A mani vuote. Il Decalogo di Kieslowski tra scandalo e falsa testimonianza
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A mani vuote. Il Decalogo di Kieslowski tra scandalo e falsa testimonianza

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Mentre ci immedesimiamo con i drammi del Decalogo, lo sguardo di Kieslowski è altrove: su tutta una serie di dettagli inspiegabili, appena percettibili, che creano però, tanto nello spettatore quanto nel personaggio del film un vago malessere. Questi particolari stravaganti, disturbanti, a volte inquietanti, finiscono per rendere opaca la narrazione, per caricarla di una dimensione bizzarra e vagamente minacciosa. Nonostante Kieslowski affermi che essi facciano parte di "una realtà che non si può capire e non si può sistemare in un ordine logico", noi li consideriamo come sintomi di un discorso nascosto che mira a sovvertire quello manifesto della narrazione. Grazie a questa "altra scena", vera cifra stilistica di Kieslowski, il Decalogo sfugge a quella falsa testimonianza che ne occulta lo scandalo radicale. Questo scandalo (come ogni vero scandalo) non è immediatamente visibile: bisogna dedurlo dietro la captatio benevolentiae di una petizione "etica" a cui pubblico e critica hanno aderito fin troppo zelantemente. Sandra Puiatti lavora presso il servizio di neuropsichiatria infantile a Pordenone
Moreno Manghi è psicanalista a Sacile (PN)

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788899193096
Argomento
Art
Categoria
Photography

DECALOGO 1-BIS

(Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli)
Ci sono nell’infanzia terribili e indispensabili esperienze che scuotono violentemente il mondo chiuso e protetto del bambino, in cui irrompe l’estraneità di un avvenimento incommensurabile e incomprensibile, come la nascita, la morte, il godimento sessuale…
Queste esperienze sono per il bambino le occasioni per cominciare a porre delle domande fondamentali a colui o a coloro che sono supposti detenere le risposte, domande in cui è in gioco l’abbozzo di una prima separazione dal pensiero e dal linguaggio dei genitori e la difficile conquista di un’autonomia di giudizio.
Alle domande di Pawel – vero banco di prova del sapere del padre e nocciolo di Decalogo 1 – nate dallo sconvolgimento suscitatogli dall’incontro con un cane morto congelato vicino ai bidoni dell’immondizia, Krzysztof è incapace di rispondere su un piano diverso da quello banalmente razionalistico. “Perché la gente muore?” – chiede Pawel; “Il cuore smette di pompare, il sangue non affluisce più al cervello, e così tutto finisce”, risponde il padre, che, barando, sostituisce alla radicalità del “perché”, un “come”. Pawel non gli pone, infatti, una generica domanda sulle cause della morte; “Perché la gente muore?” per lui può solo significare: “Perché si ‘muore come un cane’, nel freddo, nella solitudine, nell’indifferenza, abbandonato da tutti nel mezzo di un popolato condominio?”
Insomma, benché Pawel, che vive con il padre, sia del tutto trasparente (“Chissà, sospira, se la mamma mi telefonerà per farmi gli auguri di Natale?”; ovvero: “Anch’io sono solo come un cane”) a Krzysztof sfugge che il bambino si è identificato al cane morto; così la rabbia, l’indignazione, il turbamento, la profonda commozione che da lui trapelano, rimangono senza ascolto, come testimoniano le risposte che riceve dal padre, puramente oggettive, neutre e impersonali.
Abbiamo qui la conferma che la domanda non è fatta per avere una risposta, che essa non mette alla prova il sapere ma il desiderio dell’altro, una verità che si palesa al massimo grado nelle domande del bambino.
Non si tratta né di avere sempre la risposta pronta alle domande di un figlio, né di fare lo gnorri, lasciando cadere una domanda troppo impegnativa, che è giunta “troppo presto”, ma di resistere alla tentazione di ricoprire tutta la realtà di significati e di spiegazioni; ci sono delle domande di fronte a cui si deve tacere, delle domande che impongono di ammutolire, perché qualsiasi risposta – la più intelligente, la più saggia – usurpa la dimensione di verità che le ha originate.
Che cosa rivelano le domande di Pawel, se non che la solitudine, come dice Genet, è la nostra gloria più certa? Che nessun Altro dell’amore risponderà mai più al suo appello di bambino se non dicendo falsa testimonianza? Ancora un passo nella direzione di questa precoce disillusione e il bambino arriverà a scoprire che questo supposto Altro dell’amore non solo è capace di omissione di soccorso ma di compiere atti di una malvagità senza limiti.
“Ancora un passo” che però rischia di farlo cadere nel laghetto ghiacciato o di trasformarlo in uno Jacek (Decalogo 5).
Fin da subito capiamo come il rapporto dell’adulto con questo bambino sia infinitamente delicato, arrischiato, precario, a causa del “singolare e sconcertante rapporto che Pawel[…] ha con la morte, o meglio con il desiderio di morte”1, di cui il padre e la zia non si accorgono, tutti presi dai loro principi: credere in Dio / non credere in Dio, Dio è in un abbraccio / Dio è in un linguaggio informatico.
Come può un bambino avere un rapporto con il desiderio di morte? Giovanni Sias, dopo la lettura della prima stesura di questo testo, ha francamente ammesso che l’ipotesi del desiderio di morte nel bambino è per lui inconcepibile, chiedendone ragione. In effetti, se noi la sosteniamo possibile in un bambino, non è a causa di “traumi” legati alla sua peculiare vita personale, alla sua storia, e nemmeno perché egli ha dovuto precocemente affrontare (senza protezione) uno scandalo insostenibile per il suo pensiero; ma è a causa del fatto che il bambino scopre di essere solo a sostenere lo scandalo, scopre, cioè, che la colpa dell’adulto non è quella di averlo scandalizzato ma di non saper sostenere quello scandalo. Ed è proprio in questo essere lasciato solo che può affacciarsi il desiderio di morte, che nel bambino non si manifesta certo in forma di contrizione ma per esempio nell’indifferenza, se non nel vero e proprio sprezzo, del pericolo (l’“incoscienza” infantile del senso comune) e nell’azzardo.
Indubbiamente, perché tutto questo si verifichi occorrono determinate condizioni: non condizioni “empiriche”, come abbiamo detto, ma piuttosto la mancata vigilanza che non ha preservato il bambino da un sapere troppo precoce: Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare. (Matteo, 18,6)
Di che scandalo si tratta? Lo abbiamo visto:
– la non risposta dell’Altro dell’amore all’appello del bambino, che rimane nell’Hilflosigkeit, parola eminente dell’etica freudiana, cioè nell’abbandono e nella solitudine assoluta, senza soccorso e senza ricorso2;
– la scoperta della malvagità “oscena e feroce” che alberga nel cuore umano.
Pawel, come tutti i bambini, non sa ancora significare la sua terribile scoperta, non sa che cosa lo sconvolge così tanto. Con le sue domande incalzanti non cerca delle risposte, meno che mai delle consolazioni, ma di accertarsi che anche il padre sia a conoscenza di quello scandalo, di come vi abbia reagito, di come abbia potuto tollerarlo, di come abbia potuto sopravvivervi. L’errore fondamentale del padre è invece di cercare di dare delle risposte, delle spiegazioni che, stupide o intelligenti, ignoranti o “informate”, suonano inevitabilmente a Pawel non solo come terribilmente insoddisfacenti ma come false testimonianze. Il padre, scopre Pawel, nel suo goffo sforzarsi di rispondere, non sa, non ha voluto sapere, non vuole sapere. È questo a perdere il bambino che, rimasto solo a sostenere l’insostenibile, a un certo punto può lasciarsi andare al desiderio di morte.
Il peggio non è lo scandalo. Se il bambino ottenesse una prova che l’altro con cui si confida fosse anch’egli passato per lo scandalo, non solo riuscirebbe a sostenerlo ma, grazie alla conoscenza dello scandalo, potrebbe più facilmente separarsi da lui, “lasciare il padre e la madre” e conquistare una sua autonomia. Invece qualcosa in Decalogo 1 non passa tra il padre e il figlio, tra il figlio e il padre, e rimane nell’inconscio.
Lo vediamo nel dialogo decisivo sul cane morto, dove Krzysztof elude completamente l’emergenza dell’ira in Pawel. Quest’ira è ciò che tende ad articolarsi in parole per significare lo scandalo e aprirsi un varco verso la sua denuncia. È il punto nodale, ciò che viene mancato.
Non è un caso se in tutti i luoghi in cui nel Vangelo ci si riferisce allo scandalo, l’ira è incontenibile e il linguaggio parossistico: Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di scandalo, taglialo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che avere due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. (Mt., 18,8) E se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te; è meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, che avere due occhi ed essere gettato nella Geenna del fuoco. (Mt., 18,9) Ciò che in questi e in altri passi bisogna osservare, è il nesso tra lo scandalo e l’ira, e l’estrema violenza del linguaggio, assai prossima all’atto.
Krzysztof ignora l’ira di Pawel fino a quando, anche se troppo tardi, arriva finalmente a riconoscerla in sé. Da qui l’acuta osservazione di Gabriella Ripa di Meana:
I personaggi di questo film vedono franare col ghiaccio del laghetto, il sistema di certezze con cui plasmavano il proprio destino. La morte del bambino introduce una dimensione di esilio radicale dalle rappresentazioni dell’essere. Non c’è punizione, ma agnizione3.
L’autrice commenta così il gesto finale di Krzysztof, che nella sua ira abbatte l’altare della Madonna nera di Czestochowa:
Il gesto iconoclasta di Krzysztof, sbalordito e scandalizzato da quanto è potuto accadere4, rappresenta con efficacia ciò che resta del soggetto dell’inconscio di fronte alla rappresentazione dell’impossibile5.
Contrariamente a tanti commentatori che hanno visto nel gesto di Krzysztof la capitolazione del suo ateismo (“Tu hai voluto portarmelo via”) l’ira è appunto il segno non della “punizione” che Krzysztof avrebbe subito, ma della sua “agnizione”: il riconoscimento di qualcosa che, di padre in figlio e di figlio in padre, solo ora è passato.

1 Gabriella Ripa di Meana, La morale dell’altro, cit., p. 42 [edizione pdf, p. 30].
2 Hilflos, ”senza aiuto”.
3 Ibid., p. 49 [edizione pdf, p. 36] corsivi miei. L’agnizione, dal latino agnitio, riconoscimento, è descritta da Aristotele nella Poetica come un improvviso e inaspettato riconoscimento che determina una svolta decisiva nella tragedia antica.
4 Si tratta dello stesso sbalordimento e dello stesso scandalo provato da Pawel, ma che “non passa” nel padre.
5 Ibid., p. 51 [edizione pdf, p. 38] corsivi miei.

DECALOGO 3

(La ripresa)
Un uomo e una donna legati cercano di slegarsi e gridano che li sleghino subito. O io mi sbaglio o sono due sposati per forza.
F. Goya, Caprichos, n.75, No hay quien nos desate? (“Non c’è nessuno che ci sleghi?”)
Decalogo 3 è considerato unanimemente un film “sulla solitudine, sulla scommessa che la solidarietà esiste ancora e sullo spendersi per gli altri”, anche a costo di lasciarsi trascinare fuori di casa e abbandonare la famiglia la notte di Natale, coinvolti in un assurdo giro a vuoto privo di qualunque attrattiva. Formalmente, pur non mancando di originalità, il film pagherebbe dazio a un certo filone di genere – quello della “solitudine esistenziale” – che segue convenzioni piuttosto diffuse. Sarebbe infine un film “irrisolto” sia sul piano della forma che del contenuto (sempre che si accetti una simile distinzione) e per certi versi irritante (anche se nessuno, a parte la sua supposta “inconcludenza”, ha saputo precisare in che cosa lo sia); in ogni caso, l’episodio senza dubbio meno riuscito della serie1.
Ritroviamo dunque tutti gli elementi della falsa testimonianza: proprio come Decalogo 1 (solo per fare un esempio) ci parla di cosa succede “Quando Dio è un computer”, il tema di Decalogo 3 potrebbe intitolarsi “Depressi il dì di festa”2.
Ma ancora una volta ciò che ci è dato da vedere, la prospettiva centrale a cui ci identifichiamo, così nitida, è distorta da qualcosa che in Decalogo 3 non si manifesta attraverso dei particolari incongruenti, come abbiamo visto per altri episodi, ma piuttosto nell’estetica del film. In effetti, il nostro sguardo viene ammaliato da una girandola di luminescenze – lampade, fanali, lampioni, candele, semafori, addobbi natalizi – che si riflettono sulla superficie di vetri, finestre, parabrezza, asfalti bagnati; tutto uno scintillio di luci colorate e intermittenti che forma una sorta di sfondo flou su cui si stagliano i volti rigidi, marcati, tesi e disfatti dei protagonisti, insistentemente e perfino crudamente ritratti in primo piano dalla macchina da presa. È come se al di là del dramma incarnato da quei volti scavati e consunti – resi ancora più crudi dalle frasi aspre e violente con cui i due amanti di un tempo si lacerano mentre attraversano il paesaggio gelido e desolato di una Varsavia deserta – ammiccasse, irraggiungibile, il perduto incanto di una fiabesca Notte di Natale così come può apparire agli occhi di un bambino non ancora strappato al tempo dell’infanzia.
Certamente, nessuno...

Indice dei contenuti

  1. Indice
  2. PRESENTAZIONE
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. AVVERTENZA
  6. Epigrafe
  7. INTRODUZIONE
  8. DECALOGO 8 (Trauma mon amour)
  9. DECALOGO 2 (Ritratto di signora)
  10. DECALOGO 2-BIS (Si salvi chi può)
  11. DECALOGO 5 (Hybris)
  12. DECALOGO 1-BIS (Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli)
  13. DECALOGO 3 (La ripresa)
  14. DECALOGO 4 (Il romanzo familiare del figlio)
  15. DECALOGO 7 (L'impero della madre)
  16. DECALOGO 9 (Soggetto a una donna particolare)
  17. DECALOGO 6 (L'amore filadelfico)
  18. DECALOGO 10 (Tirarsi fuori)
  19. BIBLIOGRAFIA