I nuovi figli
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Dal disagio nella civiltà al suo oltraggio

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Dal disagio nella civiltà al suo oltraggio

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SECONDA EDIZIONE ACCRESCIUTA Una linea tematica unisce e coagula i quattro scritti qui raccolti attorno a un titolo comune – I nuovi figli – scelto nel tentativo di raggiungere una generazione plurima che sembra vivere il proprio tempo in un deserto di simbolico, o meglio in una vera e propria penuria di anima, particolarmente grave per chi cominci ad affacciarsi su una civiltà come l'attuale, che impone la violenza e la confusione di una rinnovata barbarie.
Queste pagine, quindi, non hanno la pretesa o l'ingenuità di auspicare l'avvento di una qualche utopia dell'esistere, ma cercano piuttosto di sollecitare il risveglio di quei valori di rispetto, coralità, attenzione, riserbo, incertezza e amore che il nostro tempo commerciante, internautico, performante, smemorato e competitivo ha denigrato e denigra nell'essere umano, a cominciare dalla sua più tenera età.
È così che ogni singolo io, dai suoi primi vagiti, si allena all'esercizio del governo, del ricatto, della fretta e dell'appropriazione, imparando in tal modo a sdegnare, fin dall'origine della vita, una delle conquiste più affascinanti e più ardue che ci siano state tramandate dalla teoria e dalla pratica dell'inconscio freudiano. Mi riferisco a quella rivoluzione aspra, ma essenziale, secondo cui l'io non è padrone in casa propria.
Sto accennando a una proposizione autenticamente eversiva che se, ai tempi del disagio nella civiltà, è stata certo confutata e anche espiata dai tormenti e dalle controversie di ciascuno, tuttavia oggi, in tempi devastati dall'oltraggio della civiltà, viene da ognuno energicamente liquidata, quando non diffamata e respinta.
Così, giovani e non giovani, ci si trova privati fondamentalmente dell'Altro ovvero di quanto ci può rendere ulteriori e può dare respiro simbolico al nostro stare col mondo, nel mondo.
Rivolgersi ai figli d'altronde significa anche ripescare, grazie a loro, passato presente e avvenire in un tentativo di coniugazione tra quanto del passato non è ancora accaduto e quanto del futuro chiede al presente di venire sognato e non solo affannosamente anticipato e gestito.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788899193188
Argomento
Psicologia
Categoria
Psicoanalisi
I NUOVI FIGLI

INTRODUZIONE

Introduco brevemente i quattro scritti che seguono intanto per giustificarne il tono “conferenziale” che li distingue rispetto a eventuali capitoli di un libro immaginato come un’opera puramente scrittoria e non (mentre questo è il caso) testi disgiunti, orditi per adempiere ad appuntamenti presi con un pubblico interlocutore.
Resta comunque il fatto che una linea tematica li unisce e li coagula attorno a un titolo comune – I nuovi figli – scelto nel tentativo di raggiungere una generazione plurima che sembra vivere il proprio tempo in un deserto di simbolico, o meglio in una vera e propria penuria di ψυχή (anima), particolarmente grave per chi cominci ad affacciarsi su una civiltà come l’attuale, che impone la violenza e la confusione di una rinnovata barbarie.
Rivolgersi ai figli d’altronde significa anche ripescare, grazie a loro, passato presente e avvenire in un tentativo di coniugazione tra quanto del passato non è ancora accaduto e quanto del futuro chiede al presente di venire sognato e non solo affannosamente anticipato e gestito.
Queste pagine, quindi, non hanno la pretesa o l’ingenuità di auspicare l’avvento di una qualche utopia dell’esistere, ma cercano piuttosto di sollecitare il risveglio di quei valori di rispetto, coralità, attenzione, riserbo, incertezza e amore che il nostro tempo commerciante, internautico, performante, smemorato e competitivo ha denigrato e denigra nell’essere umano, a cominciare dalla sua più tenera età.
È così che ogni singolo io, dai suoi primi vagiti, si allena all’esercizio del governo, del ricatto, della fretta e dell’appropriazione, imparando in tal modo a sdegnare, fin dall’origine della vita, una delle conquiste più affascinanti e più ardue che ci siano state tramandate dalla teoria e dalla pratica dell’inconscio freudiano. Mi riferisco a quella rivoluzione aspra, ma essenziale, secondo cui l’io non è padrone in casa propria.
Sto accennando a una proposizione autenticamente eversiva che se, ai tempi del disagio nella civiltà, è stata certo confutata e anche espiata dai tormenti e dalle controversie di ciascuno, tuttavia oggi, in tempi devastati dall’oltraggio della civiltà, viene da ognuno energicamente liquidata, quando non diffamata e respinta.
Ma questa peculiare posizione dell’io mi sento, insieme ad alcuni amici della psicanalisi (analisti e non analisti), di sostenerla come un’autentica proposta di civiltà.
Penso infatti che il migliore contributo al risveglio di una nuova etica del disagio sia quello di indebolire il padrone che ci abita, mettendolo in ascolto delle “voci di dentro e di fuori”: voci spiazzanti che, togliendo centralità all’io, offrono al soggetto l’opportunità di scoprire ombre, vaghezza, stupore e infinito.
Ancora: intendo sia una proposta di civiltà il recupero delle improvvisazioni della parola, quando parla a partire dalle incognite di un sogno come dai vuoti di un’amnesia, o in ogni caso quando rispetta il mistero dell’altro quale fondamento del suo essere se stessa. Della parola, quando sostiene l’onore e l’onere di ciò che proviene in una qualche forma spuria dall’inconscio; della parola che non vuole ignorare, ma viceversa conoscere spunti di inattesa verità; della parola, quindi, che non si sostiene su accezioni di senso egosintoniche, egolatriche, autoreferenziali, oppure cosiddette autonome.
Mi sembra dunque che il passaggio dal disagio (luogo di dubbi, di contraddizioni e conflitti; spazio del soggetto, del sintomo e dei suoi fantasmi) all’oltraggio (luogo di certezze uniformate, del pensare positivo, dell’euforia tecnologica e dei protocolli igienici; spazio di un odio senza alternative e di un sapere senza crisi) abbia svelato che la nostra cultura media è un oggetto mercantile e intrattabile che cerca di fare dei nuovi e dei vecchi figli delle creature tutte-io... quindi, in debito d’inconscio.
Mi riferisco a creature prigioniere di spazi privati nei quali ridursi a pensare soltanto a se stesse, mentre – povere marionette egocentriche e informatiche – si rivelano manovrate da una cultura prescrittiva, fatta di oggetti consumati e subito rigettati. Così, giovani e non giovani, ci si trova privati fondamentalmente dell’Altro ovvero di quanto ci può rendere ulteriori e può dare respiro simbolico al nostro stare col mondo, nel mondo.
La cultura standardizzata non ne vuole sapere di quello spirito critico che, con le sue frecce affilate, sta anche alla psicanalisi difendere, sostenere ed esercitare.
Nell’epoca delle tecnoscienze e dell’homo œconomicus la ricerca psicanalitica deve non solo tollerare, ma addirittura auspicare, di restare un sapere di crisi. Intendo un sapere che non miri a validare l’ordine sociale egemone, legittimandone le logiche di dominazione nonché i valori stabiliti dai criteri di sopravvivenza del mercato globale.
Una ricerca analitica dovrebbe mantenersi spregiudicata, cioè indifferente ai pregiudizi, primi fra tutti quelli della sua disciplina; dovrebbe ricordarsi e ricordare che il singolo, in nome della sua divisione soggettiva, potrebbe voler chiedere altro, mentre sembra avere assorbito proprio la coazione a chiedere senza pace sempre e soltanto che i conti tornino e che il mercato dei risultati appaghi.
Accade così che, a simili condizioni di profonda perdita di spiritualità, finiscano per avere successo proposte tribali di affiliazione pronte ad abusare dei linguaggi delle macchine, trasformando tutto (Allah incluso) in mercanzia e spettacolo. Espropriati del loro singolo desiderio e della loro unicità di persone, oggetti da buttare tra gli oggetti da comprare, i militanti del terrore fanno olocausto di sé e degli altri in nome di un bisogno violento e disperato di aver qualcosa in cui credere e dei “fratelli” in cui sperare.
Nel cuore di un’egemonia culturale in cui il savoir faire di ciascuno è confiscato da una macchina immateriale iperattiva, rappresentata dai protocolli di valutazione e dalle regole della buona pratica massificata, la soggettività tende a scomparire a vantaggio degli apparati di adattamento. Penso del resto che le ricerche di mercato siano davvero restrittive perché trasformano il soggetto in gruppo, classe e categoria sottovalutando così il talento di ciascuno ossia il potenziale magari esistente in ciascuno.
Forse gli psicanalisti stessi hanno enfatizzato l’importanza della domanda, della domanda di analisi per esempio, come se senza di essa si fosse necessariamente fuori dall’universo dell’inconscio. Ora l’attesa discriminante di una domanda d’analisi adeguata e ben posta rischia di fare dell’incontro analitico un cliché, fondando le basi per fare scuola se non addirittura per fare setta.
Invece è la libertà dell’offerta, ovvero la sua disponibilità al contropiede e alla sorpresa, che non dobbiamo mai smettere di cercare e al tempo stesso, appunto, di offrire.
E perciò tendo a credere che, anche nel cuore di tanta distorsione soggettiva sociale e civile, esista e insista molto altro: l’immaginazione, il sintomo, il sogno, l’attesa e l’orgoglio di coloro che affidano ancora alle risorse simboliche (limiti fondamentali al dilagare dei singoli io) il desiderio di cimentarsi con l’impossibile della verità.
Siano essi analizzanti, analisti o non analisti (poeti, scienziati, passanti) poco importa; l’importante – secondo me – è che sia qualcuno che profondamente sa e sente come il fatto di parla...

Indice dei contenuti

  1. Presentazione
  2. Indice
  3. Frontespizio
  4. Colophon
  5. Nota ai testi
  6. I nuovi figli