Comunicazionepuntodoc numero 2. Professione comunicatore
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In questo numero, dedicato ad aggiornare il profilo delle professioni comunicative, dottorandi e ricercatori si confrontano con un set di autorevoli esperti della comunicazione "professata" nei settori del marketing, della pubblica amministrazione, del settore energetico e delle telecomunicazioni, della consulenza e della promozione, nelle organizzazioni pubbliche e private.
Interviste a Maurizio Beretta (Presidente Lega Calcio), Cristiano Fagnani (Energy Marketing Director Nike Western Europe), Andrea Scrosati (Vicepresidente Corporate e Marketing Sky Italia), Marco Minghetti (Responsabile Comunicazione Eni), Paolo Torchetti (Presidente e Amministratore Delegato Flumen), Silvia De Blasio (Direttore Comunicazione Vodafone), Remo Lucchi (Amministratore Delegato GfK Eurisko), Paolo Mazzanti (Capo Ufficio Stampa del Ministro dello Sviluppo Economico), Anna Martina (Direttore Comunicazione del Comune di Torino) Giuliana Antonucci (Marketing Unilever Italia) Emanuele Pirella (Fondatore e Presidente Lowe Pirella). Non mancano due importanti rappresentanti della comunicazione nel volontariato: Maria Teresa Rosito (CSVnet) e Cristiana Guccinelli (CESVOT).
Trame testuali ospita una ricostruzione delle rappresentazioni del corpo di Michael Jackson effettuate dai media, come componenti di un immaginario non soltanto visivo.
Le nuove forme della partecipazione politica mediata attraverso gli strumenti del Web 2.0, come espressione che accomuna in particolare le fasce più giovani e partecipanti della popolazione.
Le esperienze di studiosi internazionali come David Buckingham University of london e Pierre Sorlin La Sorbonne Nouvelle lette attraverso le testimonianze rilasciate nel loro soggiorno presso l'ateneo romano della Sapienza, sono al centro di due interventi ospitati dalla rubrica Oltre il confine.
La cura del numero è di Gianluca Comin, Direttore delle Relazioni Esterne di Enel.

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Informazioni

Evoluzioni creative

Intervista a Emanuele Pirella

a cura di Salvo Scibilia

Abstract

L’intervista si svolge lungo un itinerario che affronta temi scarsamente indagati all’interno dei processi creativi. Si passa dal ruolo dell’imprinting anglosassone nell’advertising italiano alle mutazioni derivanti dall’impatto delle nuove tecnologie; dai limiti nella cultura della comunicazione manifestati dalla committenza pubblica e privata alla ridefinizione di un’identità professionale.

Parole chiave

Creatività, Agenzie di pubblicità, Consumi, Cultura della pubblicità

Abstract

The interview touches topics insufficiently discussed within creative processes. It moves from the Anglo-Saxon imprinting on Italian advertising to the changes caused by the impact of new technologies; from the backwardness of public and private employing parties when dealing with the culture of communication to the redefinition of a professional identity.

Keywords

Creativity, Advertising agencies, Consumption, Advertising culture

Introduzione all’intervista

Emanuele Pirella è fondatore e Presidente dell’agenzia Lowe Lintas Pirella Gottsche e della Scuola di Emanuele Pirella. Nato e cresciuto a Parma, laureato a Bologna in Lettere Moderne, la sua vita professionale, dal 1964 ad oggi, si è svolta a Milano. È stato Presidente dell’Art Directors Club Italiano nel 1990 e la sua agenzia ha ricevuto per diverse volte il prestigioso Leone al Festival di Cannes, oltre ai maggiori riconoscimenti italiani. Con Tullio Pericoli, Pirella collabora con pagine di satira politica a L’espresso, al Corriere della Sera e a la Repubblica. Su L’espresso, è stato titolare della rubrica di recensioni televisive per 12 anni, attività culminata con il premio Flaiano (2000).
Lo incontro nel suo ufficio di via Pantano, a Milano; la stanza dove lavora è ingombra di carte e libri ma è soprattutto sgombra di premi, attestati e onorificenze al merito: non ci sono i trofei che quasi tutti i creativi espongono in ossequio a un ego che tende all’ipertrofico. Un’impennata d’orgoglio, Pirella se la concede solo per l’immortale sedere della ragazza in Jeans del “Chi mi ama mi segua”, ideata a suo tempo per Jesus1: un “settanta cento” irrigidito dal cartone e diligentemente abbandonato ai piedi di una libreria.
Via Pantano è stretta le tra due anime di Milano solitamente inconciliabili: il fruscio imbalsamato del terziario avanzato che transita su via Larga e la piazza prospiciente, quasi un’introduzione, all’Università Statale dove la cultura, anche se in affanno tra libri e fotocopie, mantiene ancora un suo decoroso domicilio. Il carattere di Pirella le contiene entrambe queste due anime sapientemente miscelate, forse è da qui che nascono, da un lato, il rapporto Franco e disinibito con il business; dall’altro, le tensioni di un intellettuale di sinistra, come egli stesso ama definirsi autoironicamente. Un giovanotto, all’epoca, che arriva da una Parma raffinata, acculturata e un po’ snob, per andare incontro ad un marketing angloamericano in salsa meneghina.
Parlare con Emanuele Pirella è un’impresa che, oltre ad avere prevedibili motivi di fascino, si rivela ardua. Non perché l’uomo non sia sufficientemente disponibile, anzi è affabile nei modi e squisito nell’eloquio, ma perché la natura del lavoro creativo è scivolosa e infida. Occorre essere interni a certe pratiche e a certi codici, altrimenti è facile smarrire tutto ciò che nel racconto professionale è più alluso che esplicitamente detto. La creatività sembrerebbe sorretta da un paradigma nel quale la fede, come per l’astrologia, gioca un ruolo fondamentale. Da fruitori bisogna crederci, superare lo shock, come quando dal figurativo si passa all’astratto: ciò che manca e di conseguenza sgomenta, è la certezza; ma anche da creativi bisogna crederci nel proprio potere sciamanico e di manipolazione, si deve osare: essere timidi o prudenti nel lavoro sarebbe un errore capitale.
Naturalmente anche per l’efficacia o meno del lavoro creativo esistono dei criteri di rilevazione empirica; ma sulle questioni che concernono visioni, approcci e metodi, le opinioni sono tante e la confusione non è da meno. Nel corso dell’intervista, che solleva temi rilevanti per le pratiche del lavoro creativo e per una ricostruzione delle linee evolutive di un mestiere discutibile e complesso, ho volutamente mantenuto disinvolto e libero il dialogo con Pirella, proprio per non snaturare l’intimità professionale di due persone che parlano la stessa lingua.
L’intervista abbraccia un arco temporale compreso tra la fine degli anni Sessanta e i nostri giorni e coincide con le principali vicende della creatività italiana applicata alla comunicazione commerciale. Ciò sollecita nell’intervistato la necessità di ridefinire in chiave retrospettiva il ruolo dell’intellettuale al cospetto di una nuova opportunità professionale. Si passa inoltre a considerare elementi e procedure che caratterizzano i rapporti creativi all’interno della coppia (art director - copywriter): dalle prospettive estetizzanti alla ricerca di soluzioni innovative. Altro punto cruciale: la relazione complessa tra libertà creativa e necessità di marketing. Ineludibile, a ridosso degli anni Novanta, il confronto con le nuove tecnologie che rimodellano in modo profondo la stessa identità professionale del creativo di ultima generazione. Cultura della comunicazione stagnante sia della sfera pubblica che di quella privata, contrassegnano infine, le difficoltà che la creatività italiana incontra nella congiuntura attuale.

Partirei da lontano, dagli anni Settanta, quando una certa intellighenzia, per lo più impegnata a sinistra, incontra una grande realtà lavorativa: la pubblicità, l’advertising di concezione angloamericana che con le proprie multinazionali della comunicazione per la prima volta sbarca in Italia. Vogliamo rievocare le linee essenziali di questo impatto? Come si raccordano questi intellettuali dei cineclub, che leggono i romanzi, che vengono da Lettere, da Filosofia?

L’incontro è del tutto casuale. Com’è accaduto a me, ci si poteva trovare a Milano cercando di entrare in una casa editrice con due o tre lettere di raccomandazione (ne avevo una di Vittorini, un’altra di Crovi)2. Le case editrici, però, in quel momento non assumevano, anzi erano riluttanti anche a concedere colloqui. Oppure, si cercava di entrare in un giornale, ma anche lì cominciava una piccola crisi. Il Giorno, dove volevo andare, non assumeva, anzi cominciava a licenziare. Mattei era morto da pochi anni. E allora qualche amico diceva: perché non provi in pubblicità? Stai lì sei mesi e poi vedi. Io dopo due mesi indovinai Ciquita, la banana 10 e lode3: gratificazioni, aumento di stipendio. E allora uno dice: sapete che c’è? Io sto qua acquattato e di sera scrivo i miei racconti, i miei romanzi. Allora l’industria culturale concedeva a chi sapeva scrivere di essere una specie di poligrafo.
Se dovessi mettere insieme tutte le cose che ho scritto e che non mi interessavano affatto, sarebbe un lavoro lungo. Una storia d’Italia a dispense, dagli etruschi a De Gasperi, per i Fratelli Fabbri, scritta insieme con altri tre ed uscita per tre anni, o la storia di Giuseppe Verdi, del quale non sapevo niente ma che si poteva realizzare con cinque o sei libri e un lavoro di collage. Ho scritto delle cose anche attendibili ma del tutto inutili per me. Mi pagavano, era una specie di secondo stipendio e l’importante era riuscire a fare anche di sera delle cose che mi interessavano. Attitudine che poi mi è rimasta: ho sempre cercato di fare altro accanto alla pubblicità, non perché volessi riscattare il lavoro di pubblicitario ma perché ho sempre voluto provare a suonare la tastiera per intero, facendo dei testi per Pericoli, o un romanzo per Marsilio, una rubrica di critica televisiva per L’espresso, per quindici anni. Ho voluto sempre fare un mestiere altro accanto alla pubblicità cercando di svolgere un’attività di import-export tra la pubblicità e la cultura.

Siamo agli inizi degli anni Settanta. Mi interessava sapere su cosa eventualmente, da parte del tuo mondo, si fondavano gli elementi di chiusura, di preclusione e di resistenza rispetto all’advertising. Com’è avvenuta questa trasmutazione di valori per cui un disvalore del tipo “tu te l’intendi col nemico” diventa, viceversa, un valore, qualcosa di appetibile?

Tieni conto che la pubblicità che si faceva allora era propaganda quasi totalmente dedicata ai beni di largo consumo: frigoriferi, detersivi per lavatrici, tutte cose deteriori. Non è come oggi: auto, servizi, banche, moda.
Allora eri costretto ad un bagno di realtà per cui passavi dall’aver studiato De Saussure a doverti applicare, a concentrarti sulla differenza tra Aiax e Dixan. Ma erano cose che potevano fare bene a un intellettualino com’ero io allora, che rischiava di perdersi nell’ingiustificato. Da un punto di vista politico io venivo assolto dai miei amici parmigiani perché ero quello più dotato. Gli altri avevano fatto i giornalisti. Quelli che lavoravano in giornali di destra venivano sbeffeggiati, gli altri cercavano di lavorare in giornali più impegnati come Il Giorno o di collaborare a Settimo Giorno, a qualche mensile più raffinato. Il fatto che qualcuno di noi lavorasse in pubblicità era considerato come un momentaneo disvalore che comunque non comportava l’esclusione da progetti comuni. Tant’è vero che ci s’incontrava la sera. Da me a Parma continuavamo a vederci con l’intenzione di fondare una casa editrice e cominciavamo a discutere facendo i conti: cosa pubblichiamo? Quali testi? Quali cose? In realtà volevamo pubblicare qualcosa che ci riscattasse.
Volevamo essere capaci di dimostrare che sapevamo fare altro rispetto alla pubblicità, volevamo segnalarci come gente che non si occupava solo di Soflan o di Lip e Perlana; volevamo distinguerci e portare avanti un discorso diverso.
I reparti creativi di allora erano composti di gente normale, rappresentavano un po’ la classe operaia dell’agenzia, a quei tempi. Non come i reparti account che erano fatti da nobili, conti: gente con tre o quattro cognomi. I creativi erano da non mostrare, erano quelli che sputavano per terra, persone raccogliticce, dalla biografia un po’ curiosa: l’ex giornalista cacciato da l’Unità, quello con la terza media, il figlio del portinaio: era la forza lavoro più bassa agli ordini dell’account che aveva il rapporto con il cliente; il creativo stava lì, in agenzia.
Sono stato io ad assumere nel mio gruppo gente un po’ come me: colta, più raffinata, più di sinistra.

Fa impressione il fatto che la dimensione-comunicazione, tanto all’interno del vecchio Partito Comunista quanto negli anni Ottanta e fino all’epoca dei DS, venisse ancora definita Agit-Prop, agitazione e propaganda, come ai tempi di Lenin. L’universo del consumo, inteso come categoria socio-economica, in pubblicità viene nobilitato perché l’incremento del consumo rende tutti contenti (account, creativi, clienti). Mi chiedo come faccia il politico (di sinistra specialmente) ad ignorare e a rimuovere un fenomeno così abnorme.

Semplicemente continua a non capire. Anche oggi. Io ho avuto l’occasione di fare campagne politiche per D’Alema, Veltroni, Prodi.

Anch’io, con Aldo Biasi, ne ho fatta una per Prodi, quella del 2006, La serietà al governo.

Io ho fatto la prima, nel 1996. In quella circostanza, per dirti quanto lontani fossero dall’essenza del nostro lavoro, vedevo che mi stimavano, e sai perché? Perché faccio Fulvia, perché collaboro a L’espresso, non perché ho fatto delle belle campagne pubblicitarie.
Salvo Veltroni, c’è una totale incomprensione del nostro lavoro: ci guardano come dei matti, con qualche curiosità ma senza tanto rispetto, continua una specie di prevenzione nei confronti del pubblicitario. Anche oggi, Scalfari quando vuole offendere Berlusconi, cosa dice di lui? “È un pubblicitario”.

Noi ci riteniamo degli incompresi, siamo gente che fa un mestiere misterioso e del quale diffidano in molti. Però al nostro in...

Indice dei contenuti

  1. Frontespizio
  2. Professione Comunicatore: Nuovi modelli, formazione e Response-ability. Editoriale di Gianluca Comin
  3. Un paese per giovani? Presente e futuro della Comunicazione. Editoriale di Mario Morcellini
  4. Tra mediazione e seduzione: il secondo tempo della comunicazione nelle aziende. Intervista a Maurizio Beretta
  5. Comunicatori on the edge. Intervista a Cristiano Fagnani
  6. Rubrica: Trame testuali
  7. Scelta, offerta, concorrenza: dalla parte del consumatore. Intervista ad Andrea Scrosati
  8. Rubrica: Il pastone rimediato
  9. Raccontare l’impresa. Humanistic Management e strumenti narrativi nel mondo aziendale. Intervista a Marco Minghetti
  10. Rubrica: Comunicazione oltre il confine
  11. Quando comunicare significa saper ascoltare. Intervista a Paolo Torchetti
  12. New media e responsabilità sociale. Una sfida e un’opportunità per le imprese. Intervista a Silvia De Blasio
  13. Rubrica: Metafore dell’industria culturale
  14. L’Italia stilizzata. Una rappresentazione tra multimedialità, cittadinanza e pratiche di consumo. Intervista a Remo Lucchi
  15. Rubrica: PolitecniCom
  16. Professione portavoce. Intervista a Paolo Mazzanti
  17. Comunicare la città. Intervista ad Anna Martina
  18. Rubrica: BLURP!
  19. Quando il marketing è comunicazione. Intervista a Giuliana Antonucci
  20. Le nuove sfide del volontariato. Intervista a Cristiana Guccinelli e Maria Teresa Rosito
  21. Senza fissa dimora. di Mihaela Gavrila
  22. Evoluzioni creative. Intervista a Emanuele Pirella
  23. Colophon