Le sirene hanno occhi viola
Mi sono seduto sul masso, lo stesso del mio primo giorno a Favignana. La tonnara è in condizioni di abbandono, archeologia industriale in avanzato stato di decomposizione.
Un bambino corre senza mai stancarsi sulla battigia sotto l’occhio attento di una giovane donna seduta su un asciugamano con la gonna alzata sino ai fianchi per permettere alle gambe di scaldarsi al sole del tardo pomeriggio.
Si prepara un altro tramonto con il cielo color malva, come ieri sera. Il mare è appena increspato dalla brezza fresca che porta sollievo dopo una giornata troppo calda per la fine di maggio. Chissà se è solo un caso che io sia tornato qui proprio nel periodo nel quale si teneva la mattanza. Da almeno un’ora osservo un pescatore che sta dipingendo una barca tirata in secca e appoggiata su pneumatici di auto. Lo scafo è di un bell’azzurro pastello, poi una fascia rossa, un’altra più sottile bianca e di nuovo l’azzurro sino al bordo. Di tanto in tanto l’uomo alza gli occhi per controllare un ammasso di nuvole nere che compie continui cambiamenti di rotta, ma non si decide a disperdersi verso il mare aperto e resta minaccioso a ridosso di Levanzo.
Non mi sono sfuggite le due sirene dipinte a prua, una per lato. Hanno seni grandi, sproporzionati rispetto al corpo che si rastrema per terminare in un’esile coda di pesce. Chissà, forse anche lui le ha incontrate, come Zu Sarino.
«Tengono occhi viola e se le guardi troppo addiventi scimunito. Parlano leggero, ti entrano dritte nel core e ti senti le gambe ca tremano.»
In quelle descrizioni Zu Sarino rappresentava il timore di tutti i maschi ad affrontare e comprendere il complesso animo femminile. E forse le sirene stesse hanno sempre rappresentato la metafora dei desideri segreti e frustrati dell’uomo nei confronti della forza e dell’energia della donna.
«Ma se ti danno confidenza, appoi la loro voce ti scioglie u sangu» diceva Zu Sarino socchiudendo gli occhi.
Una serie di onde, provocate dal passaggio di una nave al largo, si frange sulla riva. Smuovono il fondo e portano odore di alghe, poi a poco a poco si smorzano. Il pescatore ha finito e se ne va.
Questa volta non c’è stato impegno di lavoro che tenesse, e sono partito.
«Come? Annullare gli impegni per tutta la settimana?» mi ha chiesto sgranando gli occhi la mia segretaria.
«Sì, proprio così.»
Ed eccomi qua. Da quando a Milano dissi a Vera che sarei tornato da queste parti, sono trascorsi quindici anni, e non so più quanti dalla prima volta che ci venni. In realtà non si tratta di decenni, ma di secoli, tanta è stata la vita consumata.
La notizia della morte di Zu Beppe era attesa. Aveva già avuto due ictus, il secondo piuttosto serio. Lo scorso Natale non è venuto al telefono perché non riusciva più a parlare. Ha raggiunto Angela da qualche parte, forse. Lei se ne è andata due anni fa, di notte, senza accorgersene.
Poco prima di suo figlio Mimmo, il cantante di locali notturni di Atene. Era tornato qui, dopo il suo girovagare, stanco, con addosso un’epatite che alla fine ha avuto ragione della sua voglia di vivere.
A casa Mannino ora abita Vera con il figlio Giuseppe e la sua famiglia. Si è sposato tardi con Rita, una donna di Levanzo, riservata e di poche parole e ha due figli piccoli, Filippo e Gaetano. Mi è parso strano vedere Vera nei panni della nonna che governa e dirige la casa, anche perché la sua esile struttura fisica l’ha preservata dall’invecchiamento. Lavora come cuoca in un ristorante di lusso e si è sicuramente portata appresso l’eredità culinaria di Angela.
La cucina è stata rimodernata, sono sparite le immagini sacre sul muro, il pavimento è in cotto verniciato e la porzione di parete sopra i fornelli rivestita di piastrelle color zafferano.
«Nelle ultime settimane Mimmo si sedeva vicino a suo padre di fronte alla finestra, quella che tu conosci bene – ha detto Vera mentre bevevamo un caffè – erano capaci di restare lì in silenzio per ore. Lui, Mimmo, lo sapeva che aveva il tempo contato, ma non si è mai disperato. Aveva perso tutti i capelli, forse per le cure, e si metteva una parrucca. Ma non si vestiva più da donna. Canticchiava sempre le sue canzoni, in italiano, greco e inglese. Faceva lunghe passeggiate in riva al mare. Diceva di essere contento perché aveva fatto la vita che voleva, non aveva rimpianti. Scriveva lunghe lettere agli amici, e molte ne riceveva. È stato sereno e allegro sino all’ultimo.»
Filippo Errera vive da solo in una casa dietro il porto. Ho chiesto di Alfio: lei spera che presto possa fruire di un permesso e che, vista la buona condotta e la lunga detenzione, gli venga concessa la semilibertà.
L’emozione è stata forte appena sbarcato sull’isola. Quante volte avevo raccontato di Favignana a Valentina, quante volte le avevo promesso di farle conoscere questo luogo e la gente che lo abita. Ma per un motivo o per l’altro non ci siamo mai venuti. Poi non è stato più possibile. Così è il destino, o ciò che viene chiamato con questo nome. Un’amica in un libro regalatomi a un compleanno riportò questa frase nella prima pagina: ogni vita ha la sua porzione di dolore. Talvolta è proprio questa che ci risveglia. Ho fondati sospetti che si tratti di un detto buddista. Il libro era un saggio sulla reincarnazione, o meglio sulla presenza in noi di più vite, di un tale mezzo indiano e mezzo inglese, mezzo santone e mezzo ciarlatano. Temo che abbia avuto un certo successo poiché ho visto il volume in molti aeroporti, tradotto in diverse lingue. Probabilmente servì al guru per cambiare la Rolls Royce.
Non mi venne mai la curiosità di leggerlo, in compenso sulla frase dell’amica meditai spesso. Sì, è vero, non si può vivere con la sindrome di Peter Pan e bisogna crescere, evolvere, maturare. Ed è anche vero che la vita, come recita un vecchio adagio “è fatta di gioie e dolori”. Tuttavia ritengo che spesso non ci sia equilibrio tra le due cose.
Il Signore forse non sa far di calcolo e talvolta rifila a un nucleo famigliare o a un singolo individuo una montagna di sofferenze, come se dovesse giustiziarlo prima del tempo. In pratica un’espiazione in vita in grado di bilanciare le azioni di qualche decina di peccatori, ai quali viene riservata solo un’intossicazione alimentare. Forse ne punisce uno per avvisarne cento. “Avete visto” dice Colui che creò il mondo in sette giorni, “cosa sono capace di fare? Ecco, state accorti perché ci metto niente a precipitarvi nella disperazione”.
Ormai i miei sensi di colpa sono quasi del tutto sfumati, e la tarda estate della vita aiuta a essere più sereni. Eppure quando sarà il momento questa cosa la dovrò chiarire proprio con Lui. Visto che avremo a disposizione un tempo infinito la prenderò alla larga.
Se la ricorda quella cena, la prima volta che capitai a Favignana? Ma sì, signor Onniscente, quella del cuscus di pesce. Annuisce, quindi ricorda. Bene. Quella famiglia viveva del lavoro più duro del mondo. Come dice, il minatore è peggio? Non lo so mica, sa. Ma non tergiversiamo. Erano persone dignitose, oneste, ospitali. Mai una parola di rabbia per la loro condizione difficile, al massimo qualche sbuffo di Angela. Quella sera fummo felici. Felici con niente. Il cuscus lo consideravano un dono di Dio. È un modo di dire, lo so che lei non c’entra niente. Però non le sarà sfuggito con quale allegria consumammo il pasto, che gioia di vivere c’era attorno a quella tavola. Non chiedevano altro che tirare avanti in pace, tranquillamente. Invece, se esiste l’inferno, l’hanno già vissuto in terra. Prego? Non devo dubitare dell’esistenza del demonio? Scusi ma non è il momento per disquisizioni teologiche. La mia domanda è semplice. Perché? Non mi risponda subito, ci pensi. E adesso si metta comodo perché le parlerò di me. Così poi mi darà una spiegazione unica. Le raccomando solo di non tirare fuori la storia della Provvidenza che sa quel che fa. Io poi mi sistemerò qui fuori con il De Rerum Natura, che non avevo fatto in tempo a leggere in vita, in attesa della sua chiamata quando avrà pronta la risposta. Dunque io e Valentina.
Ci innamorammo sbucciando mandarini. L’avevo conosciuta a una cena di amici comuni, durante la quale scoprimmo di lavorare a poche decine di metri l’una dall’altro. Lei era avvocato presso uno studio legale molto rinomato. Io avevo scalato numerose posizioni aziendali e, poco dopo i trent’anni, avevo già in tasca una nomina a dirigente. Già allora dicevano che ero un mago della revisione dei bilanci. E pensare che volevo fare il domatore, ma se non fossi riuscito, allora la seconda scelta sarebbe stata il palombaro, non certo il contabile.
Valentina aveva una bellezza sobria, fatta più di eleganza che di apparenza. Si muoveva sempre con leggerezza, come leggera era la sua voce. Era di padre pugliese e madre altoatesina, un miscuglio riuscito alla perfezione. Sapeva essere schiva, tenace e determinata come una valligiana, ma anche passionale e talvolta furiosa come l’aria bollente del Salento a luglio.
Alla fine di quella cena ci accordammo per rivederci durante la pausa pranzo. Spesso si ingoiavano panini farciti dove le salse ammazzavano ogni sapore, portati direttamente in ufficio dal ragazzo del bar che stava al piano terreno. Trovammo però il modo per consumare quel pasto indecente all’aperto, chiacchierando e scoprendo una reciproca, istintiva simpatia. Sino a che un giorno la invitai a passeggiare sino al Castello Sforzesco che stava a pochi isolati di distanza. E durante il tragitto ero entrato in un negozio e avevo comprato dei mandarini.
«Perché?»
«Non lo so, mi piaceva il colore.»
Mi prese sotto braccio. Su un sedile di pietra all’interno del Castello, parlando di un film di Kubrick, io cominciai a sbucciare la frutta. A un certo punto smettemmo di parlare, dedicandoci solo agli agrumi. Ma al primo incrocio di sguardi entrambi capimmo che stava capitando qualcosa di strano. Lei si guardò attorno e si alzò di scatto.
«Devo andare, ho una memoria complicata da finire entro domani.»
Io rimasi seduto.
«Ci vediamo una sera di queste?»
Lei scoppiò a ridere e io avrei voluto fuggire. Ma la risata non era di scherno.
«Scusa a chi lo hai chiesto? Hai parlato con la testa girata dall’altra parte.»
Non sono mai stato timido. Quella fu la prima e l’unica volta, un segnale che non aveva bisogno di spiegazioni.
Come dice, Signore Onniscente? La storia è banale e identica a miliardi di incontri tra persone che si piacciono? Sì, è vero, ma la premessa era necessaria. Bene, accorcerò la storia. Le dirò solo che noi avevamo trovato l’elisir di lunga vita per un sentimento di per sé caduco e mutevole come l’amore. Si chiama armonia: qualsiasi cosa ci mettessimo a fare, fosse lavare l’insalata o vedere uno di quei film bulgari coi sottotitoli in russo....come quali? Quelli che danno nei cinema d’essai o in TV a notte fonda, quelli che quando finiscono uno si deve trattenere dal bere la candeggina...Sì, ha ragione, in questo modo ci distraiamo tutti e due. Ciò che vorrei significarle è che noi ci bastavamo. Nel senso che ci sentivamo bene e appagati anche da soli, senza bisogno di avere gente intorno. Pensi che entrambi eravamo abilissimi nell’usare le bacchette nei ristoranti cinesi... Non scuota la testa, non è un dettaglio di poco conto... Scusi, come dice? Che continuo a divagare, farfugliando cose senza interesse? In effetti è vero, ma dovevo prendere la rincorsa. È passato molto tempo e ormai riesco a guardare gli avvenimenti con distacco; però ogni tanto basta una frase, un suono, un colore, un odore e, non ci crederà, ma ancora adesso sento dei morsi dalle parti del cuore...va bene, va bene, adesso sono pronto.
Le ore che precedono una tragedia non sono più recuperabili dalla memoria. Forse perché è il cervello stesso che li cancella, o li nasconde per evitare di impazzire. O forse ciò che succede dopo va a incidere così profondamente da raschiare via pensieri e azioni superflue. Ricordo solo lo squillo del telefono alle tre di mattina. Mentre rispondevo realizzavo che a Milano erano le nove. Valentina mi informava che durante la notte c’era stato un problema e che il medico aveva chiamato l’ambulanza per portarla in ospedale.
È verosimile che abbia compiuto una serie di azioni ma non saprei dire quali. Probabilmente mi preparai per partire appena possibile da New York, andai in aeroporto, volai per otto ore, presi un taxi, entrai in ospedale.
Nessuna traccia invece dei miei pensieri durante quella giornata. Difatti se torno a quei momenti, dalla sveglia notturna passo direttamente a un medico in camice verde che mi fa strada e mi invita a entrare in una stanza. Di nuo...