abbiamo capito che l’Expo non era quello su cui stavamo discutendo o che nei vari kick-off milanesi ci prospettavano.
Innanzitutto Shanghai non era Shanghai. Era la Cina che si presentava al mondo. Con tutta la sua forza, il suo celodurismo, la sua grandiosità. I sette chilometri quadrati di Shanghai mettevano in mostra l’immagine di un paese che voleva far vedere che era in corsa per diventare il numero uno.
Tutto perfettamente organizzato. Tutti in coda. Milioni e milioni di cinesi. Tutti veri – e non comandati come qualcuno qui in occidente ci raccontava – e tutti ordinatissimi. Rinfrescati: file interminabili, tutte al fresco.
Con acqua ovunque. Che sgorgava anche dal basso, come la famosa scena di Marylin Monroe con la gonna bianca al vento. Con bagni pulitissimi dove, paradossalmente, si poteva anche mangiare. Con ristoranti dove sarebbe stato facile organizzare un pranzo di nozze. Con trasporti elettrici ovunque. Con un tema, “Better city. Better life”, che diventava irrilevante: nei padiglioni c’era, si percepiva, si leggeva come modalità discorsiva, ma era irrisorio, trascurabile. Perché quello di Shanghai era l’Expo della Cina, della pagoda rovesciata alta 12 piani.
C’è da scommettere che il briefing delle autorità cinesi sia stato: la pagoda dev’essere l’edificio più alto e imponente. Senza tanti discorsi ampollosi intorno: pura grandiosità per dire al mondo che la Cina è grande e lo sarà sempre di più. Un messaggio forte che si percepiva all’interno dall’area espositiva, ma anche fuori: la città era stata rifatta a nuovo, negozi bellissimi, metropolitana nuova che raggiungeva ogni angolo della città, sicurezza totale, gente accogliente, alberghi al top. Insomma tutto era sistemato al meglio. Anche Pechino e le altre città principali della Cina. Atterrare a Shanghai significava sì andare in quella città, ma il significato più profondo si traduceva in visitare tutto il resto del paese.

1.2 La corsa dell’Italia dal ’50 al ’90

La scalata della Cina è stata velocissima. Secondo il rapporto 2010 di Confindustria, Pechino è saldamente in testa alla classifica delle potenze industriali davanti a Stati Uniti, Giappone e Germania.
La Cina oggi è un grande paese. L’Italia oggi è un paese a rotoli. La domanda fondamentale resta capire perché è avvenuto questo, dato che noi eravamo la sesta potenza mondiale e loro la trentesima. La scalata della Cina è stata velocissima al punto che secondo il rapporto sugli scenari industriali per produzione manifatturiera, stilato nel giugno 2010 dal Centro Studi di Confindustria, Pechino è saldamente in testa alla classifica delle potenze industriali davanti a Stati Uniti, Giappone e Germania. E l’Italia resta quinta potenza industriale. La comunità internazionale appare preoccupata: un sondaggio GlobeScan/Pipa compiuto in 27 paesi e pubblicato a fine marzo 2011 dalla Bbc svela che il 50% dei cittadini residenti in paesi come Giappone, Corea del Sud, Germania e Italia vede con timore l’ascesa economica della Cina.
È una storia breve quindi, ma interessante. Una storia che è un misto tra imprenditoria, creatività e posizione geopolitica.
Facciamo un breve excursus sulla bella e drammatica storia che ci è accaduta.
Noi, Italia, siamo stati la Cina dell’Europa. Tanti anni fa, negli anni Cinquanta e Sessanta, subito dopo la guerra: aiutati dall’America (quello stesso paese dove i nostri immigrati erano andati dall’inizio del secolo) ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo messo all’opera la nostra intelligenza, il nostro lavoro, la nostra creatività.
Fu un boom economico per un intero ventennio. Dal ’50 al ’70: un’esplosione di intelligenze, di rischi, di lavoro innovativo, di cultura, di arte. Il marchigiano Enrico Mattei nell’azienda pubblica, il ‘cumenda’ Giovanni Borghi in quella privata, Giorgio Strehler e Paolo Grassi nel teatro, Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Antonio Segni, Luigi Einaudi, Palmiro Togliatti nella politica, Giovanni Agnelli nella grande industria. Solo per citarne alcuni, a caso e in ordine sparso. Uomini considerati – a ragione – dei giganti.
Giganti che hanno fatto l’Italia. Anzi ri-fatto l’Italia.
L’Italia del miracolo economico a cui automaticamente si aprivano tutte le strade.
Sostenuti dal piano politico-economico americano per la ricostruzione (il piano Marshall per la ripresa europea) e non per bontà post-bellum né tantomeno perché dopo vent’anni avevamo mandato a casa quella buon’anima di Mussolini. Solo perché geograficamente eravamo (e siamo ancora) in una posizione molto interessante, vitale per gli interessi statunitensi e delle grandi potenze mondiali e, soprattutto, pericolosissima. Eravamo l’unico paese con valori occidentali che lambiva i confini del comunismo: quello che tra il 20 e il 21 agosto 1968 invase con i tank il centro di Praga, quello del maresciallo Tito nella ex-Jugoslavia. Quello vero insomma. Che all’interno dei confini nazionali si traduceva in un partito comunista che deteneva mediamente il 30% dei consensi. Eravamo una specie di portaerei nel bel mezzo del Mar Mediterraneo. E per la nostra posizione strategica eravamo da difendere.
Questa era l’Italia di allora: l’Italia del miracolo economico a cui automaticamente si aprivano tutte le strade, quell’Italia che si inventava prodotti, che veniva accolta in tutti i consessi ed era interlocutore politico apprezzato, oltre che privilegiato economicamente.
L’Italia degli anni ’60 marcava una linea ascendente: era il confine con il male e l’alleato atlantico più vicino agli Usa. E questo significava soldi, attenzione politica e commerciale, capacità di rischiare e voglia di primeggiare...
In quegli anni l’epicentro politico era l’Atlantico tra “impero britannico”, una frazionatissima Europa e Stati Uniti che aspiravano all’egemonia mondiale raggiunta negli anni ’60, dopo il declino finale dell’impero britannico. L’Italia – in quel frangente – era da un lato il confine con il male, dall’altro l’alleato atlantico più vicino agli Usa. Questo significava soldi, attenzione politica e commerciale; e basta aggiungere un pizzico di imprenditorialità, costo del lavoro a zero, giganti in tutti i settori, capacità di rischio (era tutta gente che aveva fatto la guerra), alacrità, voglia di primeggiare... e il risultato è un paese che cresce perché ha tutti i numeri in regola per crescere. Una linea ascendente che continua senza scossoni fino alla fine degli anni Sessanta, quando però – verso la fine del decennio – ecco il primo scricchiolio che evidenzia che le cose non vanno.

Economia italiana: 65 anni in un grafico

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La gente comincia a mugugnare: solo il 5% degli italiani è ricco; gli altri sono usati come forza lavoro. Il boom c’è stato, ma inizia a diffondersi l’idea che quel boom economico non sia merito di tutti e che il successo non sia di tutti. E così, complice la recente rivoluzione mondiale del ’68, anche in Italia comincia a serpeggiare il malcontento. I governi si succedono vorticosamente: si aprono al centrosinistra, al PSI, Ma non basta. I lavoratori chiedono giustamente un riequilibrio del welfare, delle condizioni di vita e del benessere. Gli anni ’70 trascorrono, infatti, come gli anni del riequilibrio: una spinta verso la stabilità che però viene fatta male, sotto la spinta degli eventi e la pressione degli alleati Usa che temono di perdere l’Italia. Il nostro paese si scopre impaurito e scopre di avere una nuova classe dirigente, che non è più gigante e solida come quella che l’ha appena preceduta e ha un vizio tutto italiano: l’improvvisazione.
Non c’erano previsioni su quello sarebbe potuto succedere, nessuno ci aveva pensato e si dimostrava sempre più prepotente la necessità di mettere a punto un piano per ristab...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. PREFAZIONE di Bruno Tabacci
  3. INTRODUZIONE
  4. 1. L’ITALIA ALLA VIGILIA DELL’EXPO
  5. 2. MILANO E L’EXPO
  6. 3. LA STORIA DELLE EXPO
  7. 4. LA STORIA DELL’EXPO DI SHANGHAI
  8. 5. MA MILANO È PRONTA?
  9. 6. PERCHÉ MILANO? STORIA DELLA SCELTA
  10. 7. COMUNICARE L’EXPO
  11. 8. IL DIGITALE FARÀ LA PARTE DEL LEONE
  12. 9. EXPO: UNA VETRINA PER L’ITALIA
  13. 10. EXPO: UN VOLANO PER L’ECONOMIA
  14. 11. IL FUORI-EXPO OVVERO COME LE AZIENDE SI PRESENTANO
  15. 12. FEEDING THE PLANET: IL TEMA-OBIETTIVO DELLA NUOVA ITALIA
  16. Bibliografia
  17. Sitografia
  18. Gli autori: Diego Masi – Maria Luisa Ciccone
  19. Copyright